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Vespignani a TPI: “I virologi italiani non hanno capito nulla, per sconfiggere il virus servono le 3T”

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Intervista all'epidemiologo italiano che opera negli Usa: “Per la Fase 2 bisogna ‘testare’, ‘tracciare’, e ‘trattare’. Da qui non si scappa. Noi epidemiologi siamo come quelli che fanno le previsioni del tempo, ma non abbiamo la foto di un vortice da mostrare al mondo. Per fortuna, al contrario dei metereologi, dopo aver individuato l’uragano, possiamo attenuarne l’impatto”

Intervista al prof. Alessandro Vespignani: “Contro il Coronavirus servono le 3 T”

Professor Vespignani, lei è un epidemiologo, ma non un virologo.
I virologi – come le spiegherò – possono essere dei luminari, ma talvolta sono le persone meno indicate per capire come si sviluppa una epidemia.
Addirittura. E lei?
Io non potrei dare nessun contributo a trovare un vaccino, ma sono in grado di dire come si muove il virus in una popolazione.
Lei è pro o contro il passaggio alla Fase 2 in Italia?
Non ho nulla in contrario, in linea di principio. Anzi, penso che sia necessario ritornare al lavoro. Ma per farlo servono le condizioni di base per non ricadere nell’epidemia.
Cosa serve, che cosa manca?
Prima di tutto un salto di mentalità. E poi le tre T. Se vuole le spiego perché.

Alessandro Vespignani, 55 anni. Figlio di Renzo Vespignani, uno dei più famosi pittori italiani del dopoguerra. Romano, fisico di formazione, una carriera internazionale a cavallo fra Europa e America, costruita – negli ultimi venti anni – tutta sulla caccia ai virus. Vespignani è atipico, nella sua formazione, e molto determinato nella sua analisi: “Da oggi 4,5 milioni di persone in più saranno sulle strade, bisogna evitare una seconda ondata: raggiungere questo obiettivo è possibile”.

Buonasera Vespignani, come si sente ad essere considerato “l’enfant prodige dell’epidemiologia” tra i due mondi, fra America e Italia?
“Prodige” non saprei. “Enfant” mi pare troppo generoso, visto che ormai ho 55 anni.
Come è diventato epidemiologo?
Pensi: io di formazione primaria sono un fisico, che poi si è interessato all’informatica, che poi da questa base è passato a studiare le reti sociali.
Non sembra un percorso convenzionale, a dire il vero.
(Ride). Ah, certo, assolutamente no: il fatto è che alla fine degli anni Novanta ho iniziato ad occuparmi di virus informatici. E da lì sono passato ai virus biologici.

Ancora più singolare.
Capisco. Ma in realtà lo è molto meno di quanto non possa sembrare: il comportamento dei virus informatici, dal punto di vista schematico, e gli scambi infettivi tra le reti, allora seguivano dinamiche sovrapponibili a quelle biologiche.
Era il 2000, l’anno della Sars.
Esatto. La Sars è stato il battesimo di una intera generazione, e – nel piccolo – il mio.
Cosa accadde?
Mi fecero una proposta, quasi estemporanea, e io accettai senza sapere che sarebbe diventato il mestiere di una vita.

Chi fu?
Un collega francese, Valleron. Era rimasto stupito da questa corrispondenza tra modelli e mi disse: “Ma perché non applichi questi tuoi schemi informatici alla epidemiologia?”.
E quale fu il primo passo?
Incrociare l’analisi dei dati e i modelli matematici con la tracciabilità.
Mi faccia un esempio concreto.
L’emergenza era contenere una epidemia globale. Serviva capire – per esempio – chi c’era su un determinato volo, e sui voli in connessione, capire le frequenze, i flussi totali riaggregati, gli stop over e la digitalizzazione del traffico aereo.

Ed era così difficile?
Oh sì! Dal punto di vista dei big data, è come se parlassimo di preistoria. Parlo, cioè, del 1998, del 1999, del 2000. Se fa mente locale, scoprirà che tutti noi volavamo ancora con i biglietti cartacei!
Infatti mi sembra che accada da sempre.
In realtà la digitalizzazione integrale è iniziata dopo l’11 settembre, quando – dopo i virus – abbiamo iniziato ad inseguire i terroristi. Un altro virus, ma altrettanto pericoloso.
Lei si considera un “cervello in fuga”?
(Ride). Non è una espressione in cui mi riconosco, perché ci consegna una idea di necessità. Io ho scelto questo percorso perché era una opportunità, non una condanna.

