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Home » Cultura

Governa la tecnica o la politica? L’avanzata dei tecnici, i passi indietro della classe politica e la tecno-democrazia

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Il presidente del Consiglio Mario Draghi e l'ex presidente del Consiglio Mario Monti

"Le buone idee o la capacità tecnica o il dottorato di ricerca non bastano e non garantiscono che chi le ha possa essere un buon politico. Il successo di un politico si dimostra con il consenso che ha e le riforme che riesce a fare. Spesso ai tecnici manca la visione fulminea, la gestione del rischio e anche l’assenza di scrupoli tipica del politico di professione". L’intervista al professor Lorenzo Castellani, docente di Storia delle istituzioni politiche alla Luiss e autore del saggio "L’ingranaggio del potere"

La guida della società è dettata dalla classe tecnica o dalla classe politica? Eppure sono due corpi che, parzialmente, si alimentano a vicenda. Due facce della stessa medaglia. La domanda è costante nella modernità dei nostri tempi, nella richiesta di quel sapere sempre più scientifico, specialistico e particolare di cui necessita l’amministrazione della cosa pubblica al giorno d’oggi. Una società che si è fatta più complessa nei secoli, con una brusca accelerazione dopo la rivoluzione industriale, con un sapere specialistico sempre più ricercato.

È successo nel privato e nel pubblico. Nel privato, con la progressiva separazione fra la proprietà dell’impresa e il corpo manageriale che l’amministra senza averne, appunto, la proprietà. Nel pubblico, con schiere di nuove figure di carattere tecnico, specialistico, coerente con regole e principi di funzionamento che ha sempre più preteso spazio in nome dell’efficienza. È il rapporto, confronto, scontro, forse complementarità fra le due classi che rappresentano il principio di rappresentanza e il principio di competenza. Sono, rispettivamente, la politica e la tecnica.

D’altronde, anche Carl Schmitt in Dialogo sul potere, scrisse che “anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri”. I consiglieri, appunto, intesi come depositari della sapienza, competenza, sapere particolare, in poche parole, della tecnica. Argomento caldo e quantomai attuale, che Lorenzo Castellanidocente di Storia delle istituzioni politiche presso la Luiss – affronta in modo magistrale nella sua ultima opera. Si tratta del saggio L’ingranaggio del potere, pubblicato per la casa editrice Liberi Libri. Il professor Castellani in un’intervista con TPI ha argomentato su diversi concetti che riporta lucidamente nel suo saggio.

In “La libertà degli antichi e quella dei moderni”, Benjamin Constant sottolineava la differenza fra “la liberta di” partecipazione allo Stato (in antichità) rispetto alla “libertà da”, ossia dallo Stato e dalle sue sfere di esercizio. Se la prima consisteva nel chiedere spazio nella scelta e partecipazione pubblica, con la seconda ci si vuole smarcare dal suo controllo. Oggi, chiaramente adattandoci ai tempi, può essere la libertà degli attuali moderni quella di “smarcarsi” dalla tecno-democrazia?
Più che smarcarsi direi per andare verso un sistema fondato sulla responsabilità e sulla sussidiarietà, senza effetti estranianti o alienanti sugli individui. Il problema della tecno-democrazia è che le istituzioni sono troppo lontane dall’individuo, troppo decentrate dalla società. Si alimenta così un senso di impotenza nel cittadino e si creano i presupposti per reazioni identitarie violente. Dobbiamo invece coltivare entrambe le libertà, quella positiva rispetto soprattutto all’amministrazione, dove occorre maggiore partecipazione e coinvolgimento della società nel processo decisionale, mentre quella negativa va intesa come vigilanza nei confronti del potere politico a tutti i livelli.

