I misteri della Silicon Valley: i segreti dietro le immagini ufficiali delle grandi compagnie tecnologiche
Il libro "Silicon Valley – No_code Life" del fotografo iraniano americano Ramak Fazel edito da Rizzoli racconta la vera vita in un luogo che, da un punto di vista prettamente geografico, non esiste
La statua, posticcia e kitsch, non ha nulla di sacro. Svetta tra una siepe curatissima, di un verde smeraldino quasi finto, e cinta da cespugli di fiori, mentre alcuni fedeli sono inginocchiati ai suoi piedi, intenti a pregare. Alle spalle della gigantesca Madonna, la sagoma della sede della McAfee, azienda specializzata in antivirus il cui fondatore, John McAfee, attualmente detenuto nelle galere sudamericane, ha una biografia che non sfigurerebbe in un romanzo distopico cyberpunk e che rappresenta, nella sua carne, nelle sue ossessioni, nel suo radicalismo, la negazione perfetta di quella santità plastificata.
Bandido, libertario, eccessivo, aspirante suicida, in fuga dai suoi stessi demoni, una esistenza spesa tra droga, donne bellissime, denaro a fiumi, alcolismo e fantasmi di antichi traumi, mente geniale dilatata sul ciglio di un abisso in cui invenzione, competizione spinta all’estremo, innovazione si producono nella danza macabra di una nuova escatologia.
McAfee è divenuto miliardario grazie a una brillante mente matematica e al gusto per l’eccesso, sfruttando sapientemente il millenarismo digitale dall’aroma medievale che ha contraddistinto per anni l’ecosistema dell’informatica. Il sacro terrore del Millennium Bug e di azzeramenti globali della tecnologia, ciò che Don DeLillo ha descritto meravigliosamente di recente nel suo romanzo ‘Il silenzio’, immaginando che in tempi pandemici tutti i nostri device tecnologici, preda di un misterioso virus, si spengano, condannandoci alla cecità e al silenzio, appunto.
E McAfee ha risposto, alle sollecitazioni di mercato e alla ansia degli utenti del digitale, escogitando software di protezione dalle intrusioni informatiche e dai virus sempre più diffusi, sempre più intelligenti, sempre più pervasivi. E d’altronde c’è in tutta la Silicon Valley il peso insostenibile di una iper-realtà, di un orizzonte negativo, per dirla alla Virilio, di una infinita possibilità che sembra mutare nei paradigmi e nella ricerca forsennata di un senso, sospeso tra l’oceano, i pianori ocra arsi dal sole, i cactus, le direttrici di asfalto e l’alta tecnologia: e quel senso è la nuova caccia all’oro, pionieri che sciamano battendo ogni asperità, ogni roccia, ogni confuso agglomerato di casette rurali e di grattacieli, un ‘Furore’ steinbeckiano riscritto da William Gibson, alla ricerca non solo dei soldi, del successo ma della realizzazione interiore.
E no, non è una declinazione new age ma proprio l’idea di un equilibrio, di una qualche dimensione materiale e mentale di persone che nella loro genialità non saprebbero nemmeno allacciarsi i lacci delle scarpe. Menti acute ma sofferte, alle prese con una asfissia inesorabile, il mistero del perché debbano confrontarsi con persone non geniali come loro.
Come fosse un virus, la Silicon Valley si alimenta in una catena di segni simbolici, in ciò che Eric Sadin ha definito la silicolonizzazione del mondo. Genera un modello strutturalmente sempre uguale a sé stesso che sotto la patina scintillante, ci restituisce l’immagine brulicante di un caos assoluto.
C’è il brillante Anjan Katta, considerato per anni erede concettuale di Steve Jobs, steso su un materassino da camping, nel suo ufficio, attorniato da una entropia da casa di accumulatori seriali, un disordine cosmico da versi di un Bukowski di silicio o di un ‘Infinite Jest’, di Wallace, virato al degrado di una epoca in cui ogni limite si è infranto.
Lo sovrasta una lavagnetta su cui sono stati tracciati algoritmi e formule matematiche dall’aroma esoterico, in una scrittura automatica che lambisce l’autismo e la disperazione interiore di chi è condannato dalla propria genialità a doversi superare e a non poter mai essere quieto e banale.
