Salone del libro, Raimo, Zerocalcare, Wu Ming: davvero disertate? Fascista è compilare liste di proscrizione
SALONE DEL LIBRO TORINO POLEMICHE – Ovviamente tutti hanno il diritto di impazzire. Ma proprio in questi casi abbiamo il dovere di tenere gli occhi aperti. Ma davvero Christian Raimo. Zerocalcare e altre persone che di solito leggo e stimo, in nome dei valori democratici e dell’antifascismo, contestano il salone del libro di Torino per i suoi inviti?
Davvero chiedono di boicottare alcuni degli autori invitati? Davvero in nome dei valori democratici e liberali si può compilare una sorta di moderna lista di proscrizione, dove si stabilisce chi è fascista e chi no, scegliendo in una corte di scrittori, giornalisti e opinionisti e case editrici?
E quindi Francesco Borgonovo, Alessandro Giuli o – per dire – Pietrangelo Buttafuoco, dovrebbero essere banditi da una rassegna democratica, in nome del tasso di fascistometria stabilito da qualcuno, non si sa come, in nome di presunti valori democratici? Davvero basta l’epiteto “vicina a Casapound” per bandire una casa editrice o un autore?
Fino a ieri nessuno aveva sentito parlare della Altaforte, etichetta tipografica che ho scoperto essere ispirata ad un verso di Pound, e che è animata da un militante di Casapound.
Scopro che questa casa editrice ha pubblicato solo nove volumi, tra cui il famoso libro intervista al leader della Lega “Io sono Matteo Salvini”, il titolo che ha acceso la polemica, e che senza questa campagna di boicottaggio sarebbe finito nel dimenticatoio in poche ore.
Ma davvero Raimo si dimette dal suo ruolo di consulente del salone e chiama alla campagna di boicottaggio, ma poi, come leggo sul Corriere, celebra ugualmente il suo monologo su Leonardo Sciascia (anche se non più da organizzatore), ma solo “da autore e da cittadino”?
Davvero Sandro Veronesi scrive oggi “È giusto andare”, ma subito dopo chiede alla giustizia e alle autorità, di decidere se i fascisti (scrittori o editori) vadano arrestati o meno per la violazione della XII disposizione transitoria?
Sarebbe davvero auspicabile che fosse un magistrato a compilare, come nel ventennio, la lista dei buoni d dei cattivi? Ma stiamo scherzando? Davvero tanti altri autori, coprendosi di ridicolo, scrivono e dicono che andranno a Torino anche se non vorrebbero andare, perché la rassegna ospita – peraltro in uno spazio a pagamento – la presentazione di un titolo edito dalla casa editrice di Francesco Polacchi?
Io, per quel che mi riguarda, da storico mancato, ho molti dubbi anche sull’idea che si debbano boicottare persino i libri più ripugnanti. E faccio qui l’esempio più estremo incontrato nella mia carriera di cronista di ciò che considero culturalmente raccapricciante.
Se, per esempio, ci fosse un editore che pubblica testi revisionisti, non credo sarebbe giusto bandirlo, esattamente come trenta anni fa, da antifascista, non credevo fosse giusto impedire di parlare in Italia allo storico David Irwing.
E credevo che fosse assurdo organizzare cortei – accadde anche questo – contro Renzo De Felice per una sua lectio magistralis a La Sapienza, come ritorsione per la sua biografia di Benito Mussolini (che ovviamente nessuno dei suoi contestatori aveva letto).
Era giusto fare a De Felice tutte le domande, anche le più provocatorie, ma non era giusto dire che si cercasse di imbavagliarlo con le cariche degli autonomi e con i cori (peraltro divertenti) “De Felice/ sei un luminare/ ti manca solo Attila / da riabilitare”.
Io quel giorno, dentro il perimetro di una Sapienza militarizzata c’ero, e al confronto di quello scontro, le polemiche di Torino sembrano una farsa. Dico questo perché la democrazia non conosce e non può conoscere la censura e l’ostracismo.
Se qualcuno vuole sostenere che la terra è piatta, o che Auschwitz era un parco a tema (memorabile battuta di Woody Allen), non deve essere un decreto di polizia a impedirgli di dirlo (o scriverlo).
Non può essere una ordinanza restrittiva consegnata da un gendarme, o un bando: ma piuttosto il senso del ridicolo. Io credo molto al valore delle proteste e alle contestazioni civili, quelle che costano fatica, piuttosto che ai veti e alle censure, che non costano nulla.
Se qualcuno scrive un libro su Augusto Pinochet Duarte, per dire che era un benefattore, vado a battere sulle pentole, come fecero le donne del movimento delle “casseruolas”, con gli ex torturatori. Ma non chiedo che il libro sia mandato al macero.
La battaglia delle idee di combatte con le idee, non con le crociate e con le fatwe. E ho sempre creduto che il compito di ogni democratico fosse smentire la provocazione caustica riassunta, proprio su questo punto decisivo della libertà, nel celebre aforisma di Leo Longanesi, quello secondo cui “Esistono due forme di fascismo: il fascismo e l’antifascismo”.
Ecco perché il punto è questo: la democrazia è il terreno della battaglia delle idee, ed è il luogo in cui tutti hanno diritto di parola e di cittadinanza.
Non è un caso che le censure tipografiche siano il gene distintivo dei regimi illiberali. Non è un caso che i roghi dei libri siano stati lo stigma, la carta di identità, e la visione più immaginifica e feroce del nazismo.
I libri non si bruciano, mai. Tuttalpiù si stroncano. È la democrazia, bellezza.