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Home » Cultura

Isabella Ducrot a TPI: “Vi racconto la mia bella terra”

Immagine di copertina
Per gentile concessione dell'artista

Ha iniziato a dipingere per caso. Convinta che fossero le cose ad avvicinarsi a lei, e non viceversa. Così l’artista e scrittrice napoletana ha raffigurato i paesaggi persiani e l’approdo di Enea a Lavinio. Il suo lavoro è esposto a Taormina

Una delle cose che ha percorso la mia vita è stata una coscienza crescente di non decidere niente». Isabella Ducrot è un’artista di 92 anni. Nata a Napoli, è arrivata a Roma a quasi 30 anni. Prima di dipingere la sua prima tela o scrivere il suo primo saggio, non aveva mai pensato di fare la pittrice e la scrittrice. Tutto quello che ha realizzato, le è arrivato spontaneamente, «senza un programma», racconta a Tpi nel suo studio al piano terra di Palazzo Doria Pamphili, nel cuore di Roma, dove una grande finestra di vetro lascia filtrare la luce del tardo pomeriggio su pennelli, secchi, tempere e altri attrezzi del mestiere piazzati su un lungo davanzale.

«Sono grata alle combinazioni che avvengono. Ho sempre pensato che quello che facevo era il risultato non di una mia chiara volontà. Ho elaborato il pensiero che siano le cose ad avvicinarsi a noi e non noi alle cose», prosegue. È avvenuto pressoché lo stesso con l’allestimento della sua personale “La Bella Terra”, inaugurata a giugno a Palazzo Ciampoli, a Taormina, dal Maxxi e da Taobuk Festival SeeSicily in collaborazione con il Parco Archeologico Naxos Taormina, nell’ambito della crescente ricerca sul Mediterraneo avviata dal museo romano per rafforzare lo sguardo sul mare nostrum e celebrare i profondi legami che ne uniscono culture e tradizioni.

L’incontro tra il mare che circonda Palazzo Ciampoli e le opere di Ducrot che celebrano la bellezza del paesaggio è rientrato naturalmente a far parte di questo lungo e ambizioso percorso. «Ci hanno chiesto di prepararci non troppo tempo prima dell’inaugurazione. Ma eravamo pronte, abbiamo accettato. Lavoravo da molto su questo argomento della ‘Bella Terra’. Prima che questa coscienza ecologica esplodesse con la pandemia, ho dedicato tempo all’idea di una bellezza facile, percepibile facilmente. La natura è qualcosa a cui bisogna dedicare attenzione, piacere, perché la terra è bella e siccome è bella la dobbiamo curare», sottolinea Ducrot. «Viviamo in Italia in mezzo alla ballezza senza saperlo, è il massimo dei lussi e il massimo dei peccati. Diamo per scontato che ci sia la bellezza e questo ha danneggiato i nostri comportamenti», sottolinea.

L’idea della bella terra è diventata così anche un monito per ricordare l’importanza di prendersi cura di quel che ci circonda. Un concetto che si è fatto spazio nella mente del Direttore del Maxxi Arte Bartolomeo Pietromarchi, della curatrice Monia Trombetta e dell’artista osservando i circa quaranta disegni della pittrice, che in varie dimensioni raffiguravano i paesaggi e la natura.

Dall’Eneide a Kabul
La serie più recente di opere su carta, Bella terra, rappresenta il cuore della mostra, un omaggio al mondo naturale e allo stesso tempo un racconto dell’impulso che guida l’uomo a proteggere la fragile bellezza del pianeta. «Ho avuto sotto gli occhi per molti anni le miniature indiane che hanno avuto come modello ideale lo stile persiano, raggiungendo perfezioni paragonabili al nostro rinascimento e altri momenti gloriosi. Guardando senza intenzione, ho assorbito quello stile», spiega Ducrot, che ha cercato di rappresentare gli elementi naturali nel modo che più la affascinava, «un sali e scendi di righe, come miniature, con l’intento di non dimenticare che gli elementi sono sempre gli stessi: cielo, terra, acqua, fuoco. E quindi il mio vuole essere un rintocco, un mantra: ricordate che siamo fatti di questo».

Nella prima sala campeggiano invece due grandi opere dal titolo “Lo sbarco di Enea”, che Ducrot ha dipinto oltre 30 anni fa dopo aver letto alcuni versi dell’Eneide, pensando alla profezia di Anchise. «Anchise aveva detto: arriverete nel posto giusto quando mangerete le mense. Giunti a Lavinio il figlio di Enea dice al padre che sono arrivati, che la profezia si stava compiendo. Questa cosa mi aveva impressionata. Con alcuni ritagli avevo costruito delle stoffe, le ho disegnate come fossero montagne e le ho applicate. Nell’opera si sono unite varie esperienze, ma non avevo un’idea chiara di quello che volevo fare. Il caso ha avuto un’incidenza sempre enorme».

Anche la scelta di far rientrare l’approdo di Enea nel percorso della nuova mostra è stata frutto del caso. Ma anche del destino, ipotizza l’artista. «Alcuni spazi del Palazzo erano veramente immensi, allora mi sono ricordata che avevamo queste tele che non avevano più visto la luce. Le abbiamo guardate e io stessa dopo tanti anni mi sono compiaciuta per la bellezza, non me l’aspettavo. Mi è sembrato che da trent’anni aspettassero questo momento, anche loro come Enea attendevano una terra che le ospitasse. Ero contenta che si vedessero proprio oggi, perché questi lavori parlano di accoglienza e sono di grande attualità. E ci siamo ricordati che un musicista aveva composto una brano proprio sull’approdo di Enea, Antonio Caggiano». Un brano dal ritmo potente che passa da suoni soavi a suoni minacciosi e che accompagna, nella prima sala, la visita delle due opere.

Un’altra sala è dedicata poi al “Grande paesaggio”, opera su carta del 2003, che appartiene alla serie di paesaggi afghani a cui l’artista ha iniziato a lavorare nel 2001 dopo i suoi viaggi in quella che ricorda come una terra paradisiaca. «30 anni fa, per un turista, l’Afghanistan era un posto divino, che tutti quelli che hanno cercato di conquistare non sono riusciti a dominare, hanno perso. C’erano tribù agguerrite nel difendere l’unicità e la bellezza di un posto strategico tra occidente ed oriente. Certamente penso che sia il Paese più bello che abbia mai visitato. E vedere le immagini in tv, i carri armati nel deserto, le fabbriche in abbandono è desolante. All’epoca era una terra intoccata. Oggi nel rappresentarla esprimo questo rimpianto. I miei tentativi sono un inno a quello che ho visto, alla bellezza della natura intoccata».

Beata innocenza

Nel racconto che Ducrot fa della sua vita traspare l’innocenza e l’incanto legati alla consapevolezza di esser stata guidata dal caso e dal sentimento. La stessa innocenza di cui ha parlato Papa Francesco durante il ricevimento di circa 200 artisti italiani e internazionali organizzato all’interno Cappella Sistina il 23 giugno scorso, in occasione del 50° anniversario della Collezione di Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, a cui anche la pittrice ha preso parte insieme a personaggi del calibro di Ken Loach e Caetano Veloso.

A colpire Ducrot la descrizione dei “creativi” fatta da Bergoglio. «Voi artisti, ha detto il Papa, voi che scrivete, infondo cadete nella trappola di pensare o dire qualcosa di mai fatto o detto prima, a dimostrazione di un’estrema innocenza. Solo un pazzo può pensare di dire o fare qualcosa mai detta o fatta prima, ma per essere artista bisogna essere un po’ pazzi», conclude Ducrot sorridendo.

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