Ombre sul Viminale: quei dirigenti pluri-condannati ma intoccabili che hanno fatto carriera con Lamorgese e Gabrielli
C’è un sistema che negli ultimi anni, anziché rafforzare la “mission” della Legalità, sembra aver diffuso un “virus” nel cuore del Viminale, per trasformarlo in un centro di potere che favorisce chi agisce all’ombra della mafia, contestualmente schiacciando chi la combatte.
Potrebbe chiamarsi “mafia-Viminale”, se non fosse che gli attuali vertici hanno le “facce pulite” del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e del capo della Polizia Franco Gabrielli. Che però rischiano di intestarsi questo marchio indelebile se non saneranno il vulnus, chiarendo alcune “devianze” di potere, ma anche aspetti del loro lato oscuro: dai sistemi Montante-Odevaine ai funerali show del boss Casamonica.
D’altronde il contesto è decisamente allarmante. Da un lato Lamorgese mette le mani avanti – “ora le imprese chiedono aiuto alla mafia” – seguita dal prefetto di Napoli Marco Valentini sui “clan all’assalto dei fondi UE”. Dall’altro la denuncia tranchant del direttore di Europol Catherine De Bolle sulle “mani delle mafie sul Recovery Fund” e l’“incremento dell’infiltrazione nell’economia legale”.
A De Bolle ha risposto piccato Gabrielli, per il quale “ci identificano come un luogo in cui i fondi europei non vengono correttamente utilizzati, perché facciamo controlli che altri paesi non fanno”. Con a ruota il suo vice Vittorio Rizzi, anche presidente dell’Osservatorio sulle infiltrazioni mafiose, per il quale “se infiltrazioni ci sono state, non ne abbiamo ancora piena consapevolezza”.
Mentre invece tale consapevolezza per altre forze di polizia è già consolidata, visto che solo nel 2020 ci sono state almeno tre imponenti operazioni su infiltrazioni e fondi UE: “Messina, le mani dei clan sui fondi europei” (94 arresti tra Carabinieri e Guardia di Finanza), “Palermo, truffa sui fondi europei per agricoltura e turismo” (24 arresti dalla Guardia di Finanza) e da ultimo l’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Bari “soldi UE ai clan” (48 arresti dei Carabinieri), con l’aggravante che l’OLAF – Ufficio antifrode UE aveva pure avvisato.
Ma c’è anche il recente rapporto-denuncia di Libera sul “business dei clan al tempo del Covid”, nonché il monito del procuratore capo di Messina Maurizio De Lucia, che non limita il fenomeno al Sud, ma evidenzia pure come “con la pandemia le aziende del Nord sono le più esposte alla penetrazione delle mafie” e avverte: “Dobbiamo evitare il patto tra boss, politici e imprenditori”.
Con una grave crisi di ordine pubblico socio-economico-sanitario e le piazze in turbolenza, è evidente il ruolo cruciale del Viminale. Basti pensare alle interdittive antimafia con cui i prefetti sanciscono se un imprenditore sia affidabile o meno e meriti di essere assegnatario di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Ma anche al ruolo operativo dei questori: per le misure di prevenzione personali (avvisi orali, fogli di via e sorveglianze speciali) e patrimoniali (sequestro anticipato e confisca), presupposti delle suddette interdittive; oltre che per il coordinamento delle risorse messe a disposizione dell’Autorità giudiziaria per i servizi investigativi antimafia, essenziali per sgominare e sradicare i clan dai territori. Non da ultimo per la gestione dell’ordine e la sicurezza pubblica, cui fanno capo tutte le altre Forze dell’ordine e le Forze armate.
Ad incupire l’orizzonte il duo Lamorgese-Gabrielli, che sembrano predicare bene e razzolare male, recitando la parte degli affidabili-buoni, diversi da chi li ha preceduti.
