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Home » Cultura

Una H cambierà il mondo: colloquio con Massimo Lapucci

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I principi di sostenibilità ESG sono fondamentali, ma spesso si riducono a meri adempimenti formali scollegati dalla realtà. Per ottenere un vero cambiamento, va aggiunta all’acronimo la H di Health, Human e Happiness: dobbiamo ridare importanza all’essere umano. Ne parliamo con Massimo Lapucci, international fellow alla Yale University-Digital Ethics Center e presidente di Egea Holding

«Non può esserci vero progresso senza un’attenzione alla felicità individuale ma anche collettiva». Massimo Lapucci, international fellow alla Yale University-Digital Ethics Center e presidente di Egea Holding, autore insieme a Stefano Lucchini, capo degli Affari istituzionali e della Comunicazione esterna di Banca Intesa Sanpaolo, del libro “Ritrovare l’umano” (Baldini+Castoldi), ne è convinto.

Da anni la sostenibilità delle imprese si misura valutando i criteri ESG, acronimo di Environmental, Social e Governance (ambiente, società e governance). Tre lettere a cui voi, nel vostro libro manifesto, avete aggiunto anche la lettera H di Health, Human e Happiness (salute, umanità e felicità), che si pone alla base di un nuovo paradigma in tema di sostenibilità. Cosa ci può dire a riguardo?
«Partendo da alcune riflessioni, in un momento storico di profondi e rapidi cambiamenti, con Stefano Lucchini abbiamo sentito l’esigenza, un po’ provocatoriamente, di ripensare il concetto di sostenibilità, andando oltre i parametri tradizionali legati ai temi ESG (Environment, Social e Governance). È possibile migliorare il pianeta senza rinunciare al progresso? O davvero dobbiamo convincerci che il progresso tecnologico e la sostenibilità siano incompatibili? È nato così “Ritrovare l’Umano. Perché non c’è sostenibilità senza Health, Human and Happiness”, perché crediamo fermamente che la sostenibilità non possa essere esclusivamente relegata a un insieme, pur necessario, di parametri finanziari o mere metriche ambientali divenendo un semplice esercizio di compliance o di routine e perdendo del tutto la capacità, e lo scopo originario, di incidere positivamente sulla società e sul benessere delle persone. Ritengo che la lettera H debba costituire un ampliamento necessario dei principi ESG, introducendo concetti quali Health, Human e Happiness come elementi centrali per una sostenibilità più completa. La salute (intesa come global Health) è fondamentale per garantire il benessere fisico e mentale della Persona in ogni ambito, dall’ambiente di lavoro alla società nel suo complesso. Ma H significa anche Human, ossia la centralità dell’essere umano come Persona integrata nel “villaggio globale”, con diritti, dignità e necessità di equilibrio psicofisico. Happiness sottolinea la legittima aspirazione alla felicità intesa non solo come emozione individuale, ma come benessere collettivo e armonia sociale, così come richiamata anche all’interno della dichiarazione di indipendenza americana. In questo, si inserisce perfettamente anche una quarta H di Heart, che ci ricorda l’importanza dei valori come l’empatia e l’etica che devono guidare la Governance specie nei processi di decision-taking. L’idea di ESG+H è quindi un invito a superare una visione puramente quantitativa delle metriche ESG, ponendo al centro l’essere umano e il suo ruolo insostituibile per un futuro sostenibile». 

