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Home » Cultura

Alessandro Bergonzoni a TPI: “Col dolore si deve scherzare”

Immagine di copertina
AGF

“Se trasformi lo star male in gioco e comicità, poi arriva la gioia. Anzi il godimento. L’ho vissuto sulla mia pelle. Vivo di sensi di colpa da quando mia madre mi disse che aveva l’asma a causa mia”

Alessandro Bergonzoni, tu sei un militante della parola. Alle manifestazioni sulle stragi nel Mediterraneo andavi con un cartello che diceva “La miglior difesa è l’attracco”, tieni corsi di scrittura in carcere, stai sempre nella politica armato di parole. Bastano?
«Ma ho anche uno strumento artistico, l’hai visto nella performance “Tutela dei beni: corpi del (c)reato ad arte” agli Uffizi di Firenze. Lavoro sui temi sociali attraverso l’arte, non la denuncia politica. Il pubblico, leggendo “opera d’arte/opera-uomo”, si aspetta una tirata sulla politica, sulla polizia, sul carcere, ma questi sono temi sociali che vanno elevati in ambito artistico. E che devono anche passare attraverso le figure di direttori teatrali che mi hanno detto, come quello degli Uffizi appunto, di non aver mai pensato al riferimento “opera-sotto lo Stato/carcere” e “opera-sotto lo Stato/quadro o scultura”. Ma come si fa a non pensare che c’è uno Stato che protegge o non protegge?».

Tra l’altro è bizzarro: Opera è proprio il nome del carcere di Milano, il più grande d’Italia!
«È tutto legato. Non sono un uomo di diritto, com’è Luigi Manconi per esempio: persona colta, istruita, profonda. Io non sono colto, non ho conoscenze, lavoro d’istinto, di impeto e di pensiero, un pensiero completamente anarchico. Arrivo da dietro, da su, da sotto, dai lati. Mi piacerebbe essere come tante persone che fanno dell’attivismo un lavoro di conoscenza profonda sui diritti. Il mio tempo lì non arriva, ci arrivo per sentore, per percezione. Io penso sempre più al pensiero che alla parola, la parola è solo la punta dell’iceberg, ma è sotto il movente, è tutto un crogiolo di pensiero e di intuizione, di visioni, non di ragionamento. Il tema è la visione, non la parola. La parola è il mezzo per costruire questa visione. Altrimenti sarei, come tanti altri, un intrattenitore della parola, un enigmista».

Denunci che bisogna andare oltre il presente e l’attuale, però alla fine del tuo spettacolo “Trascendi e sali” nomini Regeni, Cucchi, Zaki. Come se cercassi di tracciare la polvere dei pensieri, quando appaiono. Ma sempre nella parola ti ritrovi, nelle parole lo esprimi.
«Io metto altre telecamere. E parlo anche di anima. Durante “Trascendi e sali” parlo della santità. Sua santità che è il papa. E la nostra santità? Ciotti, Mandela, nel suo ambito Strada, nel suo Zanotelli: è tutto un “fate voi”, noi stiamo sempre fuori. Il problema è che noi ci affidiamo a questi uomini, con i famosi Dieci Demandamenti, cioè “fallo tu, pensaci tu”. La domanda è: tu sai che noi siamo della stessa fatta di quelle persone lì? Non sono extraterrestri, sono persone come noi. E sono stanco di vedere che tutti noi idolatriamo queste persone senza pensare che abbiamo le stesse cellule e possiamo usare la stessa potenza nei nostri campi».

Dove sta l’energia, dove vive, chi la abita, ci vuoi dare il suo indirizzo o almeno degli indirizzi?
«L’indirizzo è quello di una invisibilità interiore nella quale noi dobbiamo andare a ravanare. Ci vuole una forma di coraggio: chi è che mette la mano lì? Cosa c’è lì? Non lo so. E poi ci vuole una forma di abbandono, che per me è affidarsi. Ecco, si devono fare salti nel vuoto e salti nel buio, l’indirizzo è quello».

Come si limita il dolore?
«Come lo si abbassa? Tu hai usato una parola chiave: limita. Io invece direi come si imita».

In “Trascendi e sali” dici appunto che il dolore va attraversato.
«Sono stufo di sentir dire che il dolore lo prova la persona che lo prova. Si può cominciare con una operazione di shock pre-traumatico a mettersi in una condizione il più vicina possibile, fino a essere proprio combacianti, come due gemelli siamesi. E il dolore si limita anche cercando di provare un concetto di benessere, sennò si è solo appesantiti, negativizzati, impauriti. E ci si chiude e ci si deprime, non si è utili a noi stessi né agli altri. Io mi definisco un ricercatore non scientifico, ma sovrumano».

«Si limita il dolore con l’adrenalina e con una trasformazione, una metamorfosi, un’epifania, con la gioia di condividere il dolore con l’altro. La gioia di poter essere, per esempio, dentro un carcere dove ci sono tanto dolore, morte, dolore, vendetta, violenza, ma quando tu cominci a stringere le mani e a vedere la luce negli occhi, si forma un fortissimo antidoto che ti lenisce, e non solo: ti dà un piacere particolare. Altrimenti sarebbe tutto punitivo. Io vivo di sensi di colpa da quando mia madre dal primo anno mi ha detto “Io ho l’asma perché sei nato tu”».