Però la stessa opportunità in Italia c’era?
Ah, in questo senso direi proprio di no, soprattutto con il senno del poi. Facevo ricerca con l’Università, e il mio relatore di tesi mi disse: “Scusa Vespignani: tu vuoi fare il borsista tutta la vita?”. Era una domanda retorica. Non volevo, e ho lasciato l’Italia nel 1994.
Per andare a Yale.
Ho avuto la fortuna di lavorare, per due anni, con un mostro sacro come Benoit Mandelbrot, scienziato francese di origine polacca emigrato in America, famoso per i suoi studi sulla geometria frattale. Classe 1925: un gigante.
E poi?
È arrivata una ottima offerta e sono andato in Olanda.

Più soldi?
Sì, guadagnavo di più, ma non ho mai fatto una scelta di questo tipo, non ho mai scelto per uno stipendio: all’epoca mi interessavano le opportunità e la formazione.
E quella successiva?
A Trieste: ho lavorato per l’Unesco e per l’Agenzia atomica. Ho allargato enormemente le mie conoscenze e i miei campo di competenza.
Poi la Francia.
Mi hanno chiamato al CNRS, Istituzione prestigiosa, dove sono diventato, visto che questi dettagli le interessano, “ricercatore di prima classe”.

In Francia conosce anche la sua futura moglie.
Si chiama Martina, e insegnava italiano in Francia. Stavamo bene, pensavo di aver visto e fatto già tutto.
E invece?
Un giorno mi chiama un mio ex compagno di università dall’Indiana University.
E cosa le dice?
“Tu saresti interessato a venire qui? Noi vorremmo aprire un centro di sistemi complessi”.
Quale delle sue tante competenze gli serviva?
(Sorriso). Questo è il bello. Tutte.
Tutte?
Proprio perché in quegli anni ci si rese conto che nell’era digitale per l’epidemiologia servivano competenze particolari, multiple e interdisciplinari.

In Indiana ci resta sette anni.
Ricordo che partimmo con Martina che chiedeva ironica: “Dove sta Indianapolis?”. Abbiamo lavorato e vissuto lì fino al 2011.
E poi?
Poi arriva la classica offerta che non si può rifiutare, dalla Northeastern University.
E cos’era che non si può rifiutare visto che lei non era interessato ad uno stipendio?
Le risorse. Uno standard che è il sogno di qualsiasi scienziato, e potrei tradurre così: “Porti chi vuoi, fai quello che vuoi, puoi prendere o comprare quello che ti serve”.

E Martina?
Alla fine lei è diventata più americana di me. Abbiamo due figli “americani”, nati qui: Lorenzo,12 anni, e Ottavia, 9. Ormai la nostra casa è questa.
Un altro pianeta rispetto alla ricerca in Italia?
Non sono i soldi su un determinato progetto a fare la differenza, è il sistema: è tutta la rete di fondi di ricerca che hai intorno. Ormai siamo a Boston da otto anni, con me ho una dozzina di ricercatori, occupiamo due piani.
Quindi oggi come si definisce, dal punto di vista professionale?
Io? Bella domanda: direi che sono una persona che si occupa di epidemiologia computazionale.

Molti virologi dicono di lei, con un po’ di sospetto: un fisico che si occupa di epidemiologia è curioso.
Ah ah ah. Se volessi prendere cappello potrei rispondere così: non tutti sanno che un normale virologo – salvo eccezioni – sa poco di epidemiologia.
Scherza?
Mannó, non c’è nulla di polemico. Si tratta della loro formazione: magari fanno un paio di esami, uno studio sull’epidemiologia. Ma il loro lavoro, giustamente, è un altro.

Mi faccia capire con un esempio per spiegare la differenza tra virologi ed epidemiologi.
Mi è venuto in mente questo: è come chiedere a un meccanico bravissimo con i pistoni e con le centraline delle auto di fare un previsione sul traffico in autostrada al casello di Abbiategrasso.
Lei invece è quell’uomo.
Esatto. Io non sono bravo a smontare il motore di un virus, a trovare un vaccino, ma lavoro con i dati per capire quanti contagiati ci saranno domani, e tra un mese, a Milano, a Bergamo, o a New York.

