“Non chiamateci femminucce”: il femminismo di bell hooks nel libro di Federica Fabrizio (Federippi)
Donna. Nera. Figlia di operai. L’attivista bell hooks ha legato il suo pensiero alle lotte antirazziste. Scardinando l’identità univoca del concetto di sesso femminile. Federica Fabrizio (Federippi) ripercorre la vita della scrittrice che ha ispirato le battaglie della sua generazione
La storia che mi ha condotta fino a bell hooks inizia dai libri, ed è, a suo modo, una storia di cura. Era il 2016, mi ero appena trasferita a Roma per l’università e avevo un non indifferente caos in testa. Molte cose iniziavano a starmi strette: le discriminazioni cui assistevo quotidianamente mi facevano arrabbiare, ma allo stesso tempo non riuscivo a dar loro un nome, per cui avevo un estremo bisogno di ricevere conferme rispetto alla rabbia che provavo. Quindi, ho cercato risposte là dove ero certa le avrei trovate, nel posto in cui andavo (e vado) di solito per fare ordine quando sono confusa. Insomma, in libreria.
Arrivo di fronte allo scaffale che cercava solitario di combattere il patriarcato e il libraio mi consiglia di comprare Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. «Tutte le femministe comprano questo libro» mi dice. Ora, parliamo di un periodo in cui non sapevo neanche se fossi femminista (spoiler: lo ero) e approcciarmi a un saggio di quasi ottocento pagine mi sembrava veramente tanto impegnativo (spoiler: lo è stato), per cui ho ringraziato e deciso che avrei scelto da sola. Non mi accorgo che una signora mi sta seguendo finché non mi si avvicina, a due passi dall’uscita della libreria. Mi dice di aver intuito che sto cercando un libro sul femminismo, […] dopodiché mi chiede: «Senti, come te la cavi con l’inglese? C’è questo libricino, però lo trovi solo in inglese. Se puoi, leggilo.», e intanto prende il cellulare per mostrarmi il titolo.
Quel libro era Feminism Is for Everybody: Passionate Politics e lo ha scritto nel 2000 bell hooks. […] Ecco come è cominciata la mia storia d’amore con il femminismo. Dopo aver letto il suo libro non mi sono soffermata più di tanto sulla storia dell’autrice. Errore. In virtù del principio per cui il personale è politico, ho capito solo in seguito che alcune delle scelte personali di bell hooks corrispondevano a scelte politiche. A cominciare dal suo nome. Gloria Jean Watkins. È questo il vero nome di bell hooks, donna, nera, figlia di operai, che ha sempre usato uno pseudonimo per firmare le sue pubblicazioni. bell era il secondo nome di sua madre, nonché nome della sua bisnonna, hooks il cognome di quest’ultima. Tutto scritto rigorosamente minuscolo. Una specie di autobattesimo con un duplice potentissimo significato: oltre a voler rendere omaggio alle sue ave, per riscattare la vita delle donne vissute in schiavitù, bell sottolinea che l’importante non è la centralità della persona che sta scrivendo o parlando, ma il contributo che può portare alla comunità attraverso quello che sta scrivendo o di cui sta parlando. In sostanza, è un invito a non guardare al suo nome, a non dargli troppa importanza. In questo modo bell si ribella all’imperativo dell’autoreferenzialità e al protagonismo tipico della società, facendo in modo che il messaggio arrivi prima del nome.
Nata a Hopkinsville, Kentucky, nel 1952, in una famiglia controllata dal potere tipicamente patriarcale e violento, incarnato dalla figura paterna, trascorre i primi anni di scuola immersa in un contesto di segregazione razziale totalizzante, tanto che racconta di aver incontrato una persona bianca per la prima volta quando aveva sedici anni. È proprio in questo contesto – sociale e familiare, pubblico e privato – che, probabilmente, lo sguardo di bell si allena a smascherare i giochi di forza dettati da un potere egemone costruito non solo sulla gerarchia razziale, ma anche su quella di genere. Lo squilibrio che c’è fuori, tra persone bianche e persone nere, bell lo ritrova anche dentro casa, tra il machismo del padre e la sottomissione della madre. Forse è lì che si consolida in lei la coscienza del legame indissolubile tra antisessismo e antirazzismo che, per prima, avrebbe teorizzato. […] Il modello che Gloria – che proprio in quegli anni diventa a tutti gli effetti bell – ha a lungo osservato a casa si ripropone nel nuovo contesto. Il femminismo, squisitamente bianco, non prende in considerazione la lotta antirazzista, la lotta antirazzista non prevede al suo interno istanze dichiaratamente femministe. L’ovvia conseguenza è che le donne nere e non bianche si trovano a subire una doppia invisibilizzazione. L’esperienza di una ulteriore e duplice marginalizzazione porta bell, tra il 1972 e il 1973, a scardinare l’identità univoca assegnata al concetto di donna.
Le donne non sono tutte uguali, perciò, le rivendicazioni non possono essere sempre le stesse: occorre tenere conto delle singole identità e appartenenze. Prendere coscienza delle diverse identità – che non solo esistono tra di noi, ma anche dentro di noi – è un primo passo per scardinare l’ingranaggio sessista che procede per semplificazioni, il cui fine ultimo è appiattire la nostra pluralità. È lo stesso ingranaggio che vorrebbe farci subdolamente credere che siamo tutte uguali e che dovremmo supportarci a vicenda, quando poi, a conti fatti, la realtà è un’altra. Non è vero che siamo tutte uguali, proprio in virtù delle differenze che ci caratterizzano, della nostra appartenenza sociale, delle esperienze e dei diversi privilegi di cui beneficiamo.
Un’analisi banalizzata delle caratteristiche che ci definiscono, viziata dall’illusione della sorellanza a ogni costo, ci impedisce di mettere in atto un’alleanza onesta che parta proprio dalla comprensione delle nostre differenze, e rischia di replicare gli stessi schemi di potere imposti dal patriarcato. L’intuizione che ha radicalmente modificato lo sviluppo del movimento femminista negli anni ’70 prevede uno sforzo di analisi in più rispetto al livello raggiunto fino a quel momento. La necessità era portare all’interno di esso l’intersezionalità tra le diverse lotte. Genere, classe, etnia non sono variabili che possono essere calcolate separatamente. […] Stabilendo in maniera arbitraria che una di queste variabili è più importante delle altre, oltre a togliere forza propulsiva alla lotta, stiamo creando una gerarchia di sofferenza sulla pelle delle persone che, invece, sono nostre compagne. […] Schierarsi per davvero, comprendere le intersezioni, puntare il dito verso il potere oppressivo sono tutte azioni politiche che comportano, in una certa misura, la perdita di quei privilegi che lo stesso sistema ti offre. Ecco perché le aziende, così come i media mainstream e le varie piattaforme di informazione di massa, non accolgono le istanze radicali del femminismo intersezionale, ma si limitano a fare il gioco del femminismo bianco.
Perché sono foraggiate dal potere e devono continuare a esserlo, se vogliono sopravvivere. In altre parole, non devono disturbare. Ecco: il femminismo bianco non disturba. È solamente una modalità – nemmeno troppo originale, ormai – di raggiungere lo stesso potere che hanno i maschi bianchi. Il femminismo proposto da bell hooks, quello intersezionale e rivoluzionario, quello in cui affermo, fieramente, di riconoscermi anche io, quel potere lo vuole smantellare del tutto. Massimizzare le proprie possibilità e libertà all’interno dell’attuale sistema non è abbastanza. Questo sistema va distrutto fino alle fondamenta, per costruirci – finalmente – sopra. E questa volta alle nostre regole.
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