Lo hanno evidenziato anche le dichiarazioni-squarcio del presidente di Amnesty Riccardo Noury, che si è spinto a “dubitare che le intenzioni siano sincere”, facendo riferimento alle ultime “vergognose” promozioni del Viminale di questori spezzabraccia e condannati del G8 – di cui noi di TPI ci siamo già occupati – che, allargando lo spettro, permettono di focalizzare un sistema che, dietro una “facciata imbiancata”, da anni rende intoccabili-impuniti anche dirigenti in odore di mafia, contestualmente vessando i poliziotti scomodi, con demansionamenti, trasferimenti, destituizioni/licenziamenti o dispense per motivi psico-fisici per lo stress subito.
Si tratta di investigatori antimafia, come quelli delle squadre anti-clan che operavano nel territorio di Ostia, Latina e Roma, smantellate proprio quando stavano producendo brillanti risultati. Ma anche sindacalisti che si battevano per la sicurezza sul lavoro e/o contro sprechi e privilegi, antefatti della corruzione.
“Devianze” su cui pure sono state presentate innumerevoli interpellanze/interrogazioni parlamentari, senza che i vertici si siano mai degnati di rispondere e/o prendere provvedimenti, in nome del ripristino della Legalità.
Per essere credibili Lamorgese e Gabrielli dovrebbero prima sgomberare il campo sui tanti punti ancora oscuri nella gestione delle ingenti risorse e dei poteri del Viminale, sintetizzabili nella “malalegalità” trasversale in cui sono attualmente coinvolti un centinaio tra prefetti, questori, dirigenti e funzionari della Polizia di Stato – di cui pure noi di TPI ci siamo già occupati – arrestati, imputati o indagati per gravi reati (associazione a delinquere – anche di stampo mafioso – sequestro di persona, corruzione, omissioni, falsi, rivelazione di notizie riservate, violenze – anche sessuali – abusi, depistaggi, truffe, peculati o illeciti erariali).
Ma dovrebbero anche chiarire alcuni loro comportamenti che nel tempo hanno lasciato ombre di connivenza e/o non meno preoccupante incapacità/inadeguatezza, in un momento di crisi tanto delicato, anche nei rapporti con l’UE.
Tra i tanti casi degli ultimi anni, ci si focalizzerà solo su quelli in cui sono entrambi coinvolti in concorso, per aver sottovalutato contesti mafiosi e/o assunto comportamenti omissivi o commissivi ingiustificabili e inspiegabili per chi lavora al Viminale da oltre 30 anni e in prima linea.
Errori e comportamenti per cui peraltro non hanno mai subito alcuna conseguenza per le loro carriere-parallele. Lamorgese nel 2013-2016 era capo di Gabinetto dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, poi prefetto di Milano ed ora ministro dell’interno. Gabrielli nel 2011-2013 era capo della Protezione civile – Commissario per l’emergenza profughi, poi crefetto di Roma e dal 2016 è Capo della Polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza.
Partiamo dal sistema Montante ricordando che Lamorgese nel 2014 si attivò per la nomina del cosiddetto “paladino antimafia” all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata.
In quello stesso periodo lo stesso veniva indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico, poi condannato a 14 anni per aver ordito un vero e proprio sistema di spionaggio di magistrati e avversari, con la complicità di alti funzionari delle forze dell’ordine. Senza che l’attuale ministro si accorgesse di alcunché e/o risulti essersi attivata per revocare quella nomina, quando poi i fatti divennero di dominio pubblico.
Nel frattempo Gabrielli, nonostante avesse appreso che tra gli indagati del sistema Montante c’era pure Andrea Grassi, all’epoca dirigente dello SCO (Servizio centrale operativo della Polizia di Stato), anziché destinarlo ad incarichi defilati in attesa di giudizio, lo fece prima promuovere dirigente superiore, poi nominare questore di Vibo Valentia, in un’altra zona ad alta intensità criminale.