Servono molte equazioni, molta matematica, molte capacità di analisi.
Vede, dietro questo benedetto R0, c’è una tale complessità previsionale che il nostro mestiere, lo dico senza ironia, è molto più simile a quello dei metereologi. Come per loro, più lontana è la previsione, maggiore e il grado di approssimazione.
Come un metereologo? Scherza?
Sì, ma con due differenze importanti.

Quali?
La prima è che noi pronostichiamo quasi sempre catastrofi, non ci chiamano se c’è bel tempo.
E la seconda?
Un metereologo ha sempre una bella immagine di un vortice da fare vedere e può dire: “Guardate. Questo è il ciclone, e vi sta arrivando proprio sulle teste”. Noi, invece, non abbiamo nulla di così immaginifico da far vedere.
I morti.
Che però ancora non ci sono, io devo andare da un politico e gli devo dire: guarda, oggi ci sono solo sei contagiati. Fra un mese potranno essere un milione.

Perché all’inizio molti virologi dicevano “questo virus fa 100 morti mentre l’influenza ne fa 20mila”? Era giusto o sbagliato?
Era sbagliato. Ecco un altro esempio della differenza tra un meccanico di virus e un epidemiologo. Quella previsione non faceva i conti con la velocità di propagazione, la mancanza di farmaci, la popolazione vulnerabile rispetto ad una normale influenza.
Che in Italia può colpire massimo dieci milioni di persone perché gli altri sono immuni…
Mentre il Coronavirus è la prima volta per tutti.

Seconda grande domanda. I dati della Cina alla luce di quello che lei ha riscontrato sono falsi?
Secondo me erano assolutamente veri.
Davvero?
Vede, bisogna capirsi: i dati di qualsiasi epidemia all’inizio sono sempre – mi passi il romanismo – “un casino”.
La Cina, però ha aspettato sei giorni prima di avvisare il mondo.
Ma è ovvio! Prenda l’Italia: anche noi, in una sola settimana, abbiamo cambiato il nostro punto di vista: all’inizio ci sono stati errori, riponderazioni, buchi. Ecco perché io da mesi dico che anche i nostri dati “non sono veri”.

Qui è lo statistico che parla.
È matematica. Gli infetti in Italia sono dieci volte di più di quelli ufficialmente infettati. Io direi: riconosciuti come infetti.
Perché il campione che abbiamo è falsato?
Esatto. Qualunque modello sensato e professionale ci dice che siamo già nell’ordine dei milioni, e non delle centinaia di migliaia.
È sicuro che ci sia uno scarto così ampio?
Esatto. È come fare un sondaggio politico e farlo sono nella sezione di un partito. È ovvio che se sei in una sede della Lega ti sembra che Salvini abbia il 90% e se sei a Reggio Emilia il più popolare è Bersani. Vuol dire che la nostra impressione ingannevole è data dal fatto che il grosso dei tamponi non sono fatti seguendo un modello statistico demoscopico, ma prendendo tutti quelli che gravitavano già sugli ospedali.

Mi faccia un altro esempio.
Andiamo lontano dall’Italia. Il lavoro che sto facendo sembrava diventato impossibile: ci sono volute due settimane solo per capire come contavano i morti a New York, capisce?
Per l’annosa questione se si muore “con” Coronavirus o “per” Coronavirus?
Sì. Ma anche per una questione di flusso: un giorno ti arrivano 3.500 morti tutti insieme, e forse il dato riassume quello che è accaduto un mese prima.
In Europa sono stati più bravi?
Questo mi fa sorridere. Se lei si ricorda in Francia, in Germania, in Inghilterra dicevano: “Il caso Italiano”. Erano solo quindici giorni indietro a noi. Era insensato. Io questo l’ho detto a marzo dal TG1 al Corriere della sera.

Quindi non siamo stati meno bravi, secondo lei.
Questo virus è una bestia maledetta che ha preso tutti, senza fare sconti a nessuno. E molti di coloro che sorridevano sulla nostra “impreparazione” e sorridevano, si sono fatti trovare più impreparati di noi malgrado il preavviso!
Altra vexata quaestio: era giusto chiudere i voli diretti per la Cina o non è servito a nulla?
Dal mio punto di vista è stato giustissimo farlo. Chiudere un volo diretto non ferma il contagio, ma lo rallenta di sicuro. Si ricorda? Negli anni Duemila iniziai proprio con questo tipo di calcoli probabilistici sui voli e sui contatti.