Foto di impatto, che ci mostrano per la prima volta il ventre poetico, desolato, quotidiano, volgare, accelerato, stordente, emozionante della Valle del Silicio, il non-luogo che sentiamo nominare di continuo quando maneggiamo il nostro smartphone o quando ci colleghiamo al nostro social preferito ma che raramente abbiamo visto davvero o anche solo immaginato.
Il bel volume, in edizione lussuosa e cartonata, edito da Rizzoli, si chiama ‘Silicon Valley – No_code Life’, si dipana lungo centonovantadue pagine per centoventotto foto, tutte scattate nell’anno 2019 da Ramak Fazel, poco prima che la pandemia spazzasse via il mondo per come lo conoscevamo, ed è un lungo, articolato viaggio per immagini nel cuore di silicio della Valley.
Lo sguardo inquisitore della Reflex di Fazel, i colori accesi di una Nan Goldin meno punk ma non meno a suo agio con degrado e disagio, disvelano davanti ai nostri occhi la reale consistenza topografica, volumetrica, architettonica, spirituale di un mash-up di palazzi bruitisti che non sfigurerebbero in una desolata periferia post-sovietica cinta poco garbatamente da carnevali di alta tecnologia e vigneti e parchi lussureggianti di verde e villette cafonissime che sembrano addobbate per un improbabile, eterno Natale.
Ma il mash-up non è solo di acciaio e marmo, di erba e cielo eroso da un sole pallido, è anche di identità e provenienze. Un autentico simulacro baudrillardiano, l’America come copia originante da nessun originale. E d’altronde Baudrillard, nel suo viaggio in moto a fendere la linea d’orizzonte piatta di un Paese che forse non è mai davvero esistito rimase colpito da quel neon ruzzolante Jesus Saves che tra lucori rossicci e carnicini nella patina da sfondo bluastro sembrava riprodurre la copertina di una Bibbia cyberpunk.
Cristo si è fermato a Las Vegas.
In baretti, che Fazel riprende con schematica e sistematica ingegnosità, dentro cui motociclisti in perenne divenire e cuoio si mescolano agli ingegneri di Apple e dentro cui vistose ragazze tatuate flirtano con nerd impiegati di Facebook, si consumano esistenze che trovano il proprio centro tra le vallate scoscese ed erose e tra queste casette da pueblo argilloso sormontato da guardiani in ferro e vetri: gran parte di queste esistenze non originano negli USA, sono quasi tutti di padre o madre straniera, lo stesso Steve Jobs era di discendenza siriana, l’amministratore delegato di Microsoft è indiano, Elon Musk è di origini sudafricane, l’ideatore di Zoom è cinese, e si potrebbe continuare riempiendo pagine su pagine.
D’altronde lo stesso autore delle foto è iraniano, ma solidamente e culturalmente californiano essendosi specializzato in visual art al California Institute of the Arts, dopo la laurea in ingegneria conseguita nell’Indiana. Nelle foto di Fazel si consuma la scia sagittale di queste traiettorie esistenziali che nella Valley trovano il baricentro e il momento terroso di sedimentazione, laddove ogni inventore, impiegato, funzionario, start-upper, colto nella sua quotidianità e nella sua alienazione è considerato una persona comunque di successo perché ha raggiunto il proprio personale nirvana, l’autogratificazione, non venendo più considerato come uno straniero ma come un ingranaggio della macchina-organismo fagocitante che è la Valley stessa.
E c’è in questa galleria di foto, nel direttore creativo di Apple a cavallo, con tanto di cappello da cow-boy immortalato nel trascolorare di un vago tramonto californiano, quel senso megalomane, napoleonico, irreale, tutta la contraddizione metafisica della Silicon Valley: un non-luogo, appunto, dentro il cui ventre non esiste davvero un individuo, non esistono quotidianità reali o esistenze ma solo una massa indistinta di progetti, visioni, sogni, una idea collettiva che si autoreplica in ogni corridoio, su ogni lavagnetta, per ogni strada o stradina o sui sentieri battuti dal vento lungo i canaloni rocciosi di una frontiera a metà tra il destino manifesto e il digitale, per poi involarsi, attraverso il nostro computer o telefono, in tutto il mondo.
Leggi anche: The social dilemma, la matrioska della manipolazione (di A. Mariani)