La bellezza negli scarti della società capitalista
Colloquio con Alberto Maggini, artista e ideatore della rivista “Adore” che attraverso il camaleontismo del corpo, l’uso della maschera e del travestimento svela la bellezza nei rifiuti del consumismo
Camaleontico, irriverente, poliedrico: queste le caratteristiche che contraddistinguono l’artista Alberto Maggini, da poco tornato a Roma dalla dinamica realtà londinese. Maggini ha vinto il bando “Italian Council” della Direzione per la Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura italiano. Grazie a questo riconoscimento, è riuscito a produrre la rivista Adore – per ora legata a una singola uscita ma con possibili nuovi numeri – che è stata presentata il 15 maggio presso l’Orto Botanico di Roma.
Adore si distingue per la sua struttura multidisciplinare, per i colori saturi che la animano – come il rosa in copertina -, per la grafica che la rende dinamica e briosa, per la prevalenza della parte visiva sul testo. Parola e immagine si compenetrano, tuttavia, in maniera armoniosa.
Adore si sfoglia quasi da sola, richiamando l’attenzione del fruitore dall’inizio alla fine. Le fotografie contenute ritraggono un solo modello: l’artista stesso che diventa ideatore dei contenuti e incarnazione degli stessi, designer della pagina stampata e performer grazie al quale gli scarti e i rifiuti riprendono vita, spazzando via gli stereotipi sull’idea di bellezza, di equilibrio e di misura. Si parte dal feticcio della maschera per scandagliare, passando per il mito e per la cultura del passato, le diverse sfumature che possono assumere l’attualità e l’avvenire. La creatura ibrida che attrae il nostro sguardo è umana e postumana insieme, coniugando mondo organico e inorganico, animale, vegetale e minerale attraverso un’operazione sopraffina di cosmesi artistica. Abbiamo intervistato Alberto Maggini.
La presentazione del magazine e la sua produzione sono stati possibili grazie alla vincita dell’Italian Council, puoi spiegare bene l’intero progetto e il suo scopo?
«Sì, il bando “Italian Council”, indetto dalla Direzione Generale per la Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura Italiano è stato un’opportunità incredibile. L’obbiettivo del bando è quello di permettere ai giovani artisti italiani di espandere la propria rete di contatti in un contesto più internazionale. Ovviamente la vincita di questo “grant” mi ha permesso anche d’interfacciarmi con altre professionalità, sviluppando la mia pratica artistica. Tra le varie collaborazioni c’è stata quella con il sound designer finlandese Sebastian Kurtén con cui ho creato il brano musicale della performance che si è tenuta all’Orto Botanico di Roma. Il progetto che ho scritto ha un andamento circolare. È iniziato da un periodo di ricerca ad Atene lo scorso autunno, ha previsto un’elaborazione nel mio studio a Roma con la conseguente presentazione della rivista all’Orto Botanico e si concluderà con una mostra ad Atene quest’estate, passando per degli eventi di restituzione al pubblico (talk e presentazione della rivista) in Olanda e Svizzera».
Perché hai scelto il titolo “Adore”?
«Ci saranno ulteriori pubblicazioni con diversi contenuti o la rivista è concepita per essere licenziata in un’unica uscita? Avevo intitolato il progetto che ho scritto per il bando Italian Council “Adore the Waste of Our Adornments”. Per il titolo della rivista mi sembrava fosse più accattivante e patinato solo la parola Adore, lasciando come sotto testo il resto del titolo del progetto. Originariamente doveva essere un’unica uscita, ma mi sono divertito molto a realizzarlo, quindi non è escluso che ci siano altri numeri. Non ho ancora deciso però quale sarà la forma dei prossimi lavori».
Hai usato prodotti di bellezza trovati nei mercati dell’usato per costruire costumi e maschere, ci puoi fare degli esempi considerando i diversi mascheramenti che troviamo nella pubblicazione?
