Condividere è l’unica cura per arrivare alla felicità: viaggio tra le “isole di speranza” in Italia
La felicità non si produce, si trasmette. Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, Claudio Gubitosi, ideatore del Giffoni Film Festival, e il poeta e paesologo Franco Arminio raccontano come a TPI
Mangia, impara, ama. Non è un film né una ricetta per la felicità ma un elenco delle più impellenti necessità dell’essere umano che ogni sistema economico cerca di soddisfare, gestendo le scarse risorse messe a disposizione dal nostro pianeta. Il risultato, lo stiamo imparando a nostre spese un disastro naturale e sociale dopo l’altro, dipende molto dalla prospettiva adottata e dagli obiettivi perseguiti.
Il fatto, dopo secoli di sfruttamento capitalistico delle risorse globali, è che abbiamo perso – come specie – il naturale equilibrio con l’ambiente circostante. Basti pensare che, per mantenere i consumi attuali, l’umanità avrebbe bisogno di quasi due pianeti mentre gli italiani, che il 15 maggio scorso avevano già consumato l’equivalente delle risorse prodotte in un anno dal territorio nazionale, necessiterebbero di ben cinque penisole. Il sospetto – fondato, dopo decenni di consumismo sfrenato – è che la società dell’abbondanza miri ad alimentare i desideri all’infinito, senza preoccuparsi della scarsità delle risorse e senza assicurare la felicità promessa. Anzi rendendo tutti più scontenti, come emerge da un sondaggio condotto dall’Istituto Piepoli per il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, secondo cui negli ultimi due anni la domanda di psicoterapia è aumentata almeno del 40 per cento.
Questo sistema, di cui il neoliberismo continua progressivamente ad abbattere i pochi contrappesi alla sperequazione faticosamente conquistati dopo decenni di lotte sociali, assicura così che una parte del mondo si trovi a combattere l’obesità mentre il resto del pianeta rischia la fame, che alcune nazioni (e ormai persino aziende private) si sfidino nella corsa allo spazio mentre milioni di persone restano analfabete e che l’individualismo si trasformi in isolamento, convertendo la lontananza geografica in distanza umana da curare a suon di farmaci e sedute psicanalitiche.
Forse però, esiste una terapia collettiva alternativa ed è la condivisione, un principio cardine adottato da tre realtà italiane che apparentemente sembrano avere poco in comune: il movimento culturale internazionale Slow Food, il Giffoni Film Festival e la Casa della paesologia di Bisaccia, in provincia di Avellino. Perché non si può essere felici in un ambiente degradato, senza stimoli culturali e legami umani.
L’anti-Davos
«L’attuale sistema alimentare è il principale responsabile di una situazione ambientale non più sostenibile», spiega a TPI il fondatore di Slow Food, Carlin Petrini, il cui impegno è prima di tutto didattico. Nel 2004 ha fondato l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, frazione del comune di Bra, in provincia di Cuneo, che ogni anno accoglie 500 studenti. «I corsi sono incentrati sull’esigenza di favorire un cambio di paradigma nel modo di produrre e condividere il cibo», aggiunge. «Dobbiamo cambiare modo di vivere, produrre e viaggiare e superare questo consumismo compulsivo che è assolutamente sproporzionato rispetto alle risorse del pianeta: è un processo di liberazione che dobbiamo condividere con gioia per compiere un primo passo verso una dimensione più sostenibile». L’obiettivo infatti è il benessere di tutti, sulla base del principio che per essere davvero felici, bisogna rendere felici gli altri. «Il concetto di felicità non passa attraverso un rapporto di dipendenza dai consumi ma attraverso la condivisione e la fraternità con gli altri», aggiunge Petrini. In primis, con i più poveri che più di tutti soffrono l’attuale crisi ambientale e alimentare.
