Chi se non noi, la recensione del romanzo d’esordio di Germana Urbani: la storia di una donna in frantumi
Cosa domanda l’amore? L’amore domanda amore. L’amore non domanda ciò che l’Altro ha ma il segno della sua mancanza. Mettendo in scena il dialogo doloroso di sentimenti che vogliono necessariamente essere speculari, attingendo alla materia grezza di un amore patologico che desidera essere Uno, Germana Urbani dà forma al suo romanzo d’esordio Chi se non noi (nottetempo, pp. 216, € 14,00), che muove da una passione non corrisposta e spaesante.
Protagonista del romanzo, Maria è una giovane che è riuscita a divenire architetto, lavora a Bologna in un prestigioso studio, vive a Ferrara, ma ogni venerdì torna al suo paesino sul Delta del Po. Qui vive Luca, un pescivendolo che riesce a trasformare a sua volta in architetto, verso il quale alimenta una servitù volontaria, determinata per 12 lunghissimi anni ad occupare senza esitazione il posto di strumento del godimento del partner. Maria è troppo occupata da ciò che l’altro desidera, da quello che lo fa godere e si pone in una posizione di dipendenza di carattere masochista. Amore, follia, manipolazione. Un giorno Luca le dice di essersi innamorato di un’altra e a Maria crolla il mondo addosso. Teatro della vicenda è il Polesine, i suoi paesi, il Po, la sua atmosfera nebbiosa che fa da contraltare alla confusione della protagonista, che non vuole vedere chiaro in una relazione in cui ha investito tutta sé stessa.
Che questa prosa nasca da (e si conformi a) questa esclusione del rapporto sessuale è senz’altro l’esito di una sconfitta, il segno di una perdita grave, dell’alienazione dolorosa da ciò che è più prossimo a una donna: appunto la sua esperienza, entro cui si specchiano inevitabilmente il proprio carattere e la propria umanità. È una perdita che però Germana Urbani sa rivoltare in attaccamento alla vita, che è un guadagno non per sé ma per tutti, almeno su quel terreno di finzione che è la letteratura.
Possiamo allora chiederci come accogliere oggi questo invito di Maria a “essere zero” – esagero ma è per significare quello che sarebbe un invito a rappresentare lo zero – per essere al posto di ciò che è abolito, o svuotato perché l’altro è mancante? Si interroga sul godimento di Luca e, nel farlo, rinvia il problema del proprio fino alla fine. Il fatto di essere così tanto occupata in questo ha, evidentemente, una ragione: credere di poter riuscire ad occupare un posto elettivo nel desiderio del suo uomo. Arrivata a un punto di non ritorno, cerca di narrare qualcosa su lui, qualcosa sull’Altro.
Quando un significante (Luca) viene a mancare, il mondo si spopola. Abbandonata resta in frammenti. Questa abolizione è una tana, un rifugio da cui tenta di dividersi, con la cura di un’amica e di uno psichiatra, tra un luogo di silenzio, nebbia e orizzonti sfuocati che le dia un margine a cui ancorarsi, dove, ad esempio, tritare le sue parole (ma anche il suo corpo), e ciò che resta, l’immagine di Luca e con lei, il suo corpo.
Maria vede e parla (anzi prima vede e poi parla), come in una ipotetica prima volta: è questo il miracolo che Maria insegue. Che è un miracolo affatto diverso da quello ad esempio montaliano dei Limoni che, in un ultimo gesto disperato, regala a Luca il giorno del suo compleanno. Perché sono cambiati i momenti che incentivano il miracolo, e sono cambiati i suoi destinatari, le sue modalità di partecipazione. I momenti che preparano l’epifania, che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente, per aprire lentamente gli occhi e convincersi della fine. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi e disarmanti. Come i gorghi nel Polesine, la nebbia spessa ritarda, una lite, uno scontro volontario, il già visto scatto di un allarme. E poi tutto quanto può capitare: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, il silenzio.
Sono cose che capitano, cose di questo mondo e non di un altro. Niente di straordinario dunque, e niente di metafisico, come per niente straordinarie sono le persone sulla scena, mediatrici o annunciatrici della tragedia, perché nessuno accetta di essere figura dell’alterità, della distanza e dell’alibi – nel senso proprio del termine. E l’abitudine che regola la quotidianità – e ci rassicura, ci difende – finisce però per svuotare di senso la nostra vita. Come scriveva Antoine Tudal, non c’è mai coincidenza negli affetti degli esseri umani, piuttosto contingenza, e quindi l’amore è pensabile solo a partire da una distanza, parete, muraglia, muro. Tra un uomo e una donna, la parola e l’amore? Certamente. Il silenzio, la complicità, il sesso? Forse. Tempo per un ballo, o due. Ma in ogni caso limitato.