Perché i tedeschi hanno l’indice di mortalità enormemente più basso del nostro?
Per due motivi. I tedeschi confermano molti più casi di noi, allargano il denominatore dei tamponati, quindi riducono il rapporto di mortalità.
E poi?
Il dato sui morti con patologie concorrenti: alcuni dei loro casi vengono computati con altre cause di decesso.
Qual è il fattore di rischio più alto del Coronavirus?
Il tema del contagio indotto dagli asintomatici e il periodo di incubazione.
Che tradotto sul suo modello cosa produce?
Per settimane l’epidemia galoppa nascosta, sottotraccia, invisibile. Un flagello.

È attendibile lo studio che in Italia ha ipotizzato il rischio di 150mila terapie intensive se si sbaglia nella Fase 2?
Molto verosimile, proprio per tutto quello che abbiamo detto su contagi occulti e capacità di trasmissione uomo-uomo.
Anche in America sarà così?
La faccio sorridere, ma di amarezza. Noi stiamo lavorando con la Casa Bianca per quel tipo di proiezioni. Qui l’adozione di quel tipo di modello ci fa salire a una stima di due milioni di vittime.
Il governo americano usa uno dei vostri modelli?
Diciamo che è uno dei quattro usati dalla task force. Ma, per darle un’idea, gli altri non si differenziano dal nostro per essere più ottimistici.
Il suo come si chiama?
“Global epidemic and mobility model”.

Torniamo all’Italia.
Io quel lavoro l’ho studiato: sono dati molto raffinati, uno studio di epidemiologia fatto davvero molto bene. Di una professionalità e di una cura infinita.
Quindi dobbiamo suicidarci?
No! Dobbiamo fare le cose per bene, applicando la regola delle tre T, come le spiegherò tra poco, e quel numero potenziale non si realizza. Come è accaduto tra nord e sud Italia.
Perché tutti gli epidemiologi pronosticavano una catastrofe dopo l’esodo di massa da Milano e invece non c’è stata?
In primo luogo perché c’è stata responsabilità collettiva e molti si sono isolati. In secondo luogo perché era già accaduto.

Dove?
In Cina. Lo sa che nella “Fuga da Whuan” si sono disperse per la Cina mezzo milione di persone?
E cosa sapevate voi?
Che non tutti erano infetti. Non tutti erano asintomatici. E che, aggiungendo quei casi agli altri che sicuramente già c’erano, non ci sarebbe stato il collasso. Noi questa dinamica la vedevamo.
Quando dice così mi fa paura. La “vedevate”?
Delle equazioni: torni per un attimo alla similitudine delle previsioni del tempo…
Ci sono.
Noi sapevamo che il sud era in una situazione completamente diversa dal nord. Al nord il virus è arrivato a fine dicembre. Al nord circolava sottotraccia. Al nord il virus si è innervato in una rete di relazioni, viaggi, e commerci enormemente sviluppata. Parlo di voli, di connessioni.

Di nuovo il suo cavallo di battaglia del Duemila.
Ma lei davvero vuole paragonare le interazioni del Molise con la Cina a quelle con la Lombardia industrializzata? Sono due paesi diversi. Due mondi.
Proviamo a raccontare come si muove il virus in quel nord ad alta densità industriale ed antropica.
L’equazione che aiuta a capire è semplice: se tu ogni tre o quattro giorni hai il tempo di raddoppio dei contagi, in un mese ti ritrovi con un due elevato alla settima. Facendo due conti, un’epidemia che parte un mese prima è 128 volte più grande di quella partita il mese dopo. Due settimane sono un fattore 10.

Ma è stato giusto chiudere tutta l’Italia come ha fatto il governo due mesi fa?
Io non ho il minimo dubbio, e nessuno dati alla mano può averlo. Il blocco funziona. Il dramma sarebbe accaduto se all’epoca si fossero fatte chiusure differenziali.
Perché le regioni del Sud sarebbero state contagiate da quelle del nord.
Malgrado i volumi di traffico enormemente diversi tra Bergamo e il Molise, se non chiudevi il virus sarebbe arrivato anche in Molise!
E gli ospedali?
Lodi e Codogno: lì sono stati sfortunati. Quegli ospedali sono diventati dei focolai, non era inevitabile. Ma il grande  tema è: c’erano le protezioni e la preparazione? Perché se non le hai non puoi non sbagliare.