La superpotenza culturale creata nel 1986 da Petrini non è solo un progetto alternativo al consumismo imperante ma una forza di effettivo cambiamento. Conta 627 presìdi in 79 diversi Paesi e si fonda su un assunto quasi ovvio: il cibo è un tratto fondamentale non solo nella vita di ognuno di noi ma nell’economia di interi popoli e le devastanti conseguenze della guerra in Ucraina sull’approvvigionamento alimentare mondiale sono lì a testimoniarlo. Di fronte al rischio di una carestia globale, le comunità di Slow Food, che coinvolgono contadini, artigiani, pastori, pescatori e viticoltori, lavorano ogni giorno per salvare dall’estinzione le specie animali e le varietà vegetali a rischio, per valorizzare i territori e tramandare tecniche produttive. Obiettivi che giovano non solo ai più poveri ma a tutti. Secondo la Fao, quasi il 45 per cento della popolazione mondiale abita in zone rurali mentre la coltivazione diretta alimenta circa 2,5 miliardi di persone, che dipendono dalla tutela della biodiversità, difesa da movimenti come Slow Food e messa sempre più in discussione dalla privatizzazione della natura, in particolare delle sementi. I dati dell’Onu rivelano che il 75 per cento delle varietà vegetali è andato irrimediabilmente perso. Un dato che negli Stati Uniti arriva al 95 per cento. Ormai il 60 per cento dell’alimentazione mondiale si basa su tre soli cereali: grano, riso e mais. Non sulle migliaia di varietà selezionate nei millenni dagli agricoltori in India, Cina e Messico ma su pochi ibridi selezionati, che non producono più semi e che vengono venduti da una manciata di multinazionali ai contadini, che così hanno perso una risorsa da sempre fondamentale per gli esseri umani: la facoltà di continuare a coltivare a partire dalle sementi. Ma la possibilità di brevettare il genoma modificato dei vegetali e di accampare diritti di proprietà sulle relative varietà fitogenetiche non provoca danni solo agli agricoltori. La perdita di biodiversità, secondo la Banca mondiale, ha infatti un costo economico rilevante, quantificato fino a un massimo di 577 miliardi di dollari ogni anno. Tutti questi temi vengono affrontati ogni due anni dai rappresentanti di centinaia di comunità Slow Food sparse in tutto il mondo che partecipano all’evento “Terra Madre – Salone del Gusto”, che quest’anno torna a svolgersi in presenza dal 22 al 26 settembre al Parco Dora di Torino. Una specie di anti-vertice di Davos: «Sarà un’occasione importante per vedere come le comunità hanno reagito alla pandemia», osserva Petrini, che sottolinea l’importanza dell’evento come occasione di ascolto di chi (di solito) non ha voce.
Un festival necessario
Una filosofia adottata anche dal Giffoni Film Festival, evento cinematografico per ragazzi che ha assunto una caratura mondiale e prodotto uno sviluppo inimmaginabile in un territorio votato da sempre all’agricoltura. «La nostra filosofia è ascoltare e innanzitutto far ascoltare», ricorda a TPI il fondatore Claudio Gubitosi che nel 1971, armato di un proiettore, cominciò un’avventura nata con un intento didattico e culminata in mezzo secolo di proiezioni che hanno coinvolto milioni di ragazzi e cambiato il volto di un piccolo paese della Campania. Non con le fabbriche ma con la cultura.
«Un’idea può rendere felice un territorio, se alla base dell’idea c’è il territorio», prosegue Gubitosi, che ci tiene a sottolineare: «Più volte mi sono chiesto quale fosse la mia funzione, qual era il progetto che portavo avanti e perché. Ho eliminato il concetto di direttore artistico e di operatore culturale e spero di restare sempre un produttore di benessere e felicità». Due risultati che da 52 anni condivide con la sua comunità. «Abbiamo messo in rete gli altri comuni, abbiamo creato un sistema di coesione sociale e di felicità diffusa». Tutta la struttura organizzativa del Festival conta 140 persone, che hanno un’età media di 34 anni. «Buona parte è cresciuta nel territorio», afferma Gubitosi. «Sono ragazzi e ragazze laureati, che vivono nel proprio Paese senza essere infelici, senza essere costretti ad abbandonare le proprie radici e ad andare a cercare altrove la propria identità». E non restano certo fermi a Giffoni Valle Piana, il comune in provincia di Salerno che ospita il festival, ma collaborano con altre manifestazioni cinematografiche per giovani in Polonia, Kuwait e Brasile. «Molti viaggiano per il mondo ma poi ritornano con un bagaglio di esperienze che hanno potuto acquisire dopo essere entrati in contatto con gli altri». E non sono i soli.
