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“Il trono oscuro”, un estratto dal libro di Andrea Venanzoni

Immagine di copertina

TPI pubblica un estratto del libro "Il trono oscuro. Magia, potere e tecnologia nel mondo contemporaneo" di Andrea Venanzoni (Luiss University Press)

Intelligenza artificiale, robot, macchine a guida automatica: tutto fa pensare al progresso tecnologico. Ma non potrebbe trattarsi invece di magia? È il tema affrontato da Andrea Venanzoni nel libro “Il trono oscuro. Magia, potere e tecnologia nel mondo contemporaneo”, di cui TPI propone un estratto del quarto capitolo del volume.

il trono oscuro

Il 19 giugno del 1956 venne approvato negli Stati Uniti il Federal Aid Highway Act, il testo normativo che avrebbe compiutamente regolato la disciplina della infrastruttura autostradale americana. Tra gli atti preparatori di quel testo di legge, fortemente voluto dall’allora presidente Eisenhower e per espressa richiesta di questi, si può leggere come le autostrade nordamericane si sarebbero dovute ispirare al modello costruttivo della Autobahn del Terzo Reich. Non per simpatie autoritarie del governo statunitense ma soltanto perché quel sistema garantiva velocità nel convogliare mezzi e consentiva il superamento di eventuali snodi saturati dall’eccesso di traffico o da incidenti.

Il decentramento e la creazione di un sistema distribuito hanno costituito un modello che si è traslato dal mondo dei trasporti a quello della veicolazione delle informazioni: se, nel primo caso, la funzionalità decentrata doveva essere servente per le esigenze belliche e per convogliare truppe con la massima velocità nel punto prestabilito, nel secondo, quello della Rete, divenne essenziale poter spostare moli immense di dati, in maniera veloce e capace di superare eventuali saturazioni. D’altronde, molti anni dopo, e come abbiamo visto, William Gibson e altri intellettuali arriveranno a parlare, a proposito di Internet, di Infobahn; una autostrada di veicolazione accelerata di informazioni. Il termine Infobahn racchiude nel suo senso più profondo la scintillante realtà di un esperimento tecnologico che, pur percepito come frontiera di libertà, originò comunque da necessità belliche e ipergerarchizzate.

Esso inoltre rappresenta, in senso oscuro, la preoccupazione che poteri egemoni pubblici o privati fagocitino la Rete attraverso una feroce regolazione: Infobahn divenne quindi sinonimo di una Rete autoritaria, oggetto di interventi legislativi, in opposizione alla caotica e libertaria consistenza eslege del cyberspazio. Internet nacque d’altronde “all’ombra delle armi nucleari”, per dirla con Johnny Ryan,nel pieno della Guerra Fredda. La natura ambivalente della Rete, spazio di libertà e al tempo stesso strumento di connessione per fini bellici, è senza dubbio una delle questioni più spinose per chiunque si sia soffermato su Internet, sulle sue potenzialità e sui suoi rischi. Ancora più spinosa è però la consistenza morale e metafisica dello spazio digitale, un non-luogo in cui le identità vengono replicate senza rimanere uguali a loro stesse, in una sorta di manifestazione perenne di un simulacro. L’irreale del virtuale ha una sua precisa realtà, secondo un parametro che è tipicamente magico: ogni connessione, ogni informazione scambiata, produce mondi, comunità, realtà, che finiscono per assemblare un avatar del nostro essere.

Il successo della magia del caos, della alchimia e di alcune altre dottrine esoteriche quando ci si riferisce a Internet rimanda alla memoria il detto sapienziale di Hasan-i-Sabbah, islamico fondatore della Setta degli Assassini: la frase “nulla è vero,tutto è permesso”, ripresa e variamente ricontestualizzata dal realismo magico e da William S. Burroughs,da Peter J. Carroll, da programmatori informatici, esperti di videogiochi e filosofi radicali, ipostatizza la realtà saliente della Rete per come essa davvero dovrebbe essere. Esorbitante dalla accettazione di un canone, di una regola o di un dogma, sia esso quello dei governi o quello dei “consiglieri del principe”.

Nulla è vero, tutto è permesso esonda dai limiti della legge di Thelema: non è un mero “fai ciò che vuoi”, perché non è schema tipizzato in maniera metalegislativa. Mentre, cioè, per Crowley la legge del dominio dell’amore sotto la volontà viene estrinsecata secondo una metodologia codificata e istituzionale che sfocerà in rituali, evocazioni e aggregazioni comunitarie, come la Ecclesia Catholica Gnostica o le varie ramificazioni dell’Oto, la regola fondante del vero caos non ha verità né alcuna forma di limite e non accetta istituzioni collettivizzanti. Nulla è vero, esattamente come nel virtuale dove realtà e illusione si fondono. Tutto è permesso, posto che uno degli assunti fondanti dell’alta tecnologia è il superamento dei limiti. Il programmatore informatico avvinto dalla idea di servirsi del potere e di servire il potere, come avviene ad esempio nella cybersecurity o nelle invenzioni sfavillanti della Silicon Valley, si spingerà solo fino alla soglia del caos evocato e finirà per accontentarsi della legge di Thelema, ma il pirata informatico, il troll, il mago del caos varcheranno quella soglia per inabissarsi negli strati più cupi della psiche e dell’animo umano digitalizzato.