Lei nel suo libro cita anche Karl Popper, sul fatto che il pianificatore centrale tenda a eliminare le differenze individuali. Insomma, se da un lato uniformare con regole che vengono dalla tecnica e dalla burocrazia può creare unione, il rischio non è quello di perdere la ricchezza delle diversità?
Proprio così. Il nostro mondo oggi è una somma di sistemi di potere multilivello, in cui le istituzioni tecnocratiche di marca economica e giudiziaria occupano sempre più spazio nel processo decisionale. Viviamo in una realtà largamente depoliticizzata, o quantomeno che si presenta come tale, in nome della tecnica e dello specialismo. Tuttavia, la vita umana non è solo calcolo e procedura. È piena di errori ed inciampi proprio per la mutevolezza ed imprevedibilità sia degli eventi che degli individui. Società e politica non possono essere ridotte a delle leggi o a dei semplici calcoli. Perché è vero che la tecnica, in ogni campo del sapere, ha dei criteri uniformanti ma non è comunque capace di includere in sé ogni conoscenza ed ogni ipotesi di una data situazione. Anche nel campo più avanzato la conoscenza è sempre parziale e dispersa. Per questo pensare che esista una oggettività assoluta nelle scienze sociali è sbagliato, ci porta ad essere troppo rigidi e a pensare che esista una soluzione universale per tutti. Non è così, non esistono quasi mai giochi a somma positiva in cui tutti guadagnano. La politica è sempre scelta, decisione, traccia vinti e vincitori, divide il tutto in parti. La diversità costitutiva di qualunque società umana non potrà mai essere completamente controllata dal processo tecnico. Ancora meno un campo così umano come quello della politica.

Vivere in un’area di libero scambio, successivamente sempre più coesa e con una parte che ne condivide la moneta ha creato dei veri e propri “fortini” della potenza del tecnocrate che punta ad armonizzare il tutto. La Bce, la Commissione Ue, i rappresentanti permanenti etc. Esistono dei corpi che possiamo definire come un “un male necessario”?
È chiaro che non si possano gestire né un mercato integrato né una politica monetaria comune come la riunione di condominio. Lo stesso capitalismo finanziario esige delle certezze e delle professionalità che possono essere garantite soltanto da istituzioni a carattere tecnocratico. Non dobbiamo dimenticare però quello che c’è sotto, e cioè che le decisioni di questi corpi tecnocratici influenzano la vita di centinaia di milioni di persone, abituate a pensare in termini di rappresentanza delle proprie volontà, interessi, aspirazioni. Se le tecnocrazie non possono diventare democratiche, e non possono, dovrebbero però diventare più responsabili quantomeno nei confronti dei parlamenti e degli Stati. Il problema di queste istituzioni è prevalentemente di legittimazione: se pochi o nessuno si riconosce in esse, ma tutti comprendono che esse detengono un potere molto vasto, alla lunga iniziano ad emergere i problemi.

Venendo all’Italia abbiamo avuto grandi esempi di tecnici che hanno fatto la fortuna del nostro Paese. Pensiamo a Donato Menichella, al suo lavoro in Bankitalia grazie al quale l’Italia ha costruito le sue riserve auree. Qual è lo scontrino della storia per i vari “Menichella” di turno? Il tempo è galantuomo con i tecnici come lui?
In quei casi più che di tecnici parliamo di civil servants, cioè di persone di elevata competenza che hanno servito bene uno Stato. Menichella era un tecnico ed è sempre rimasto tale, un uomo delle istituzioni che non ha mai fatto politica direttamente. Con Alberto Beneduce, il suo maestro e fondatore dell’Iri, la storia è stata forse meno generosa perché era più direttamente legato al regime fascista ed è morto sotto di esso. Ad ogni modo i tecnici sono come tutti gli altri personaggi storici: alcuni diventano subito figure positive, altri negativi, alcuni vengono riscoperti tardi o restano per sempre in chiaroscuro. Dipende sempre dai contesti, dalle circostanze e anche dalla memoria di un paese. In Italia, fino a poco tempo fa, non c’era grande attenzione storica verso i civil servants quindi è più difficile fornire una valutazione netta.