La giuria del Festival, composta di soli ragazzi, è cresciuta nel tempo fino a includere quest’anno quasi 5.000 giovani di età compresa tra i 3 e i 18 anni, provenienti da 39 Paesi diversi, che nell’edizione prevista dal 21 al 30 luglio torneranno a incontrarsi in presenza. «Sono 52 anni che milioni di ragazzi da ogni parte del mondo vengono a Giffoni», rimarca Gubitosi. Accompagnati da una lista sempre più lunga di ospiti internazionali arrivati direttamente da Hollywood come, tra gli altri, Robert De Niro, Oliver Stone, Meryl Streep, Jeremy Irons, John Travolta, Wim Wenders, Samuel L. Jackson e Roman Polanski. «Ma sono i giovani i veri protagonisti, vivono un’esperienza collettiva e scioccante: soprattutto negli anni passati, quando i ragazzi del luogo si ritrovavano a condividere una stanza con i giovani arrivati dall’estero e dovevano necessariamente parlare in inglese. Tutto questo ha comportato una forte crescita, anche sociale». Ed economica, aggiungiamo.
Nel 1997, Gubitosi pose infatti la prima pietra della Cittadella del Cinema, un progetto parte di un’iniziativa ben più ambiziosa. Vent’anni dopo, alla presenza del ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, si inaugurava la Giffoni Multimedia Valley, che si sviluppa su 40 mila metri quadrati di superficie e che si propone di diventare la principale area di sviluppo creativo e culturale del Meridione, in grado di ospitare startup e progetti tecnologici per l’innovazione multimediale, oltre a una mediateca regionale, biblioteche, videoteche e spazi di co e net working. «È uno dei progetti più ambiziosi che il Sud potesse esprimere, anche sul piano architettonico», spiega Gubitosi. «Abbiamo sale cinematografiche all’avanguardia, uffici, aule espositive, di tutto e di più». Uno sviluppo sorprendente per un comune di quasi 12mila abitanti, la cui economia cinquant’anni fa era prevalentemente legata al settore agricolo e in particolare alla coltivazione delle nocciole. Nell’ultimo decennio invece, secondo la Regione Campania e anche grazie al Festival, Giffoni ha ricevuto 60 milioni di euro per la riqualificazione territoriale e la costruzione di nuove strutture. «Tutto questo mi ha portato a scoprire anche un altro livello della felicità, legata al fare del bene», continua Gubitosi. «Tutti i rappresentanti delle istituzioni che ho incontrato in questi anni, dal livello locale, alla Regione, allo Stato fino ai commissari europei, erano felici per il buon investimento fatto». Non solo per la Multimedia Valley. I fondi hanno permesso il restauro del Castello e del borgo medievale di Terravecchia, il recupero dell’ex opificio industriale “Ramiera” e del Complesso monumentale di San Francesco, la realizzazione di aule multimediali, l’ammodernamento degli impianti sportivi, la creazione e il restauro conservativo di percorsi paesaggistici, oltre a parchi rurali e urbani. E non è ancora finita: a ottobre infatti sarà completata la Cittadella del Cinema, che raggiungerà una superficie totale di 200mila metri quadrati. Saranno pronte un’altra sala cinematografica da 500 posti, il “Museo Testimoni del Tempo” con sale espositive per ulteriori 2.500 metri quadri e l’Arena da seimila posti per i grandi eventi, che diventerà uno dei principali poli del Sud per concerti e spettacoli teatrali. Non sorprende allora l’affermazione del maestro del cinema francese, Francois Truffaut, secondo cui «di tutti i festival di cinema quello di Giffoni è il più necessario».