Come Proust e sua madre, in una delle loro lettere citano proprio un episodio simile!
«Fin da bambino, se non già nella pancia, ho portato questo peso. E prima sono morti due figli che mia madre non è riuscita ad avere, poi sono arrivato io e lei è stata male per più di settant’anni e ho assistito la sua malattia. Quindi sono stato immerso sempre in un dire: “Tu che stai bene devi ricordare chi sta male, ne sei responsabile”. E questo lavoro è pesante. Ma se lo trasli e lo fai diventare arte, gioco, comicità, surrealtà, disegno, segno, ah beh, lì dopo c’è il godimento».

«Noi abbiniamo il godimento al sesso, al cibo, alle sostanze stupefacenti o alla cultura, ma c’è un altro tipo di piacere che trasforma il dolore. Poi l’ipocondria mi accompagna. Da ragazzo picchiava pesante, adesso attraverso persone che – senza chimica ma col respiro, la meditazione e un tipo di approccio diverso all’esistenza – mi supportano, la sopporto, pur essendo assalito. È un assalto totale, preti, giudici, suore, associazioni: noi rispondiamo a partecipazioni, eventi, incontri, anche con una gratuità che vede nella mia tournée almeno venti, trenta serate l’anno completamente gratuite».

«Ed è un tema tosto: io non faccio pubblicità, cinema o televisione, che sono le voci in cui un po’ di mantenimento arriva. Con il teatro è difficile, con i libri o sei Baricco o Benni o insomma… sono quattro, cinque gli autori che possono vivere dei libri. Ma il punto è anche quello di non cedere al ricatto esistenziale. C’è l’idea che se fai delle vendute, poi puoi permetterti di fare delle cose belle. Io, anche grazie alle persone che collaborano con me, ho sempre trovato che non funziona».

Mi pare lo stesso movimento di pensiero di chi oggi dice: Giorgia Meloni è di destra, però che grande statista! È una confusione di fondo: quella o è politica o non lo è. Per l’arte vale lo stesso, o no?
«Ho letto che lei è fra le 10 donne più influenti del mondo. Voglio sperare che sia solo perché ci sono ancora poche donne al potere».

Come se la riuscita di pubblico facesse la differenza sempre e comunque.
«Certo, il famoso consenso. Pensa che Berlusconi, ancora, con tutto ciò che ha fatto, detto, non fatto, rovinato, giudicato, eccetera, il giorno in cui morirà – e gli auguro tanta salute e tanta vita – verrà idolatrato. Questa è una mistificazione. Nell’arte è un po’ più sofisticato, perché io cittadino con l’arte, volendo, posso non avere a che fare direttamente. Con la politica invece io cittadino ho dei danni diabolici da questa mistificazione, perché la mia giustizia, i miei diritti, la mia casa e il mio lavoro scoppiano. Guarda il caso di Mimmo Lucano! Comminiamo delle pene di un certo genere, ma se l’idea era buona lo Stato perché non ne approfitta? Se pure lui non lo sa fare secondo le leggi e ha sbagliato, lo Stato perché non prende l’esempio e rende giusta e reale quella visione?».

Forse perché ha un’altra idea?
«Perché quella possibilità la vuole abortire, infatti».

Molto tempo fa hai scritto “un anti testamento, cioè non quello che lascio se non torno ma quello che voglio quando torno…”. Quale sarebbe il tuo epitaffio per l’umanità non ancora nata?
«Se tornassi a nascere, vorrei essere donna. E vorrei che i bambini non avessero un’età: sei bambino e questo è un mestiere, sei bambino per tutta la vita».

Woody Allen proponeva di fare all’incontrario, nascere da vecchi e tornare prima bambini, poi nell’utero…
«Lui esasperava, c’era anche il concetto sessuale lì, nel ripanciarsi nel liquido amniotico. Ecco, a me piacerebbe – come dicevo in quell’antitestamento che feci per la Casa dei Risvegli sul tema del testamento biologico – lasciare in eredità qualcosa a qualcuno. Che quando uno pensa di andare all’altro mondo, l’altro mondo lo reclami qui. Quando si dice passare a miglior vita, mi piacerebbe non fosse nel senso di morire, ma di rinascere a una vita diversa. Che per molti può essere anche la morte».

«Io credo nella reincarnazione, quindi per me il concetto della morte non è assolutamente qualcosa che esula dalla vita o addirittura la trancia, bensì sta in una spirale più aperta. Anche questo mi toglie la sofferenza dell’esistenza, che non è il trovarsi una stradina, il paradisino, le vergini o non so che cosa. Parlo di un percorso costante e vorrei che la gente fosse più percettiva, studiasse meno e avesse meno bisogno dell’empirico. La scienza deve avere una parte empirica e forse va bene così. Ma come epitaffio per chi verrà mi piacerebbe lasciare: “Percepite, sentite, non solo ascoltate”».

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