La tentazione, però, di invadere il campo è sempre forte. Insomma il tecnico, spesso, dopo la comprensione degli “ingranaggi del potere”, aver sostituito il politico magari a capo di un governo tecnico, poi spera anche di legittimarsi con la rappresentanza oltre alla competenza. Lamberto Dini, Mario Monti, sino ai più giovani come Carlo Calenda, legittimamente, sono esempi della competenza tecnica che si tuffa nel mare della rappresentanza politica. È una lotta impari essendo poco probabile il contrario?
Credo nel “politico come professione” e dunque tendo ad essere scettico verso i tecnici che si presentano come tali in politica. Sappiamo bene quanto la politica si fondi sull’esperienza, sulla capacità di fiutare i venti e gli umori, sulla scelta dei tempi e sulla capacità di costruire compromessi. Le buone idee o la capacità tecnica o il dottorato di ricerca non bastano e non garantiscono che chi le ha possa essere un buon politico. Il successo di un politico si dimostra con il consenso che ha e le riforme che riesce a fare. Spesso ai tecnici manca la visione fulminea, la gestione del rischio e anche l’assenza di scrupoli tipica del politico di professione.

Detta in maniera simpatica, dal piccolo Comune alla grande macchina statale, quello del tecnico è anche un lavoro “antipatico”. Spesso, con leggi e regolamenti o con una calcolatrice, smonta i sogni e le idee del politico spiegandogli che non sono cose fattibili nella realtà o che non c’è la possibilità economica. Insomma, il tecnico in tutte le sue dimensioni è spesso un guastafeste?
Dipende. In alcuni casi lo è perché rappresenta un freno naturale alle ambizioni fuori misura della politica. In molti altri può essere un collaboratore virtuoso ed essenziale per raggiungere la meta, si pensi appunto ai tanti civil servants. In altri ancora, i tecnici possono risultare decisivi. D’altronde, come avrebbe fatto Winston Churchill senza i suoi generali o senza il professor Frederick Lindemann, il suo amico fisico esperto in bombe, durante la guerra?

L’elettore guarda un po’ con la puzza sotto il naso chi non ha una laurea e un certo percorso didattico alle spalle. Spesso si critica un politico perché è solo diplomato. Ma perché, non è forse possibile essere un bravo amministratore, magari anche ministro o premier, senza avere frequentato l’università? In fondo la formazione mica è solo didattica. È anche esperienza sul campo e gavetta pratica quotidiana. Insomma si può essere un buon ministro dell’Interno anche essendo un medico o un rispettabilissimo ragioniere nella vita civile, giusto per dirne una. Non solo in Italia, bravi ministri dell’Economia mica erano economisti, bravi ministri della Giustizia giuristi e così via. Ne conviene?
È precisamente la mia obiezione alla retorica della competenza, tanto in voga soprattutto nella sinistra progressista. La politica per costituzione è chiamata a decidere su questioni generali, mentre la competenza decide su aspetti specifici. La politica necessita di esperienza, l’amministrazione di competenza. Basti pensare all’antica Roma: si era stabilito un cursus honorum proprio per formare i politici, filtrarne la carriera, accumulare esperienze per gli incarichi più alti. Abbiamo disperatamente bisogno di recuperare un meccanismo di questo genere.

Per concludere, la storia del mondo è fatta di persone che con coraggio hanno cambiato il corso degli eventi. Grandi leader con visione e passione. Se la tecnica si può acquisire, certamente la capacità di leadership e visione sono innate. Che caratteristiche avrà il politico del futuro?
Dovrà sapersi orientare in un mondo multi-livello e quasi neo-medioevale, organizzato in poteri sempre più ampi e frammentati, su scale differenti. Dovrà conoscere la nazione, ma anche i territori e poi i poteri sovranazionali e globali. E capire come inserire la propria iniziativa in questo scenario. La sua prima qualità dovrà essere la misura, cioè la capacità di tarare il proprio raggio di azione.

Leggi anche: “La Cina non sarà mai una democrazia ed è il momento che il mondo lo capisca”: intervista a Alessandro Aresu

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