Possiamo quindi affermare che in un mondo che corre velocissimo, è sempre più sfidante valutare la sostenibilità nella sua complessità. Ma i classici principi ESG  che studiano l’impatto a livello ambientale, sociale e di governance hanno dei limiti? E come rientra in tutto questo il tema della dignità della persona su cui voi puntate molto nel saggio.
«Certamente questo nostro tempo corre molto veloce e le cosiddette global issues hanno impatti sempre più globali e ci pongono dinanzi a continui e spesso inaspettati cambi di rotta; basti pensare a quanto sta accadendo in questi giorni sulla scena geopolitica internazionale con il rapido sovvertimento di equilibri di global governance che hanno caratterizzato la scena mondiale negli ultimi 80 anni. Direi che i principi della sostenibilità ESG, pur essendo fondamentali nell’orientare aziende e istituzioni, hanno presentato progressivamente alcuni limiti. Uno dei principali è la tendenza a ridurre la loro applicazione a semplici metriche o adempimenti burocratici, spesso scollegati dalla realtà concreta delle comunità e delle persone. Questo approccio rischia progressivamente di svuotarli di significato, trasformandoli in strumenti di comunicazione o marketing piuttosto che in leve di cambiamento reale. Inoltre, i principi ESG si sono concentrati in molti casi quasi esclusivamente su questioni, pur rilevanti, misurabili e tangibili, finendo però per trascurare l’importanza di aspetti intangibili, come il benessere umano, la salute psico-fisica e perché no, la felicità. Questo può portare a una visione parziale della sostenibilità, lontana dalla gente, che non considera adeguatamente la dimensione umana e la necessità di un equilibrio tra progresso economico, salute, e valori sociali. È quindi evidente che la dignità della persona è al centro del nostro “Ritrovare l’Umano”. ESG+H. Siamo convinti che non si possa parlare di vera sostenibilità senza considerare il benessere e la salute degli individui, poiché sono questi ultimi a vivere nel mondo che stiamo cercando di migliorare. Per questo, l’attuale struttura della sostenibilità ESG può risultare poco adatta a rispondere alle trasformazioni rapide e complesse del nostro tempo, come l’impatto dell’intelligenza artificiale o delle crisi globali». 

Ci stiamo avvicinando alla scadenza degli obiettivi fissati dell’Agenda 2030. Secondo lei, possiamo trarre un primo bilancio?
«Ritengo che l’Agenda 2030 abbia rappresentato una visione ambiziosa, una formidabile azione di education internazionale e di richiamo collettivo all’importanza di un futuro davvero sostenibile. Oggi grazie anche ai 17 SDG dell’Agenda Onu 2030 (sustainable development goals) tutti sanno cosa siano gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Ma a pochi anni dalla scadenza, i progressi sono disomogenei e, in molti casi, non sufficienti. Alcuni obiettivi, come la riduzione della povertà estrema, hanno registrato miglioramenti, ma altri, come la lotta al cambiamento climatico o la riduzione delle disuguaglianze, sono ancora lontani dall’essere raggiunti. La pandemia, i conflitti geopolitici e le crisi economiche globali hanno sensibilmente rallentato molti sforzi, evidenziando al contempo la necessità di un approccio più integrato e resiliente. Tuttavia, ci sono segnali positivi: la crescente consapevolezza globale sui temi della sostenibilità e il coinvolgimento di aziende, governi e società civile stanno creando un’onda di cambiamento. Anche in questo caso, non dobbiamo rischiare di buttar via quanto di buono è stato sin qui fatto – magari anche cedendo a facili lusinghe di breve termine di certa politica – ma occorre accelerare i progressi realizzati, rinnovando il nostro impegno, promuovendo soluzioni innovative e collaborazioni che mettano al centro la Persona, l’ambiente e il benessere collettivo, per un futuro decisamente più ESG+H». 

Nel vostro libro ripercorrete anche le evoluzioni storiche nel corso delle rivoluzioni industriali. Siamo all’alba di una nuova rivoluzione o, al contrario, siamo in fase di stallo?
«Le rivoluzioni industriali che ci hanno preceduto hanno portato con sé nuove sfide per l’ambiente e la società, e oggi, più che mai, è fondamentale rinnovare il nostro approccio alla sostenibilità. Non siamo in una fase di stallo, ma siamo all’alba di una rivoluzione, appena iniziata: quella digitale e della transizione energetica. Questa trasformazione radicale ci richiede però un cambio di paradigma, che vada oltre i soli parametri. Dobbiamo ripensare il concetto di sostenibilità, introducendo l’elemento umano come catalizzatore fondamentale del cambiamento. ESG+H rappresenta proprio questo tentativo di riportare l’attenzione sulla dignità della persona, come già auspicato nel Secolo dei Lumi, per costruire un futuro in cui il progresso tecnologico e la sostenibilità si possano fondere con il benessere della Persona. La lezione che ci viene dalla storia è proprio quella di non arrendersi al fatalismo ma di impegnarsi per generare un cambiamento e un impatto positivo nel tempo». 