«Ho raccolto smalti per le unghie, ciglia finte, bottigliette di profumo ormai vuote, rasoi, bacinelle gonfiabili per lavarsi i capelli “on the Road”, paillettes e fiori sintetici, ma anche derivati del mondo naturale che l’essere umano utilizza per farne ornamenti asserviti alla propria brama di seduzione: piume di uccelli esotici, scampoli di pellicce e pelli di serpente, conchiglie. La maggior parte delle identità che incarno negli spot pubblicitari presenti nella rivista hanno preso forma dagli scarti dei prodotti di bellezza da me utilizzati quotidianamente. Sono partito dalle maschere idratanti per il viso, costituite da cellulosa, su cui ho applicato i materiali raccolti nei mercati del usato di Atene per costruire delle nuove figure archetipiche, delle divinità. Per i costumi di alcune identità ho raccolto anche degli scarti alimentari, selezionando però quegli alimenti che si ritiene abbiano degli effetti benefici sulla nostra bellezza. Ho dato vita, per esempio, alla mia versione dell’Artemide Efesina (realizzata in precedenza anche da Louise Bourgeois e Luigi Ontani), divinità dalle tante mammelle, per cui ho costruito un vestito interamente realizzato dagli scarti delle bucce del Rambutan, un frutto esotico dalle presunte proprietà antiossidanti e rigeneranti per la pelle».
Per le maschere hai ricevuto il sostegno del tuo assistente Victor Albano dell’artist-run-space Biancofiore – come abbiamo visto per le Maschere ispirate a quelle micenee che riprendono però il tuo volto – come si è strutturata la collaborazione?
«Le maschere di cui parli sono quelle realizzate per la performance che si è tenuta all’Orto Botanico di Roma il 15 maggio in occasione del lancio di Adore. Victor (Albano) è un artista esperto di stampe 3D che mi ha assistito in questo processo. Con un macchinario apposito ha scannerizzato il mio volto e lo abbiamo poi riprodotto su scala più ampia, attraverso una stampante tridimensionale. Infine ho applicato la foglia d’oro per riprodurre l’effetto dei corredi funerari micenei, che erano interamente realizzati in oro. Vista la collocazione dell’Orto Botanico alle pendici del Gianicolo, colle sul quale si ergeva il tempio di Giano Bifronte, ho voluto che ogni maschera fosse costituita da due volti: uno che guarda al futuro e uno che osserva il passato, ma senza la possibilità di contemplare il presente. Le due maschere hanno preso vita grazie ai sinuosi movimenti delle performer Sophie Claire Annen e Vittoria Caneva».
È interessante che tu sia partito da elementi di scarto e dalla spazzatura creando da una dicotomia/polarizzazione – l’opera d’arte e la spazzatura – una sorta di felice congiunzione. Cos’è per te la spazzatura? Cosa è da buttare definitivamente e cosa si deve recuperare?
«In realtà, il punto di partenza è stata l’esigenza di indagare il cambiamento e la mutevolezza della vita sociale e di capire le regole che governano il comportamento individuale e collettivo. Adore è un tentativo di rompere i ruoli fissi imposti dalla nostra società patriarcale e capitalista. Per approfondire questa indagine mi sono focalizzato sugli inizi della civilizzazione europea, per trovare le matrici di vizi e virtù che si riverberano fino ad oggi. Mi sono concentrato sugli ornamenti dei corredi funerari micenei (1600-1100 a.C.), presenti nel Museo Archeologico di Atene. Ho, inoltre, raccolto quelli che potrei definire gli scarti dei nostri ornamenti: prodotti di bellezza trovati nei mercati dell’usato, con cui ho costruito costumi, maschere, elementi tanto effimeri quanto indispensabili, opere d’arte! Quella che tu chiami dicotomia tra opera d’arte e spazzatura sono effettivamente i poli opposti intorno ai quali si articola la civiltà contemporanea… Per me è stato un processo fisiologico arrivare a parlarne. La spazzatura per me è un simbolo di ciò che viene allontanato e messo ai margini dalle società capitaliste. Con questo lavoro ho cercato di invertire questo movimento centrifugo riportando lo “scarto”/l’escluso al centro della scena. Io stesso, dentro questa rivista, ho provato a rimodellarmi, come fossi un’opera d’arte. Alla tua domanda su cosa buttare e cosa recuperare ti risponderei che non butterei via quasi niente. Io sono un accumulatore seriale, la mia casa assomiglia più a un bazar. Raccogliere ciò che è stato scartato è per me una filosofia, oltre che parte della mia pratica artistica. Sono profondamente animista in questo: considerare ogni cosa intorno a noi dotata di un’anima è ai miei occhi un ottimo esercizio per imparare a rispettare i nostri simili e i non simili. Del resto gli oggetti, le persone, le idee possono essere allontanati, lasciati da parte, ridotti anche in piccoli frammenti in alcuni casi, ma il risultato di tutto questo detrito non è altro che materiale per nuove e inaspettate forme».
