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Home » Cultura

Eliminare il vecchio tema di italiano è un atto di violenza

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Dopo aver proposto l'eliminazione del tema classico di italiano alle medie, l'idea è quella di farlo anche alla maturità. Le conseguenze sarebbero pericolose, in un paese in cui molti giovani non sanno scrivere. Il commento di Fiorenza Loiacono

Questa è una sera in cui è necessario tralasciare le scadenze e rinunciare al riposo per scrivere invece un testo, una sorta di tema, come risposta agli ultimi (s)propositi dei tecnici, i cosiddetti “esperti” del Ministero dell’istruzione.

Questa notizia puoi leggerla direttamente sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come

Pare che dopo aver eliminato il tema d’italiano dagli esami di terza media, la stessa cosa avverrà per quello della maturità, con inevitabili ripercussioni sul lavoro dell’intero anno scolastico.

Nel caso delle medie, il tema classico verrà sostituito da “una sintesi ragionata degli elementi essenziali di un testo; una narrazione costruita a partire da elementi forniti dal docente (ad esempio, un incipit o un breve racconto da variare, reinterpretare o arricchire); l’argomentazione di una o più tesi, magari fra loro contrapposte”. 

Leggi anche: Ecco come cambia l’esame di terza media

Accadrà anche per le scuole secondarie superiori?

Basta uno sguardo per rendersi conto che, in uno scenario come quello che si sta già intravedendo, ça va sans dire, a spalancarsi è il meraviglioso mondo dei polli imbeccati.

Uno scenario devastante per la mente e per l’anima, per il pensiero e la libertà.

È proprio questo che vogliono al ministero. Un esercito di cittadini in formazione che imparino bene a sacrificare le idee, i voli della mente e il suo libero corso, restando intruppati, irrigimentati nella griglia di “sintesi” e di “elementi” propinati da altri.

Se vorranno, potranno al massimo scegliere “tra una o due tesi”. Grazie. Dalla vita in effetti non ci aspettiamo altro.

Cari burocrati del ministero – poiché tali siete, prima che esperti – vorremmo domandarvi che genere di esistenza conducete. Si tratta di vite operative? Concrete? Operazionalizzate? Imbrigliate?

Ecco, tenetevele senza che altri siano condannati a patire il medesimo triste grigiore.

Abbiamo capito, il tema di italiano non vi aggrada perché è sostanzialmente un esercizio di libertà. 

Una  pratica che si dispiega nel campo vasto e vergine, solcato da linee perfette, di bianchi fogli immacolati. Un avamposto che voi volete smantellare, “l’ultimo tabù”, come titola La Stampa.

A parte le raccomandazioni degli insegnanti, che intimano di non essere prolissi, di attenersi alla traccia, di scrivere in modo comprensibile, il resto, il lavoro di pensiero, la produzione di idee, il rilascio di emozioni e finanche l’espressione di un trasporto, di una passione per un’autrice, un autore, una poesia, un passo di libro, spetta in effetti a chi scrive.

E un tema dà la possibilità di estrinsecare parti di sé, di vivificarle all’improvviso, di dar loro respiro, fino al punto che talvolta, scrivendo, ci si accorge della loro esistenza.

Un tema dà l’opportunità di porsi in connessione profonda con una scrittrice o uno scrittore, o con un argomento che possiamo amare o detestare.

Di confrontarsi con la temperie politica, con lo spirito del tempo presente e passato. Offre l’occasione di misurarsi con questioni importanti, dalle implicazioni anche profonde, senza censurare il pensiero e la voce.

Dà spazio alla propria personalità. Non è un caso che nel mondo contemporaneo, all’aumentare dei mezzi di espressione, dalle chat ai social network, stia corrispondendo una contrazione spaventosa nella formulazione dei pensieri.

Se il pensiero è povero, è scarna anche la comprensione della realtà. E se non si capisce il mondo circostante si diventa facilmente manipolabili, alla mercé del potere e dell’oppressione.

Due più due fa quattro. Perché accanirsi proprio contro il tema? Come si vede, la solerzia del ministero è facilmente spiegabile.

Superando la dimensione della concretezza e allargandoci a quella metaforica, il tema d’italiano rappresenta molto più di quanto sembra in apparenza.

È vero che a volte sembra un macigno, che risulta opprimente la semplice idea di scrivere e di doverlo fare, perché in effetti la scrittura può rivelarsi anche terribilmente faticosa.

