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Home » Cultura

Dietro le quinte del cinema italiano: parla il regista Luca Ribuoli

Immagine di copertina

“Gli artisti sono tutti egocentrici. Ma il talento emerge solo se hai curiosità e passione. Sorrentino? Ha scritto parti del suo copione. In Italia capita di lavorare con pochi mezzi, ma non vuol dire che manchino le capacità”. Colloquio con il regista della serie Call my agent

La fortunata serie tv “Call my agent”, edizione italiana del cult francese “dix pour cent” (dieci per cento) racconta il frenetico mondo degli agenti di cinema, che gestiscono attori e registi con la cura e l’apprensione di un partner, preoccupati intanto di guadagnare quel “dieci per cento” da ogni contratto che riescono a strappare. Luca Ribuoli è il regista che ha esplorato i vizi e le virtù delle star protagoniste: Paola Cortellesi, Paolo Sorrentino, Piefrancesco Favino, Stefano Accorsi, Matilda De Angelis e Paolo Guzzanti.

Cosa vuol dire per un regista dirigere attori che interpretano se stessi? 

Mi diverte il gioco che si instaura, perché in realtà è l’attore che decide quanto dare di sé. Il pubblico non può sapere quanto c’è di Sorrentino o di Cortellesi in quello che vede. Ci sono cose riconoscibili, se non altro dell’immagine che hanno dato di sé all’esterno. In alcuni casi qualcuno si è spinto a darsi proprio nel modo in cui è nella vita, ma da fuori è difficile capire quali sono quelle scene.

E chi si è spinto di più?

Dipende dal ruolo. Favino è quello che aveva meno possibilità perché è sempre incastrato in un altro personaggio. Sorrentino non è un attore, e quindi viene da pensare che lui sia così: raffinato, profondo, perché è una persona comunque molto autoironica. Possiamo immaginarci come sia veramente Guzzanti nella vita? Difficilissimo. Secondo me Matilda De Angelis è quella che Lisa Nur, che ha scritto la sceneggiatura, ha intercettato in un momento che le ha permesso di poter manifestare molto il disagio che vive veramente con i social.  

In che modo avete scelto l’aspetto da esasperare di ogni attore? 

C’era la serie francese di riferimento, che ci ha dato modo di conoscere e affrontare il mondo degli agenti. Noi abbiamo cercato di aggiungere aspetti che sono venuti fuori anche grazie al lavoro con le star. Per esempio c’è un approfondimento del personaggio di Sorrentino fatto da lui stesso mentre girava. Aveva voglia di essere visto in quel modo. Anche Accorsi, che è veramente così: riesce a essere ovunque contemporaneamente. Quando abbiamo fatto la conferenza stampa c’eravamo tutti tranne lui, che era a teatro.

Ma si tratta di una presa in giro o un’esasperazione? 

Il gioco della commedia è esasperare un aspetto. Lui è uno che prende molti lavori, a cui piace lavorare, poi è un emiliano e ha le caratteristiche di chi nasce e vive in quei posti. Gli piace essere attivo. La prima scena in cui legge il copione e vuole interpretare il ruolo di un ragazzino riflette quel tipo di fame, di curiosità, di sfida che l’attore vuole avere per darsi una nuova ragione di poter continuare. 

Dà anche l’idea di una persona molto egocentrica. 

Gli attori, i registi, gli artisti, sono tutti egocentrici. Ma il talento e la bravura che hanno vengono fuori in virtù della forte passione e curiosità. E secondo me in tutti si vede. Si vede con Accorsi, ma anche con Favino. 

Favino è mai rimasto davvero intrappolato in un personaggio? 

Lo spunto di Lisa Nour è venuto dalla moglie, che ha raccontato di quando interpretava Craxi e nelle videochiamate parlava come lui, e infatti lo abbiamo inserito. Tutti rimaniamo coinvolti nei personaggi che raccontiamo, capita anche a me da regista, soprattutto durante le serie lunghe, che non scrivo ma dirigo. Devo entrare in quel mondo: questo fa sì che volente o nolente io cambi e che se ne accorgano quelli che vivono con me, che non vedono l’ora che il progetto finisca. Ma più ci stiamo dentro più abbiamo possibilità che il prodotto riesca. 

