“Il Silenzio”, DeLillo racconta un mondo sconvolto dalla pandemia che cerca di tornare alla vita
L’eccezione è sempre deviazione dalla norma, un flusso giallino di lava e di materia incandescente che lascia irrompere il peso della tecnica nella assopita quotidianità. Incidenti, eruzioni, rotture, pandemie, giravolte della storia che imprimono quel senso perturbante, oltre Freud, capace di porci nudi davanti alla solitudine del cosmo.
Ed è una lezione che Don DeLillo, uno dei più grandi romanzieri statunitensi contemporanei, ormai maneggia e padroneggia con articolata sapienza: e se già in ‘Rumore bianco’, letterale cronaca di un assurdo familiare scivolato nella barbarie di un incidente chimico, la tecnica si era resa fattore demiurgico capace di rimodellare e definire l’esistenza in un nuovo paradigma, nel recentissimo ‘Il silenzio’ (Einaudi, 2021) arrivano al pettine i metaforici nodi di un istante spezzato in cui pandemia colta alla sua fine, nel momento più feroce della ricerca del ritorno alla vita, e squasso tecnologico deviano il cuore della grande convergenza tecnologica.
Più che un romanzo, come ha notato Claudia Durastanti su Tuttolibri, ‘Il Silenzio’ prosegue quel circuito interiore strutturalmente teatrale che connota una porzione obliqua e intima della produzione di DeLillo; e d’altronde alcuni dei topoi postmoderni, incistati nel solco sanguinolento e iridescente di neon della cultura popolare americana, se ne stanno a fremere sotto la coltre increspata di pelle e strade disperse, dalla caduta allo sport, dalla tecnologia impazzita e avara ai rapporti umani filtrati attraverso quel lucore bianchiccio di una perdita senza fine.
E vengono alla mente quelle note intessute dalla pallina da baseball di ‘Underworld’, pagina dopo pagina, personaggio dopo personaggio, anno dopo anno, nella evoluzione incespicante di un ritratto corale di una America nebbiosa e rovesciata: perché anche ne ‘Il silenzio’ c’è un ritratto sportivo, quella che doveva essere una divagazione sul tema e che invece si trasforma nella occasione mancata, nel solco di una normalità perturbata.
Jim e Tessa, i due protagonisti, sono a bordo di un velivolo, sorvolano Newark di ritorno da Parigi, con la prospettiva di recarsi a casa di due loro amici, Max e Diane, per seguire il Superbowl; un rito di passaggio della cultura americana che si ripete nell’eterno ritorno di una adolescenza interrotta e che ci ricorda la presenza, quasi sonnambula e latrante, di uno sguardo bambino perso sul ciglio dei campi sportivi, con la consentanea e consanguinea presenza di amicizie, tradimenti, ristori, promesse, e più raramente redenzioni.
Da quelle corse dei cavalli mirabilmente narrate da William Faulkner, con assise di scommettitori e curiosi assiepati attorno al galoppo incessante delle bestie così nobili, allo stesso DeLillo che in ‘End Zone’ ci ha deliziato con un caleidoscopico gioco di sguardi e di forme irrisolte di esistenze, sportive, ai margini della grande periferia dell’impero americano, fino a quel delizioso e meno conosciuto, rispetto ad altre sue opere, insieme di racconti che è ‘Fuori dai giochi’ di Francis Scott Fitzgerald e a quel calembour psichedelico e geniale di David Foster Wallace, ‘Tennis, TV trigonometria e tornado’.
E c’è il viaggio, il viaggio spezzato, frammentato, incanutito dal perturbante e dall’incidente, dalla eccezione che si dilata fino ad occupare nella sua interezza la linea d’orizzonte: eccezione della eccezione, la frantumazione della connessione digitale globale che si incunea e si incurva nel ventre brevilineo di un mondo sconvolto dalla pandemia e che proprio, ironia del caso e del caos, stava cercando di tornare alla vita.
Chi rammenta la paura quasi medievale che ci ha accompagnato al volgere del Millennio, e poi ancora peggio tra maledizioni Maya e profezie tecnologiche promettendoci la fine del nostro io-tecnico, ricorderà bene il sacro terrore che pur tra mille rassicurazioni di governi, esperti e guru ci si è abbattuto sulle scapole, quando si paventava la fine di internet, la distruzione interiore dei computer, la cecità completa e devastante di un regresso ad uno stadio pre-moderno.
