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Home » Cultura

Buonanotte Bellocchio: il revisionismo d’autore su Aldo Moro, tra fiction e memoria

Immagine di copertina
Una scena della fiction Rai "Esterno Notte". Credit: Gianni Fiorito - ANSA

I brigatisti buoni che liberano Moro e i politici cattivi che lo vogliono morto. Cossiga psicolabile, Berlinguer cinico, Andreotti feroce. Così il protagonista di “Esterno notte” ringrazia i suoi carnefici. Il commento sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 18 novembre

Grazie a Marco a Bellocchio il revisionismo sul caso Moro, da questa settimana, è diventato la narrazione ufficiale della Rai: un revisionismo di Stato sugli Anni di piombo. Attenzione. È uno strappo calligraficamente perfetto, cinematograficamente potente, ma politicamente drammatico.

Provate solo per un attimo a a immaginare cosa sarebbe accaduto se un film biografico su Primo Levi trasmesso (e prodotto, come in questo caso) dai canali del servizio pubblico, iniziasse con un monologo dello scrittore italiano più famoso del Novecento, che dopo essere stato liberato dalla reclusione di  Auschwitz dice: «Desidero dare atto che, alla generosità delle Ss e dei nazisti, devo la restituzione della mi libertà. Mi dissocio dalla Resistenza e dal Comitato di liberazione nazionale». Se questo fosse accaduto a avremmo avuto manifestazioni di piazza e cariche sotto il cavallo di viale Mazzini, invettive delle comunità ebraiche di tutto il mondo, editoriali e pubblica riprovazione degli opinionionisti. E invece, dopo la messa in onda delle tre puntate della lunga serie dedicata da Marco Bellocchio al sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, ci sono stati solo applausi e critiche positive, attenzione ed elogi. Le critiche dei parenti di Moro (la figlia Maria Fida) relegate a striminzite e irrilevanti brevi.

Il merito è di una campagna di egemonia culturale che non ha incontrato resistenze, una forte corrente interpretativa (corroborata, per fare un esempio brillante, da una recensione “politica” di Marco Giusti su Dagospia) che hanno salutato il film di Bellocchio come una salvifica critica del regime che avrebbe oppresso l’Italia negli anni Settanta.

Ebbene, non c’è dubbio che in venti anni e due film, il regista de I pugni in tasca abbia portato avanti una sua caparbia e personale battaglia di riscrittura della storia italiana di cui Buongiorno notte (nel 2003) era il potente e visionario manifesto programmatico. E di cui Esterno notte è il capitolo di compimento, celebrato da una sontuosa ed epica messa in scena. Stilisticamente il regista si rigenera abbeverandosi all’immaginario di Paolo Sorrentino (il personaggio di Andreotti è quasi una citazione iconografica de “il Divo”) mentre, sul piano dei contenuti, il regista ricicla una sua idea convinzione di ex giovane extraparlamentare di sinistra: Moro fu vittima del feroce regime democristiano-comunista-Atlantico, fu martirizzato da Giulio Andreotti, di Eugenio Scalfari e della CIA, dai poteri oscuri della Repubblica (a partire dalla P2) mente in fondo nelle Br c’era chi voleva “salvare lo statista”, e i terroristi – ingenui, forse feroci, ma tuttavia romantici – furono indotti dalle pressioni esterne ad “un errore” che non volevano commettere. Ebbene, come vedremo tra poco questa operazione è un clamoroso falso ideologico.

