Addio Khaled Khalifa, Damasco sarà per sempre tua
Ha portato la Siria in Italia e nel mondo. Dalla sua finestra, ha osservato il baratro in cui è caduto il Paese. E ha aperto una breccia nella sua quotidianità. Denunciando la necessità della resistenza, attraverso la vita. È il lascito del “Gabriel Garcia Marquez” arabo
Il potere della letteratura non è quello di cambiare il mondo ma di farci entrare, in punta di piedi, dentro le vite di persone lontane. Così, i romanzi di Khaled Khalifa, scrittore siriano scomparso sabato 30 settembre a Damasco all’età di 59 anni, per un improvviso malore cardiaco, ci hanno aiutato ad aprire una breccia dentro quella che è la quotidianità dei siriani.
Scrittore prolifico, Khalifa venne paragonato a Gabriel Garcia Marquez quando uscì in inglese la traduzione del romanzo che lo portò alla fama mondiale, “Elogio dell’Odio”. Siamo ad Aleppo, anni Ottanta, e la protagonista del romanzo è una giovane universitaria appartenente a una casata della borghesia. Vive gli sconvolgimenti del Paese, della sua città, attraverso le vicissitudini dello zio e di altri componenti della famiglia che, nelle loro vicende personali, incarnano le contraddizioni della società siriana: dalla zia Marwa, incatenata al letto per non farle sposare un membro della setta alawita, fino al percorso fondamentalista che spinge lo zio a combattere in Afghanistan. Sullo sfondo il massacro di Hama, del 1982, e le rappresaglie della fazione armata dei fratelli musulmani. «Ci ho messo tredici anni a scriverlo», raccontò Khalifa. «Da sempre ho voluto fare lo scrittore. Fin da ragazzo, ad Aleppo», ci spiegò seduto a un tavolo di una caffetteria a Milano. «I miei genitori non capivano. Poi, mi rinchiusi e scrissi mille pagine per la sceneggiatura di una serie tv. Così cominciai a vivere di scrittura».
Un uomo semplice…
Quello che colpiva, incontrando Khalifa, era la sua estrema semplicità. Nel 2011, mentre il Paese era in guerra, venne in Italia a presentare “Elogio dell’Odio”, tradotto da Francesca Prevedello, edito da Bompiani – come tutti i suoi libri. La casa editrice quasi non sapeva di averlo in catalogo. Apparve verso le dieci di sera al programma “L’Infedele” su La7. Sembrava appena arrivato dalla Siria, da Damasco. In ciabatte, vestito alla bene e meglio, con quello spirito che condividono solo gli autori e le persone che danno la giusta importanza alle cose, incantò Michela Murgia e Gad Lerner con la semplicità e il coraggio di denunciare il regime siriano, guidato da Bashar al Assad. Parlò del coraggio dei siriani scesi in piazza.
Alla domanda: «Tornerà in Siria?». La sua risposta fu: «Non ho altro luogo, se non il mio Paese». Nel 2012, partecipando a un funerale a Damasco, fu aggredito da membri dei servizi segreti siriani. Arrestato, gli venne spezzata una mano. «Così imparerai a scrivere meglio», gli dissero. Scarcerato, dichiarò : «La mia mano non vale l’unghia di un bambino siriano o una sua lacrima». Nel 2013 vinse la Medaglia Nagib Mahfuz, uno dei più importanti riconoscimenti per gli scrittori arabi. Nel 2014 fu finalista all’International Prize for Arabic Fiction, il Booker Prize arabo.
…e attaccato alla sua terra
L’indagine del passato siriano di Khalifa continuò brillantemente con “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città”, edizione Bompiani, tradotto da Maria Avino. Il titolo del del volume era ispirato all’espressione utilizzata dal dittatore siriano Amin al Hafez, nel 1963, quando mandò l’esercito a sedare le rivolte di Hama e Homs, dove diede ordine di «non lasciare neanche un coltello».
Ma la Siria contemporanea, quella della tragedia, dell’impossibilità di vivere il lutto, è ben espressa nel romanzo “La morte è un mestiere difficile”, sempre tradotto da Maria Avino, edito da Bompiani, in cui i protagonisti devono portare il cadavere del padre nel suo villaggio natale per la sepoltura, seguendo quelle che sono le ultime volontà. Il viaggio dovrebbe richiedere mezza mattinata ma a causa dei check-point e delle bombe il percorso è più lungo, impossibile.
Il romanzo rappresenta la difficoltà di movimento e del compiere le attività quotidiane più semplici, come dovrebbe essere quella del funerale di un padre. Queste figure ed esperienze vengono tutte dalla testimonianza viva di Khalifa, che mai ha lasciato Damasco, se non per portare i suoi libri e la sua testimonianza in giro per il mondo, ricevendo il riconoscimento che gli spetta – le sue opere sono state tradotte in moltissime lingue.
È dalla sua finestra, a Damasco, che ha osservato il baratro in cui era caduto il suo Paese. Aveva lamentato l’assenza di speranza e la necessità della resistenza, attraverso la vita. Khalifa non è stato solo uno scrittore siriano o arabo, ma è stato mondiale. Ha portato la Siria in Italia e nel mondo. È stato un intellettuale impegnato per il suo Paese e il cordoglio e lo sgomento che accompagna la notizia della sua dipartita ne sono testimonianza. Il suo lasciato rimane grande, come la città di Damasco che non ha mai abbandonato. E in quale rimarrà, per sempre.