Sembrerebbe un risultato così importante da indurre chiunque a fermarsi e goderselo ma Gubitosi non ne ha alcuna intenzione. L’importante, sottolinea, è la «continuità della scoperta». Così, tra gli altri, ha in cantiere ancora un progetto: “GiffoniShock”, un’iniziativa rivolta al futuro. «Guarda ai prossimi 15-20 anni per scoprire oggi quello che sarà normale domani, cercando di scovare i talenti che attualmente non sono presi in considerazione». Ma il suo sguardo curioso si rivolge anche ai cosiddetti “invisibili”, a cui è dedicata l’edizione 2022 del Festival. «Sono ragazzi e ragazze che esistono – li vediamo, sono tra di noi – ma che diventano invisibili agli occhi della nostra società e noi vogliamo scoprirli», spiega Gubitosi. «L’idea di conoscere uno sconosciuto è bellissima e voglio usare ancora questo termine: felicità. È difficile spiegarlo, ma qui a Giffoni è tutto automatico, è tutto naturale ed è tutto vero: chi viene qui da noi si guarda intorno, in mezzo a migliaia di persone che non conosce e si sente felice». Perché, prosegue, basta poco per esserlo. «L’abbondanza ci ha fatto vedere di tutto in questi ultimi tempi, con i ricchi che diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ma io non faccio l’equivalenza ricco uguale felice e povero, infelice. Tutt’altro». La felicità, per Gubitosi, è invece un diritto di tutti ma spesso resta solo lettera morta. Allora quando si trova un luogo che ci rende felici, non possiamo abbandonarlo. Non a caso, ricorda, molti dei ragazzi venuti a Giffoni, tornano. Anche da padri, da madri e con i figli. Hanno voglia di condividerlo e instaurano un forte legame con il territorio. «Quella di Giffoni è una storia umana, nata orgogliosamente in provincia», ricorda Gubitosi. «Ogni tanto penso al concetto di periferia che usiamo spesso come dispregiativo: un qualcosa ai margini di un centro. Ma qual è il centro?». Siamo noi, o almeno dovremmo esserlo.
La bontà disoccupata
Un concetto di fedeltà, in primis ai luoghi, che riscontriamo anche nel poeta Franco Arminio, autore pubblicato dai Einaudi e che ha raggiunto decine di migliaia di lettori in tutto il mondo. Nella sua Bisaccia, in provincia di Avellino, ha aperto la Casa della paesologia, un luogo di condivisione dove ospita la comunità nei suoi momenti di ritrovo ma anche chi, diventando socio, ha bisogno di uno spazio per riflettere, incontrarsi, sviluppare progetti comuni o individuali. «Un luogo è un po’ come la propria madre e il proprio padre», racconta a TPI. La sua è un’iniziativa quasi di resistenza: «La Casa della Paesologia è un piccolo tentativo di tenere aperto uno spazio in un momento in cui i piccoli paesi stanno diventando musei dalle porte chiuse», spiega. La paesologia predica «una religione che ci dia quiete, che ci faccia accettare quietamente l’assurdo della condizione umana, ma anche la sua miracolosa bellezza: è bello vivere proprio perché siamo avvolti nel mistero e non abbiamo alcun compito». Nelle sue parole avvertiamo però una punta di pessimismo. «Le potenzialità di questo mio progetto, come di tanti altri, sono negate da questo sistema economico malato, drogato di denaro e che ha ucciso il senso di comunità e spezzato la lietezza», aggiunge. «Il capitalismo è una grande malattia, di cui noi siamo azionisti». Il denaro, sottolinea, produce solo il desiderio di altro denaro, una droga potente ma che non produce ebbrezza. «La Casa della Paesologia è un piccolo tentativo in una direzione diversa ma che non ha cambiato la realtà», ammette. «I tentativi però sono molti, anche individuali: esiste tanta bontà disoccupata che non guadagna mai la scena, un pastore che produce un buon formaggio, un pensionato che fa compagnia alla moglie. È una battaglia spirituale». Ma non basta, almeno per cambiare la realtà. «Attraverso la poesia, le persone possono sentirsi meno sole, trovare motivi di consolazione e gioia perché la mia parola entra direttamente in circolo nel corpo del lettore», spiega Arminio. «Ma non dobbiamo farci illusioni, per cambiare le cose ci vuole una mediazione politica che non c’è». Condivisione, dicevamo, ma anche delle responsabilità.