L’aneddoto sulla scuola che racconta Sorrentino, è tratto dalla realtà? 

Lo ha scritto lui, ed è probabile che sia qualcosa che ha vissuto veramente. Mi diverte molto in generale dirigere progetti biografici che hanno qualcosa di verità, perché sono sempre incuriosito da quanta verità c’è nella finzione e viceversa. Il motivo per cui mi piace questo lavoro è la possibilità che ti dà di fingere per raccontare la verità. Sembrerebbe un assunto assurdo, ma la finzione è forse il miglior modo per arrivare alla verità.

Chi è stato il più rompipalle tra le star?

Non te lo dirò mai

Allora c’è.

C’è sempre

Il più tranquillo, il meno esigente?

È molto difficile dirlo, perché sono super professionisti. Uno pensa che l’attore sia solo quello che fa i capricci, invece il loro essere professionisti ti dà la tranquillità di gestire gli incidenti che intercorrono. Un professionista conosce e sa gestire l’ansia che può arrivare sul set o la preoccupazione. Ho visto persone veloci, immerse in quello che facevano, stimolanti, che riempivano lo spazio affinché il racconto fosse verosimile, che è la cosa che più interessa.

Emerge questo rapporto viscerale, intimo, quasi tossico tra agenti e star. È anche questo atteggiamento degli addetti ai lavori che le rende viziate ed egocentriche? 

Immagina un lavoro in cui, finché non sei molto famoso, ogni volta per poterlo fare devi passare dei provini, una trafila bestiale che nessuno vorrebbe nella vita, è un esame continuo. Per questo gli attori sono individui particolari, fragili, ognuno ha una sua originalità. Hanno bisogno di una persona che li sostenga e li stia dietro, anche perché è un mestiere in cui sei evanescente. L’attore non è mai veramente con te, perché pensa al ruolo che sta interpretando o che sta desiderando di avere. Puoi trovarlo in quella fase in cui se ti invita a uscire o ti guarda è perché gli interessi per il ruolo che deve interpretare. Oppure se deve calarsi in un’altra epoca e gli fai notare che bisogna essere in un modo, è preoccupato di non esserlo. Allora l’agente deve rassicurarlo. Deve dirgli: puoi investire su di te, sei bravo, ti proteggo.  

A chi vi siete ispirati per il ruolo degli agenti?

Ai capostipiti di questo lavoro in Italia: Carol Levi e Giovanna Cau, con cui soprattutto Carlo Degli Esposti aveva un rapporto di discendenza. Lui era un giovane produttore quando lei era un’agente molto forte. Carol Levi era la sua antagonista. Lavorava per un’agenzia americana venuta a fare i film in Italia dopo la guerra. Ebbe l’intuizione di fondare un’agenzia propria. La figlia ci ha raccontato che Carlo Ponti aveva uno studio al pian terreno. Lei andava sotto la finestra e origliava la telefonata: appena nominava un’attrice che lui voleva per i suoi film, Levi andava a casa, si metteva al telefono, contattava quell’attrice e quando il produttore la cercava doveva passare per forza attraverso la sua agenzia. Attraversava Roma in bicicletta per riuscire ad arrivare in tempo e consultare l’elenco telefonico per trovare il numero. Cosa che oggi faresti con un messaggio.

Oggi si è persa quella poesia e, come mostra la serie, gli attori lavorano perché i loro agenti devono fatturare, guadagnare quel 10 per cento?  

Ma anche allora bisognava guadagnare, non era diverso. Certo oggi è tutto più frenetico, e dall’avvento del digitale in avanti ogni cosa che facciamo ci sembra, e di fatto è, filtrata. Quindi sì un po’ di poesia si perde. Ma chi vuole fare ancora cinema come noi lo fa perché è ancora attaccato a quella poesia. Il cinema è ancora un sogno. Noi ci affatichiamo per un mestiere bellissimo.  

Boris ci ha passato l’idea che sui set italiani le cose siano fatte un po’ “a cazzo di cane”?

Quella è una forzatura. La verità è che per riuscire a fare il cinema che vorresti fare – come quello francese, americano o italiano di una volta, quando c’erano ancora i fondi – con un budget limitato, tempi ridotti e pochi mezzi, lavori un po’ “alla cazzo di cane”. Ma non vuol dire che non ci sia passione o bravura, anzi. Vuol dire che ce la devi fare con quello che hai. Boris ha esasperato quell’atteggiamento di dire: “Tanto ce la caviamo”. 