Cosa non torna

Nel primo atto di questo progetto il film finiva con un onirico Aldo Moro (interpretato da un bravissimo Roberto Herlitka) che –  liberato con un gesto di generosità dai terroristi – se ne andava a spasso lieto in una surreale e spensierata passeggiata per le vie di Roma. In questo mega-metraggio di sei ore, il chiodo ossessivo di Bellocchio viene espresso addirittura prima dei titoli di testa, fin dalla prima scena, quella in cui il nuovo Moro (un camaleontico e magistrale Fabrizio Gifuni, la cosa più bella del film) si ritrova in un letto di ospedale, ancora una volta salvo, in una posa quasi cristologica mentre recita testualmente il  monologo interiore di gratitudine per i suoi rapitori: «Questa essendo la situazione», dice Moro-Gifuni, «io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate rosse devo, per grazia, la salvezza della vita a la restituzione della libertà». Pausa, e secondo frammento: «Di ciò sono profondamente grato. Per quanto riguarda il resto», riflette il Moro Salvato, «dopo quello che è accaduto non resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della Democrazia Cristiana, esclusa qualsiasi candidatura futura. Mi dimetto dalla Dc». Attenzione, di nuovo, al gioco d’autore. Bellocchio, che si è avvalso come consulente storico di uno dei massimi studiosi del carteggio moroteo (lo storico Miguel Gotor, assessore alla Cultura del comune di Roma) non ha inventato quel monologo. Moro scrisse effettivamente parola per parola questo sfogo amarissimo in cui ringraziava i propri carnefici e malediceva i suoi ex amici di partito. Ma quella lettera era il frutto di un beffardo e infame inganno manipolatorio dei brigatisti. Prima di ucciderlo, infatti, gli uomini del commando di Via Fani dissero lui che lo avrebbero liberato dalla sua prigionia. Poco dopo lo trucidarono barbaramente. Prendere le frasi dettate dall’inganno, e accompagnarle con la rappresentazione di un  Moro redento (dove per lo spettatore nulla indica la differenza tra veglia e sogno) significa falsificare la realtà. Bisogna poi aggiungere che  il primo palinsesto di questa manipolazione, in Buongiorno notte era la copiosa memorialstica brigatista sul sequestro. Romantica, appassionata anche quella, è sempre bugiarda: Prospero Gallinari (il sequestratore) sensibile anche alla vita dei canarini, Anna Laura Braghetti (la carceriera) affascinata dalla saggezza dello statista, tutti teneri e affettuosi con lui, a partire dall’unico che voleva evitare l’esecuzione («perché Moro libero avrebbe fatto più danni al sistema imperialistico delle multinazionali». Ovvero il telefonista delle Brigate rosse, Valerio Morucci. Ma la fronda di Morucci e di Adriana Faranda, (sua compagna dell’epoca) viene sconfitta, e – nella realtà – Morucci e Gallinari furono gli assassini. Mentendo anche sulle ultime ore: raccontarono di sofferenza nello sparare e di un colpo di grazia caritatevole. Mentre l’ultima commissione Moro ha chiarito come morì lo statista Dc: nove colpi non mortali intorno al cuore, e rantoli sul tappetino dalla R4 dove fu rinchiuso. Per finire soffocato, in un portabagagli, dal suo stesso sangue. Una tortura.

In questi film di Bellocchio, invece, i cattivi sono altri: Enrico Berlinguer è un duro fanatico senza pietà. Giulio Andreotti un cinico e sarcastico assetato di potere, Francesco Cossiga un povero psicolabile che la sera del sequestro implora la moglie (che lo respinge): «Mi fai dormire con te?». Questo Cossiga gira per manicomi insieme ai poliziotti e con gli occhiali da sole inforcati, perché dà retta ad un pazzo e delirante veggente terrone («Ho visto che lo tengono in una stanza, sorvegliato dagli infermieri comunisti») e si chiude in una stanza, in preda alla depressione, mentre nel delirio vede il Moro-Gifuni che gli fa visita e lo saluta. Il metodo Bellocchio è scientifico nel mischiare verità è invenzioni strampalate, cose accadute prima, cose accadute dopo (ad esempio la depressione di Cossiga), e cose accadute mai (ad esempio la “liberazione”). Uno spettatore che non ha studiato libri e carte, non riuscirebbe mai a distinguere la fantasia dalla realtà. «È la libertà dell’artista», dicono i difensori di Bellocchio. Ma se uno vuole essere libero non deve usare i veri nomi. Come dice Maria Fida: «O ci considerate come vittime, e allora ci rispettate per questo, o ci considerate come familiari, e allora ci rispettate per questo». Il problema di Bellocchio è che non rispetta nulla: modifica la realtà per adattarla al suo sogno. Moro libero per combattere contro il Sistema. Eppure, nella realtà storica che Esterno Notte combatte, questo sogno non lo hanno la Cia e la Dc, e lo uccise il piombo dei brigatisti.

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