Ma solo dopo la clamorosa condanna di Grassi a 1 anno e 4 mesi per rivelazione di notizie riservate, unitamente ad un funzionario della Questura di Palermo (4 anni) ed un ex ispettore della Squadra mobile (6 anni e 4 mesi), lo ha dovuto rimuovere dall’incarico “parcheggiandolo” a Roma, magari in attesa di poterlo rilanciare come già fatto con altri dirigenti, tipo Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi per i falsi del G8, adesso al vertice della DIA (Direzione investigativa antimafia).
D’altronde gli attuali vertici del Viminale non sono nuovi a questo tipo di “errori-sviste”. Come quando per il CARA di Mineo Gabrielli, in qualità di Commissario per l’emergenza profughi, affermò: “Nulla osta in ordine al conferimento dell’incarico in considerazione della nota professionalità posseduta dal dottor Odevaine” – anche di questa vicenda il nostro giornale ha già scritto – senza accorgersi delle due condanne dallo stesso già subite per stupefacenti e assegni a vuoto, dando quindi il via libera alla nomina prima come consulente del CARA e poi componente della Commissione aggiudicatrice della gara d’appalto da 100 milioni per la gestione dello stesso.
Ma dopo il suo clamoroso arresto nell’ambito di “mafia- Capitale” e le condanne a 3 anni e 2 mesi per corruzione nel suddetto appalto, nonché a 8 anni nell’ambito di “mafia-Capitale”, Gabrielli si è dovuto giustificare ammettendo che “con Odevaine c’era un rapporto che si può avere con una persona stimata. Lo stimavo sì, tutti possono sbagliare nella vita”.
Sulla vicenda è stata presentata un’interrogazione parlamentare per dinamiche che Roberta Lombardi del M5S all’epoca definì “mafia Viminale”. Errori o sottovalutazioni dell’attuale capo della Polizia ancor più gravi, considerando che un poliziotto-sindacalista scomodo a partire dal 2011 denunciò la mala-gestione proprio del CARA di Mineo e che il presidente dell’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) Raffaele Cantone nel 2014 scrisse ai vertici del Viminale definendo “illegittimo” l’appalto da 100 milioni per cui poi venne condannato Odevaine e nonostante tutto assegnato ad imprenditori che poi furono arrestati nell’ambito di “mafia Capitale”.
All’epoca capo di Gabinetto era sempre Lamorgese, che non si accorse del sistema-Odevaine, neanche quando venne nominato componente del Tavolo di coordinamento del fenomeno migratorio nel cuore del Viminale. Mentre, quando nel 2017 il poliziotto-sindacalista scrisse un libro sulle sue denunce inascoltate, Gabrielli ha pensato bene di destituirlo/licenziarlo dalla Polizia di Stato.
Le varie interrogazioni/interpellanze parlamentari, presentate da Nicola Molteni e Paolo Grimoldi della Lega e da Luigi Di Maio, Angelo Tofalo e Carlo Sibilia del M5S, sono rimaste lettera morta.
Nel 2015 esplose il caso dei funerali-scandalo del boss Casamonica con carrozza trainata da tre file di cavalli, Rolls Royce, 12 SUV pieni di fiori e centinaia di macchinoni al seguito: una carovana partita dal Gran raccordo anulare che, dopo aver mandato in tilt il traffico della Capitale, veniva accolta dalla banda musicale alle note de “Il Padrino”, davanti ad una chiesa con l’immagine a piena facciata del boss nelle sembianze del Papa, mentre un elicottero sorvolava la scena spargendo petali sulla folla riunita in piazza.
Nessuno si accorse di nulla in via preventiva e/o ha preso provvedimenti per sterilizzare ciò che ha provocato per il Paese un danno d’immagine a livello internazionale senza precedenti: prefetto di Roma era Gabrielli, capo di Gabinetto del ministro dell’Interno Lamorgese. Vennero quindi promossi capo della Polizia e prefetto di Milano e poi ministro dell’Interno.
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