Perché senza iPhone, senza computer, senza email siamo letteralmente persi, smettiamo, e lo sappiamo, di esistere: quell’affannarsi del respiro se lo smartphone sembra non accendersi, l’ansia che una email non ci arrivi perché la casella è malfunzionante, ecco, prendiamo la potenza inespressiva di questo sacro terrore e piantiamolo nel cuore del mondo tutto e potremo immaginare una apocalisse senza trono destinata a ripetersi ora e sempre.
Ma qui siamo ben oltre: perché nel momento dell’apparire trionfante e malevolo della eccezione, del crollo tecnologico, assistiamo ad un autentico transfert, alla de-moralizzazione, plastica e appunto teatrale dei personaggi chiamati in scena che iniziano, lentamente, a divenire ciò che la tecnologia ha interrotto. Non sappiamo perché, ne vediamo solo il come, ogni device tecnologico ne ‘Il silenzio’ smette di funzionare. Diventa tutto schermo inespressivo, inerte e nero, come un gorgo oceanico in piena notte.
L’aereo e la sua strumentazione, fino all’atterraggio fortunoso, segnato dalla perdita di quota, e poi i computer, le linee telefoniche, gli schermi televisivi, le radio. Non c’è nulla di gioioso o di luddista in questo scenario primitivo che si palesa, non richiesto. A imitare la forma sportiva, il linguaggio tecnico, la deviazione narrante, una forma organica e caotica, vorticante, alfa e omega che spezza il linguaggio; la corsa cieca verso una accelerazione ridondante che sembra chiamare in causa, al contempo, l’orizzonte negativo di Paul Virilio e una danza di simulacri, alla Baudrillard.
E quella caduta nel vuoto neon che richiama la furia iconoclasta di ‘Partenze notturne di Stephen Wright, con un ologramma trascolorante tra oscenità e scenografie impilate di assenze nel ventre carnicino di una America sempre più confusa, forse inesistente, ma percepita come reale e con un’aura indistinta, che la punge, la fende, la attraversa.
Soltanto che qui il viaggio avviene nell’azzeramento della distanza, del tempo e del linguaggio, con un assorbimento compulsivo della carne e dello spirito nella cessazione degli input tecnologici. I personaggi de ‘Il Silenzio’, i quattro amici e Martin, un ragazzino stralunato e a modo suo ecletticamente geniale come furono alcuni dei personaggi di Foster Wallace, appartengono al caos calmo della narrativa americana, ne sono quasi essenze fantasmatiche e stereotipiche, e in fondo il volumetto stesso si apre con uno stereotipo filosofico, la frase di Einstein sulla quarta guerra mondiale che si sarebbe combattuta a colpi di clava.
Ognuno dei personaggi richiama ed evoca alla memoria il flusso interrotto delle informazioni, della comunicazione, verbale, prossemica, digitale, la frattura del tecnico che ci riduce a uno spaventoso umano: perché, e questo DeLillo ce lo ricorda con candido e feroce nitore, non siamo più abituati ad essere umani, nudi davanti a noi stessi, alla vita, al mondo reale, privo di silicio e di transistor.
La nostra realtà è una realtà, in presenza dell’alta tecnologia, strutturalmente aumentata, bulimica nel suo accumulo di informazioni spesso inessenziali e che collezioniamo con voluttà masochistica, solo perché ci cadono addosso da un punto indefinito del mondo. E ciò è tanto vero che quando tutto si infrange, iniziamo a vomitare le informazioni, noi stessi, aderendo fisicamente al mondo tecnologico fortuitamente silenziato.
DeLillo non indulge in un facile pietismo metaforico, il romanzo non è una lectio magistralis sulla necessità di comprendere il senso del ritorno alla vita analogica, o peggio una critica elegiaca alla dipendenza dalla tecnologia: è piuttosto il rumore sordo di una potenziale fine, il limite che ritorna, dopo essere stato scaraventato giù nella scarpata nella illusoria idea che la tecnologia potesse averlo distrutto. Ed è in fondo proprio questo ‘Il silenzio’, un romanzo sul senso del limite, infranto, perturbato, violato, risorto, in questa commistione di carne e linguaggio, di ipotesi cimeteriali e televisori muti.
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