Il magma nero e vorticante del caos produce nuovi mondi, paralleli rispetto al nostro sviluppo mentale, sociale, caratteriale. E produce una biforcazione strutturale: da un lato, un caos patinato, istituzionalizzato, servente, e dall’altro un caos assoluto, ingovernabile e totalmente privo di centro, un oceano di sensazioni e derive. Questo ultimo oceano oscuro, simile agli antichi canti del Maldoror di Lautréamont, forgia mondi occulti. Sono mondi nostri, popolati solo da noi, e totalmente privi di qualunque forma di socialità e di regola esterna al nostro perimetro psichico. Lo spareiano “Io sono Io” evoluto nel cyber-io. A differenza della magia evocativa che plasma figure elementali, nel mondo della Rete degli albori l’illusorietà avviene senza necessità di spegnere o elidere la volontà: il subconscio produce i suoi spareiani atavismi in maniera continuativa, attraverso rituali plastici e ripetuti di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto e che prendono vita semplicemente vivendo un dato contesto digitale, quale una piattaforma social, un forum o ancor più semplicemente compiendo una data operazione informatica.

Come nella Cabala, ognuna delle dieci sephiroth, ovvero le gemme della sapienza, ha un proprio equivalente oscuro, le qliphoth, anche in Internet ogni cosa ha un proprio doppio che vive di luce e tenebra al tempo stesso e in cui ogni convenzionalità si sdilinquisce nel caos della indistinzione virtuale. Nulla è vero, tutto è permesso, rispecchia poi perfettamente, sia pure a contrario, l’ansia del mondo politico e sociale per la vastità cosmica dello spazio digitale, una ansia che si traduce sistematicamente in richieste di regolazione normativa o di censura di questi o quei contenuti. Il relativismo metafisico imposto dai codici espressivi della Rete, laddove mantenuti saldi, viene considerato riprovevole dalla struttura solidificata nel corso dei secoli degli Stati nazionali, che cercheranno invece di colonizzare e civilizzare questi linguaggi, nel nome della consapevolezza politica e del patto sociale. Homo homini lupus digitalis, non è forse questo un atavismo risorgente dal fondo cavo della mente?

Si deve però rimanere intransigenti e fermi sulla propria posizione ferina senza cedere alle lusinghe del Leviatano che ambisce a governare la Rete, insegnano i maghi del caos e i pirati del digitale, inabissati nei loro camminamenti di pixel. Percorrendo gli infiniti sentieri della “autostrada dell’informazione”, si può metaforicamente seguire il viaggio di Ossendowski verso la terra magica di Agartha, attraverso prima una caotica discesa dalla Siberia, nel cuore invernale e infernale della Rivoluzione d’ottobre e della sanguinosa guerra civile, giù verso la Mongolia e il Tibet: Ossendowski, nel suo vivido e incantevole affresco passa in rassegna una vasta umanità, dal luciferino barone Roman von Ungern-Sternberg, anche noto come Ungern-khan, ai sacerdoti lamaisti, e una altrettanto vasta sapienza misterica. E proprio come Ossendowski, i pionieri della frontiera digitale hanno costruito il loro mondo basato su una identità virtuale da intendersi non come mera replica strutturale di ciò che si situa nel mondo analogico, ma come tentativo magico di edificazione di una polimorfica società sapiente di sogni lucidi e liquidi attraverso cui causare effetti senza apparente causa razionale: il termine avatar, in fondo, ormai entrato nel linguaggio comune del digitale, è la anglizzazione dell’induista Avata- ra, manifestazione palese della discesa del divino nel mondo.

Ricostruendo la straordinaria storia del primo proto-cyberspazio comunitario, The WELL, Howard Rheingold nel volume The Virtual Community, dedica un intero capitolo al modo in cui visionari ed esteti hanno riflettuto sui segni e sui simboli come modalità di identificazione e materializzazione dei processi mentali e comunicativi: richiamando Douglas Engelbart, Rheingold riflette sulle complicazioni della strutturazione della civiltà e decostruisce il concetto, tipicamente magico, del computer e dello spazio virtuale come amplificazioni e prosecuzioni della mente. In questa visione, la identità virtuale connessa alla Rete tende a modellarsi come una sorta di ciò che il filosofo Pierre Lévy identifica come “intelligenza collettiva”, una simbiosi magica e gnostica mirante alla conoscenza universale mediante molteplici connessioni: l’avatar in questa chiave di lettura diventa la teurgia ierofanica dell’individuo che ascende a una comunità di pura informazione e dove la conoscenza è il liquido amniotico definitivo che tutto avvolge e circonda e perimetra.

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