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Michela Murgia: “Politiche xenofobe, schedature, epurazioni: siamo nel nuovo fascismo”

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Michela Murgia: “Politiche xenofobe, schedature, epurazioni: siamo nel nuovo fascismo”

“Come siamo arrivati a questo punto così, di colpo?” È la domanda a cui cerca di dare una risposta Michela Murgia in una lunga serie di storie Instagram, in cui ripercorre gli ultimi trent’anni di storia italiana per spiegare come si è arrivati a quello che definisce un “nuovo fascismo”.

“Ministri che parlano di razza, controllo dei corpi delle donne, diritti tolti alle minoranze, politiche xenofobe, contestanti schedate dalla Digos, epurazioni nel sistema culturale e d’informazione”, l’elenco stilato dalla scrittrice sarda per sintetizzare la cronaca politica delle ultime settimane. Una deriva che secondo Murgia molti avevano già previsto negli scorsi decenni. “Lo stato delle cose attuali era prevedibile da anni e ci sono state voci che lo hanno fatto, partendo da eventi enormi o piccolissimi, ma tutti rivelatori di questo nuovo fascismo”.

Dopo l’ascesa della Lega (“un partito apertamente razzista, antimeridionale, maschilista e separatista”), il punto di svolta, sostiene l’autrice di “Accabadora”, è stato il 2001: “Non credete a chi dice che furono le Torri Gemelle. Il G8 di Genova è un punto di non ritorno per la mia generazione”. “La violenza di Stato contro gli inermi, gli insabbiamenti, la morte di Carlo Giuliani, i politici che coprirono gli abusi, i colpevoli che facevano carriera, le notizie manipolate, i processi pieni di bugie”, scrive Murgia. “Genova ha spezzato per sempre la mia fiducia nello Stato democratico”.

L’anno successivo “fu approvata la legge sull’immigrazione sull’immigrazione, madre di tutti i respingimenti, che non a caso si chiama Bossi Fini”, ricorda Murgia. “Due anni dopo fu approvata la legge Biagi, che precarizzava tutti i lavori fuori dal contratto nazionale di categoria”. È su quest’ultimo punto che mette l’accento: “condividere le stesse condizioni di lavoro e di impiego crea coscienza collettiva e soggettività sociale”. Ancora: “Fare una legge che riporta la contrattazione del lavoro alla singola persona frantuma all’origine la possibilità di creare una coscienza comune, di classe o meno. Distrugge l’idea del lavoro come questione collettiva: tuttə solə davanti al padrone. Inizia la retorica del merito”.

Si passa poi al nesso con il ventennio. “Il fascismo storico era un fenomeno borghese, non popolare, specie sul fronte del lavoro. La retorica del duce-contadino che trebbia faceva il paio con lo scioglimento dei sindacati, la repressione violenta degli scioperi e gli accentramenti monopolistici. Se volete testare un fascismo, osservate i suoi rapporti con i grandi interessi industriali e confrontateli con chi invece il lavoro lo fatica sottopagato o non lo trova. Domandatevi: quali interessi difende?”

Viene quindi citato come “esempio” il discorso di Giorgia Meloni all’assemblea dei delegati della Cgil, in cui veniva ribadito il “No al salario minimo”. “Nel 2006, dopo tre anni di legge Biagi, da telefonista decido di raccontare cosa succede nei posti in cui i contratti ‘creativi’ determinano la vita di chi li firma. È il momento in cui capisco che incazzarmi non basta. Il dissenso va organizzato e io so farlo solo in un modo: cercando parole esatte”, ricorda.

Il racconto passa agli anni successivi, in cui “succedono tre cose politicamente molto rilevanti”. La prima è “il family day, il tentativo delle destre di attaccare i diritti Lgbtq+ e la libertà riproduttiva delle donne”, seguito da “la censura in Veneto dei libri degli intellettuali sgraditi” e “il caso Englaro”. Dopo aver ripercorso le tre vicende, Murgia afferma che questo “nuovo fascismo” si serve “dei percorsi democratici, prima di arrivare a forzarli”.

“Se questo fascismo non lo vediamo arrivare, è perché non siamo abituati a vedere il fascismo arrivare da una democrazia. Lo abbiamo sempre visto partire da monarchie o instabilità più o meno dittatoriali”, aggiunge. Si tratta di un percorso “relativamente nuovo” che viene ricondotto alla “democratura”. Secondo Murgia, a proporsi come “democratore” è stato con un certo successo Matteo Renzi. Questo perché ha tentato “riforme centraliste (per fortuna il referendum costituzionale lo perse, immaginate uno strumento simile oggi in mano a Meloni)”, era un “populista” che “disintermedia la comunicazione tra ‘il capo’ e ‘il popolo’ (hashtag #dilloamatteo su Twitter)”, “querela (o minaccia di farlo) giornalisti e intellettuali (hashtag #colposucolpo)”, e “fa propria la retorica del merito e dell’eccellenza (dovremmo tutti essere Marchionne) e la concretizza nel Jobs act”.

Murgia poi risponde alle possibili obiezioni: “Lo so, adesso arriva qualcuno a dirmi: ha fatto anche cose buone. Tipo la legge sulle unioni civili. Ma è stata esattamente quella legge, da cui è stata stralciata la questione fondamentale dell’adozione interna alla coppia lgbt, ad aver creato la situazione che oggi permette a Meloni di cancellare il nome di un genitore dai registri pubblici”. Questo perché, secondo Murgia, “negoziare con le destre sui diritti è stata una delle questioni centrali del renzismo”. L’accusa a Renzi riguarda anche la questione immigrazione: “è il pensiero renziano, che è un pensiero di destra, a orientare il decreto di criminalizzazione del salvataggio in mare che renderà difficile l’azione delle ong”.

Infine, “arriva Giorgia Meloni. Ma non all’improvviso dalla fogna, come uno sbocco di acque nere casuale”, scrive Murgia. “Arriva quando può finalmente arrivare senza che la massa lo trovi strano o pericoloso. Perché le crepe nelle tubature dei liquami sono partite molto prima”. In sintesi, citando Primo Levi: “Ogni epoca ha il suo fascismo”.

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