Ho sentito un autore televisivo affermare che nei film italiani ci sono le rubriche, nel senso che ogni film ha uno spazio fisso dedicato sempre agli stessi attori, come le rubriche dei quotidiani tenuti sempre dalla stessa firma. È così? 

È così, e ce ne lamentiamo, magari ci stanchiamo anche. Ma è una conditio sine qua non: un produttore investe su qualcosa che sa che gli può portare un tornaconto, quindi gli viene da cercare un nome che porta il pubblico. Perché i pubblicitari cercano gli influencer? Se hai tre milioni di follower, ti cerco. Se ne hai tremila non mi interessi, eppure magari tra i tremila per quello spot specifico ci sarebbe un seguito.

Manca il coraggio di buttarsi? Si ha paura di fallire?

Quando ci sono tanti soldi, la necessità di dover rientrare nelle spese e guadagnare fa sì che si scelga la star che ti può portare quei benefici, il regista, la storia, gli autori e la sceneggiatura che pensi ti possano dare quel ritorno. Quando arrivano storie particolari o film nuovi? Quando un produttore più piccolo che ha voglia di investire su una storia in cui crede, con un regista di talento, si prende il rischio, e a volte viene fuori qualcosa. Se fosse sistemico sarebbe meraviglioso, dobbiamo accontentarci del fatto che ogni tanto accade. 

Su Perfetti Sconosciuti nessuno avrebbe scommesso, come mostrate nella serie. 

Sì, è stato lo stesso Genovese a raccontarci com’è andata. Non cambiò veramente agenzia, ma credo che un produttore all’inizio gli avesse detto di lasciar perdere. 

Ma come si fa a riconoscere una sceneggiatura di successo? Quali sono gli elementi? Cosa ti ha fatto capire, per esempio, di voler fare “La mafia uccide solo d’estate?”

Ci sono degli elementi che valuti e che riguardano chi sei e cosa vuoi. “La mafia uccide solo d’estate” era un film che desideravo fare, nel senso che ci pensavo spesso. Sapevo che la stavano scrivendo e pensavo che mi sarebbe piaciuto. Poi un giorno uno sceneggiatore, che è l’autore con cui avevo già fatto un altro progetto, mi ha chiesto cosa ne pensassi e mi ha consigliato ai produttori. Da lì poi ho dovuto passare al vaglio di Wildside e di Pif, ma avevo desiderato farlo perché c’era un racconto umano che credevo di saper rendere.

Quanto timore ha il cinema italiano di essere meno provinciale? 

Non ha timore. È che siamo provinciali e tendiamo sempre a riprodurre questa cosa, è endemica. Io vengo dalla provincia, da Alessandria, i miei genitori erano della provincia di Modena e so benissimo cosa vuol dire vivere in provincia, desiderare un altro mondo ma portarti dietro sempre le stesse dinamiche. È anche quello che ci piace dell’Italia. Tendiamo a conservare questi paesi ovunque. Ma anche Roma è piena di paesi, piccoli mondi che si riconoscono, in cui ci piace riconoscerci, sparlare, osannare miti che durano una settimana e poi puzzano. 

Ha fatto discutere il caso di Sabrina Impacciatore, che ha guadagnato popolarità negli Stati Uniti dopo la serie The White Lotus e ha fatto capire di non essere stata apprezzata a quei livelli in Italia. Eppure sembrava molto affermata.

Anche secondo me era già affermata. Ricordo che quando mi occupavo dei cast feci una miniserie con Luca Zingaretti in cui la scelsi per fare sua moglie, era un momento molto positivo per lei. Evidentemente ha avuto un calo che nessuno ha percepito, ma forse lei sì. Credo però che abbia davvero desiderato fare il personaggio di una serie americana, che abbia lavorato per diventarlo, e infatti le è riuscito benissimo. Ma lei ha seminato per ottenere questo successo. È importante far capire che il nostro lavoro è fatto di passione, e che le cose vanno desiderate. Bisogna lavorare tanto perché quel desiderio avvenga. È veramente così. 

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