Qual è la prima cosa da fare per agevolare la ricerca della felicità dei propri lavoratori? E le istituzioni del nostro Paese e a livello internazionale, come dovrebbero occuparsi del tema?
«La prima cosa da fare per agevolare la ricerca della felicità dei lavoratori è certamente quella di creare un ambiente di lavoro che tenga in giusta considerazione anche il benessere della persona. Ciò significa investire sulla salute fisica e mentale dei dipendenti, offrire loro opportunità di crescita e di sviluppo personale, promuovere un equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, e instaurare una cultura aziendale basata sul rispetto, sulla collaborazione e sulla valorizzazione delle diversità. Inoltre, è importante che gli imprenditori siano in grado di comprendere le esigenze e le aspirazioni dei propri collaboratori, e di adattare di conseguenza le politiche e i programmi aziendali. Solo attraverso questa attenzione alla Persona nella sua interezza, le aziende potranno davvero contribuire benessere dei propri collaboratori, con un beneficio di ritorno anche in termini di produttività. Le istituzioni a livello nazionale ed europeo sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere e sostenere l’adozione di pratiche aziendali incentrate sulla persona e sulla sua realizzazione. Molto hanno già fatto in tal senso ad esempio i programmi di welfare introdotti negli ultimi anni in molte aziende. Un ulteriore rafforzamento può derivare da incentivi fiscali e da finanziamenti per le imprese che investono nel benessere dei propri dipendenti, oppure attraverso la definizione di standard e linee guida che incoraggino l’integrazione dei fattori umani (Health, Human e Happiness) all’interno dei modelli di sostenibilità. Inoltre, le istituzioni dovrebbero svolgere un’azione di sensibilizzazione e di educazione, promuovendo una cultura della sostenibilità che vada oltre i soli aspetti ambientali e finanziari, per abbracciare una visione più ampia e inclusiva del benessere della persona e della società nel suo complesso». 

Domenico De Masi sosteneva che «non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele». È d’accordo?
«Sono d’accordo con questa affermazione. Non può esserci vero progresso senza un’attenzione alla felicità individuale ma anche collettiva. La distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere e delle opportunità rappresenta un ostacolo fondamentale al raggiungimento della realizzazione della Persona come cellula costitutiva della società. Finché persisteranno queste disuguaglianze, e soprattutto se la percezione indotta – specie nelle nuove generazioni – è quella dell’impotenza a poter cambiare la situazione, sarà impossibile costruire una società veramente sostenibile e prospera, anche dal punto di vista economico. Basti guardare ad esempio a molte realtà dell’America latina – e ahimè ora anche in molti Paesi occidentali – dove pur in presenza di una grande ricchezza generata a livello aggregato, la concentrazione è sempre più elevata e nelle mani di pochi e la qualità della vita per ampie fasce di popolazione è a livelli decisamente bassi con un livello di conflittualità interna pericolosamente crescente. Ciò si ripercuote inevitabilmente anche su scelte politiche estremiste e su leadership poco preparate o incapaci di gestire la cosa pubblica se non interpretandola come mero vantaggio economico e di potere per sé stessi o per pochi privilegiati. Gli effetti di questo trend sono drammaticamente sotto gli occhi di tutti in questi giorni. È necessario quindi ripensare i nostri modelli economici e sociali, ponendo al centro la Persona e il suo benessere, in modo da poter garantire a tutti pari opportunità basate su talenti e capacità di ciascuno. Solo in questo modo potremo realizzare quel nuovo umanesimo di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide di un tempo decisamente complesso».