Come diceva Virginia Woolf, a volte si è lì a mungere la mente, aspettando che secerna qualcosa, e invece non viene fuori niente. E lo affermava Virginia, che di parole se ne intendeva, mica una così.

A volte le parole non vengono, non si accordano le une alle altre, però resta la possibilità, lo spazio, il principio di libertà. Un conto è se siamo noi a posare la penna, un altro è se l’opportunità di adoperarla viene negata in partenza.

Eliminare il tema di italiano è un atto violento.

Si provi ad immaginare qualcuno che arriva e strappa in mille pezzi i fogli a righe posati sul nostro banco. Gli unici a nostra disposizione. Quelli su cui eravamo in procinto di riversare un po’ di noi stessi.

Cosa ci resterebbe? Secondo i propositi ministeriali, una griglia preimpostata da riempire e una voce che ci propina le parti di una storia. Che ce ne facciamo? Siamo disposte e disposti ad accontentarci di così poco?

A farci imbeccare in questo modo? Questa non è più né meno che una fulgida offesa alla mente e all’intelligenza. Probabilmente arrecata da chi dalla vita non si aspetta più molto altro, da chi non vede se non un grigio orizzonte.

Il punto è che costringendo le menti a restare imprigionate nelle sintesi, negli “elementi essenziali” o in quelli preordinati dal docente, si vuole di fatto abituarle a limitarsi, a restringersi, a dire e ad esprimere il minimo.

Fino a distruggere l’anima degli individui, atrofizzandola nel silenzio. Lo scopo è avere cittadini pienamente funzionali, asserviti, ligi al dovere, perfettamente in grado di capire le istruzioni, “gli elementi forniti” e confezionati dal potere. 

Dove non c’è parola non c’è espressione, dove non c’è spazio non c’è libertà, dove tutto è prefissato non esistono fantasia e creatività. C’è la scomparsa dell’umano, lo schiacciamento e la riduzione delle possibilità e delle potenzialità.

Si provi a rileggere adesso il linguaggio burocratico delle linee guida ministeriali e si proverà un senso di soffocamento.

Più che dedicarsi alla messa a morte del tema, dei pensieri e delle potenzialità d’espressione degli studenti italiani, i burocrati del ministero farebbero bene a rivolgersi all’assemblaggio e allo smontaggio delle costruzioni giocattolo.

Arrecherebbero meno danno alla società e probabilmente sublimerebbero meglio le proprie frustrazioni.

Non fanno bene all’Italia, anche perché il nostro è un paese dove in molti, e fra questi moltissimi giovani, non sanno scrivere.

In tal senso ci vorrebbe piuttosto un ritorno intenso alla scrittura.

È quantomeno sospetto che proprio adesso e nonostante questa evidenza, denunciata da vari istituti di ricerca e dalle università, si voglia prendere una decisione che ha dunque più i connotati di un colpo di grazia.

Non saper scrivere significa non riuscire a dar forma ai pensieri, a comunicarli, a condividerli.

E con questo si sacrifica la propria anima, insieme al senso di liberazione che si prova quando, esternandosi, una parte di sé assume più consistenza.

In questi frangenti, di rimando, ci si sente più pieni, più vivi, con un senso accresciuto del proprio valore e della propria identità.

Per questo si dice anche che scrivere è terapeutico, perché nello sforzo di riconoscere quello che si pensa e si sente si acquisisce più consapevolezza di se stessi e quindi maggiore padronanza sui propri stati d’animo, che appaiono più comprensibili, e anche sulle cose del mondo, delle quali si diventa artefici.

È proprio questo potere che i burocrati vogliono eliminare, rendendo gli individui pezzi di un unico meccanismo che funzioni in automatico, senza estro, senza la giocosa imprevedibilità provocata dalla diversità, dall’indipendenza e dalla volizione.

Cari burocati, di fronte al grigiore e alla noia mortale delle vostre proposte, è di gran lunga più soddisfacente, appagante e vitale pensare all’amore di Petrarca, al milione di scale di Montale, all’arte della gioia di Goliarda Sapienza, con i quali intrattenere un dialogo, scegliendo individualmente cosa leggere, amare e ricordare.

Perché, fino a che ci è concesso, siamo nati per vivere. Anche attraverso la scrittura, anche attraverso un sacrosanto tema d’italiano.

P.s. D’altra parte, in effetti, è proprio un testo come questo che, secondo le vostre intenzioni, nessuno dovrebbe più imparare a scrivere

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