L’operazione è accattivante perché hai usato il tuo corpo performando in maniera trasversale e multidisciplinare, unendo moda, make-up, arti visive, archeologia e mitologia, editoria. Alla fine ti sei “rimodellato” trasformandoti in opera d’arte vivente come Gilbert & George. Come sei arrivato a questo risultato?
«Nella mia pratica artistica utilizzo di frequente il mio corpo come punto di partenza, anche nelle mie sculture. È il mio modo di esperire il mondo. Qualcuno potrebbe parlare di egocentrismo o narcisismo, ma per me è esattamente l’opposto: ho bisogno di prendere le sembianze di altro/degli altri per comprendere l’alterità e i miei confini. In generale come artista focalizzo la mia ricerca sul modo in cui si determina ciò che la conoscenza assorbe e ciò che, invece, getta via. Con questo progetto ho voluto portare “l’escluso” al centro della scena attraverso gli stratagemmi suadenti della pubblicità. Ho fatto intonare agli scarti raccolti il loro canto di assoluta indispensabilità, come sirene che ci invitano ad avvicinarci, a comprare, a consumare… Avendo raccolto quelli che posso definire gli “scarti degli ornamenti” di una società fondamentalmente capitalista mi è venuto spontaneo presentare i risultati della mia ricerca sotto forma di una rivista di moda: luogo per eccellenza dove le differenti forme del capitalismo si esprimono».
Giustamente hai citato il lavoro di Eva e Franco Mattes “The Bots” (2020) che mostra come i tutorial sul make-up, proprio per la loro ampia diffusione, vengano sfruttati da alcuni individui per sfuggire ai meccanismi di censura da parte dell’IA e parlare invece di tematiche politiche, economiche e sociali. Come intendi tu invece il trucco? Parlamene sia a livello espressivo che concettuale…
« I cosmetici offrono l’opportunità di raggiungere l’ideale mediatico di giovinezza e bellezza. Nei miei lavori però non è importante che un’immagine raggiunga tale ideale, ma che ne mostri il tentativo e anche il fallimento, se necessario. L’ammissione del fallimento e l’ironia sono aspetti molto importanti nel mio lavoro. Il fatto di prendersi sul serio appare ai miei occhi come il modo grazie al quale la cultura patriarcale si è perpetuata per secoli: marmorea, inattaccabile, mai scalfibile. Con l’ironia, con la produzione “di immagini deboli” io creo una narrazione più inclusiva. Nello specifico poi trovo che le maschere e il trucco siano ottime modalità per conoscere e riconoscersi. Del resto, uno sguardo attento alla maschera scelta può rivelare molto di più del volto che essa nasconde. I travestimenti poi dovrebbero essere utilizzati in maniera terapeutica, come esercizio all’alterità e all’empatia, per dare spazio alla moltitudine e alle contraddizioni che ci abitano. Penso che parlare di questa moltitudine, dentro e fuori di noi, possa davvero restituire una narrazione più articolata e quindi più veritiera della Storia».
Parli di narrazione alternativa/circolare/riciclabile, vuoi spiegare in maniera più approfondita cosa intendi?
«Gli artisti dell’Arte Povera avevano già impiegato materiali di scarto. Nel mio lavoro, la risignificazione degli scarti, derivati dagli elementi che sono stati gli ornamenti di un sistema capitalistico-patriarcale, è la chiave per ottenere un approccio più inclusivo, grazie al quale ciò che è stato scartato si fa opera d’arte e l’ornamento si fa sostanza. La narrazione egemonica attraverso un processo “Cosmetico” di ordinamento e pulizia ha imposto una visione lineare della Storia. In questa maniera sono stati esclusi e marginalizzati lo “scarto” e i “rifiuti”. Tuttavia senza lo scarto – senza l’errore – non può esistere una conoscenza che sia vera e profonda».