L’intelligenza artificiale può contribuire alla ricerca della felicità? O invece può essere un ostacolo?
«Inizierei con il ricordare che nel panorama tecnologico in rapida evoluzione dell’inizio di questo secolo, l’etica digitale e l’intelligenza artificiale (IA) sono rapidamente diventate tematiche centrali che plasmano il nostro futuro collettivo. L’etica digitale, in particolare, si occupa dei principi morali e delle norme che guidano il comportamento nel mondo digitale. Con l’avvento dell’intelligenza artificiale, questa disciplina ha assunto un’importanza sempre maggiore. L’IA, con la sua capacità di elaborare grandi quantità di dati e prendere decisioni autonome, solleva questioni etiche complesse che richiedono un’attenta considerazione, soprattutto con riguardo ad alcune tematiche che si sono rivelate nel tempo vere e proprie sfide etiche. Ora, credo che l’IA possa effettivamente contribuire in modo significativo alla ricerca della felicità, ma allo stesso tempo può anche rappresentare una sfida da affrontare con attenzione. Da un lato, l’IA può offrire strumenti e soluzioni che migliorano la nostra qualità della vita in molti modi. Pensiamo ad esempio all’assistenza sanitaria personalizzata, alle applicazioni in ambito salute mentale o agli assistenti virtuali che ci aiutano con compiti quotidiani. Tutto questo può consentirci di concentrarci maggiormente sulle cose che davvero ci rendono maggiormente felici. Questo potrebbe portare a interventi mirati e a una maggior realizzazione delle nostre aspettative. Tuttavia, non possiamo ignorare i potenziali rischi e sfide che l’IA può comportare in tale ambito. L’eccessiva dipendenza dalla tecnologia, l’isolamento sociale, l’erosione dell’occupazione e persino la manipolazione dei nostri comportamenti e delle nostre emozioni sono tutte preoccupazioni legittime che dobbiamo affrontare. È fondamentale che lo sviluppo dell’IA sia guidato da una adeguata regolamentazione basata sul rispetto di principi etici e umanistici e di chiari confini di azione, ponendo la Persona e la sua tutela al centro. Questo comporta un ruolo attivo di istituzioni e decisori pubblici così come fatto per molti altri settori a rilevanza e impatto di pubblico interesse: acqua, elettricità, autostrade o aeroporti ad esempio, non vedo perché l’intelligenza artificiale debba costituire un’eccezione, specie in questa fase così delicata di comprensione dei suoi effetti e potenzialità. Chi si pronuncia in favore dell’eliminazione di ogni regola di gestione in ambito AI, lo fa mosso soprattutto dalla volontà di massimizzare profitti personali di breve termine. Dobbiamo invece assicurarci attraverso delle buone regole che la tecnologia rafforzi la nostra umanità, piuttosto che sostituirla o limitarla. Solo così potremo sfruttare appieno il potenziale dell’IA per migliorare il nostro benessere a lungo termine. Per concludere, ritengo che l’IA possa essere uno strumento prezioso nella ricerca della felicità, ma solo se sapremo gestirla con consapevolezza, empatia e un profondo rispetto per la condizione umana». 

Nel libro parlate di «finanza etica». Cosa intendete? Può dirci di più?
«Tema ampio e di grande attualità a mio avviso; quando si parla di “finanza etica”, ci si riferisce in generale a un approccio che mira ad allineare le decisioni finanziarie e gli investimenti con principi etici e il bene comune della società nel complesso. L’idea è di andare oltre la semplice massimizzazione dei profitti, considerando invece l’impatto più ampio che le risorse finanziarie possono positivamente generare. La finanza etica guarda agli investimenti sostenibili come strumenti per favorire, supportare attività e iniziative in grado di generare impatti positivi pur ovviamente senza perdere di mira la generazione di profitti. Ad esempio, la scelta di investire in aziende di energie rinnovabili piuttosto che in giganti dei combustibili fossili o del tabacco, o ancora di concedere prestiti a piccoli imprenditori nei Paesi in via di sviluppo attraverso programmi di microfinance, può costituire un buon esempio. Certo va detto che navigare nel mondo della finanza etica talvolta appare complicato, poiché c’è ampio spazio per le diverse sfumature e il dibattito su cosa sia effettivamente etico. Ma credo che la chiave sia nel comprendere i valori guida su cui basare le proprie scelte e poi prendere decisioni finanziarie coerenti con essi. E non è una questione limitata solo al mondo degli investimenti d’impresa. Vivere una vita finanziaria orientata all’etica riguarda anche la gestione delle proprie finanze personali: cose come sostenere le attività locali e persino essere consapevoli delle proprie abitudini di spesa possono far parte di questo approccio. In conclusione, ritengo che la finanza etica sia un modo più olistico e consapevole di utilizzare il proprio potere finanziario per contribuire alla generazione di impatti positivi capaci di andare al di là del semplice accumulo di risorse finanziarie come fine unico ultimo. Del resto questo è un trend che sta interessando molto, ad esempio, anche il cosiddetto wealth management, dove man mano che si realizzano trasferimenti di risorse finanziarie verso clienti rappresentati da nuove giovani generazioni, si assiste a un’attenzione crescente verso le scelte di investimento che gli operatori bancari o finanziari compiono nella gestione delle risorse dei loro clienti: i giovani in buona sostanza vogliono generalmente capire di più dei loro padri dove vengono investiti i propri soldi e che tipo di impatto positivo sono in grado di determinare con le loro scelte nella società in cui vivono. E questo lascia ben sperare per il futuro nonostante quello a cui stiamo assistendo sulla scena globale a livello internazionale».

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