Charles Baudelaire: il poeta del mal de vivre
Sul nuovo numero di TPI, in edicola da venerdì 26 novembre, l'approfondimento sul poeta francese Charles Baudelaire in occasione dei 200 anni dalla nascita
La malinconia, compagna fedele di Baudelaire, non può essere dissociata dalla solitudine, dalla noia, dallo spleen (la milza in inglese, sede della bile nera), monosillabo d’importazione che diventerà il titolo di tre poesie dei Fiori del Male, e che impiegherà nella prima parte della raccolta: “Spleen e Ideale”, e poi ancora per i suoi poemetti in prosa: Lo spleen di Parigi. Lo spleen implica una lacerazione in seno al soggetto e una relazione dolorosa del suo essere al mondo. La parola malinconia non appare nella prima edizione dei Fiori del Male, nel 1857, mentre la seconda edizione, aumentata, del 1861, ne offre una sola occorrenza, nel “Cigno”: («Parigi cambia! ma nulla è mutato / nella mia malinconia!»).
«Ho messo in questo libro atroce tutto il mio pensiero, tutto il mio cuore, tutta la mia religione (travestita), tutto il mio odio», scrive Baudelaire a sua madre, nel febbraio del 1866, un anno e mezzo prima di morire. I Fiori del Male sono in effetti l’opera di una vita, la raccolta cui non ha mai smesso di pensare, arricchendola da un’edizione all’altra, e fino alla fine della sua esistenza. L’idea che il proprio tempo fosse avverso alla vocazione poetica lo ha assillato, così come la convinzione che la Francia avesse «orrore della poesia». Ma Baudelaire ha affidato alla posterità la propria opera: «Mi si rifiuta tutto, lo spirito d’invenzione e persino la conoscenza del francese. Non mi importa nulla di tutti questi imbecilli, e so che questo libro, con le sue qualità e i suoi difetti, si farà strada nella memoria del pubblico colto, a fianco delle migliori poesie di V. Hugo, di Th. Gautier e anche di Byron», scrive a sua madre il 9 luglio 1857.
Figli di una vasta tradizione letteraria, tra poesia latina, estetica barocca e romanticismo, e di un’esperienza individuale, I Fiori del Male sono sembrati l’opera di uno «strano classico delle cose che non sono classiche» (Pierre-Jules Hetzel). Troppo singolare, forse, per essere immediatamente compresa, l’opera di Baudelaire ha sconcertato: secondo Sainte-Beuve, il poeta «petrarchizzava sull’orribile». Altri vi hanno scorto l’apoteosi dell’artificio, dell’isteria o della mistificazione, o la fonte della decadenza. Con la sua poesia, Baudelaire ha creato nel cielo dell’arte un «raggio macabro», un «nuovo brivido», secondo Victor Hugo. Questo «brivido» ha pervaso intere generazioni di poeti, come Verlaine, che in un lungo articolo pubblicato alla fine del 1865 notava l’originalità di colui che ha saputo «rappresentare fortemente ed essenzialmente l’uomo moderno», o come Rimbaud, che nella lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871 ha celebrato nell’autore dei Fiori del Male «il primo veggente, il re dei poeti, un vero dio».
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