La scala di Bergamo proiettata su New York è peggiore o migliore?
Io credo che siamo lì. Quando Improvvisamente ci siamo trovati quei 3.500 morti hanno fatto sballare tutti i modelli.
E da voi?
L’altro giorno ho dovuto gestire un casino enorme. Quando qui c’erano 28 casi. Noi abbiamo dovuto dire alle autorità che saremmo arrivati presto a 25mila. Però non sempre la precisone si certifica. Perché rispetto a chi fa le previsioni del tempo noi abbiamo una fortuna: noi possiamo cambiare il racconto dell’uragano. Possiamo abbattere la forza dell’onda che vediamo sollevarsi.

Quanto ha contato nel caso Italiano la condizione della sanità?
Molto. Non abbiamo avuto nessuna linea di difesa prima degli ospedali.
E questo ha aumentato anche i numeri dei contagi.
Per forza. Non solo non vedi il virus correre quando si muove in modo asintomatico. Ma non riesci ad intervenire nemmeno quando lo vedi. Se ti metti in moto quando le terapie intensive sono intasate, per molti di quelli che arrivano è già troppo tardi.
E in America hanno gli stessi problemi con la Fase 2?
Uhhhh! Da oggi 15 stati iniziano a riaprire, e non dovrebbero.

Lei è favorevole o contrario alla Fase 2?
Detta così la domanda è mal posta.
E come andrebbe posta?
A me pare che non ci sia ancora nessun paese in cui c’è già una infrastruttura di contrasto del virus che ti impedisca di ricadere.
E qui arriviamo al suo cavallo di battaglia. Le famose “tre T di Vespignani”.
Non mi prenda in giro. Ne parlo da mesi perché è il mio chiodo: le tre T sono l’uovo di Colombo, “testing, tracing and treating”.
“Testare”, “tracciare” e “trattare”.
Esatto. Noi ormai siamo in una fase in cui non conta solo dove ti trovi – il livello dei contagi ad esempio – ma quello che fai.

Cominciamo con il testare.
Tamponi e test, purché omologati. Serve un esercito. Serve una determinazione ossessiva e spietata. Io in Italia oggi questo esercito non lo vedo.
In Veneto, forse?
Il Veneto sta diventando un ottimo modello. Proprio perché sono partiti dalla prima T.
Passiamo alla seconda.
Tracciare. Che poi significa poter “Isolare”. Appena sei positivo c’è qualcuno che ti chiama e ti chiede: “Quante persone hai visto? E chi sono?”. E poi si chiamano, si isolano e si seguono anche quelli.
Ma c’è qualcuno che ci si sta avvicinando?
In Cina, in Corea a Hong Kong. In Germania. Bisogna risalire tracciando. E spiegare: “Anche se stai bene come un pupo, se hai avuto contatti con l’infetto te ne stai a casa due settimane, meno i giorni che sono passati dal tuo contatto”.

Non sempre quindici, dunque? E perché?
Siccome non va dimenticato che tutto questo ha un costo sociale enorme, se il contatto è avvenuto dieci giorni fa e sei negativo devi essere isolato solo cinque giorni.
E poi?
Poi li devo monitorare, misurare. E ti devo assistere. Al momento giusto, se sei negativo puoi uscire.
Molti si chiedono se si possa fare in paesi come il nostro.
Eh no! Qui mi incazzo.

Professor Vespignani!
Ma queste cose sono state fatte in Congo, quando abbiamo combattuto contro Ebola!
Lei ha monitorato anche quella epidemia?
Noi abbiamo costruito i modelli per il Congo e, le autorità congolesi li hanno implementati anche in zone di guerra! Si può fare in Congo e non si può fare a Milano?
Quali altri modelli avete costruito?
Abbiamo lavorato su Zika, in Sud America, e nelle zone del sud degli Stati Uniti. Poi con la Pandemia influenzale del 2009. Calibrato i modelli sulla SARS.

Sono esperienze parallele a questa pandemia?
Sì. È la terza volta che un Coronavirus fa un salto di specie. La Sars, come è noto, faceva più vittime, ma non aveva una trasmissione asintomatica.
Cos’altro emerge dai vostri modelli?
I bambini sembrano meno suscettibili. Meno sintomatici. Ma è da confermare.
Altra cosa importante per la Fase 2, la terza T.
Trattare. E qui io vorrei partire dall’isolamento, che non può essere familiare.

Non può?
No. Io non posso credere che in Italia ancora oggi si dica ad un infetto: “Adesso chiuditi a casa tua”.
Perché?
Ma prendete un albergo! Aprite una caserma. Fate quello che volete, ma non chiudete gli infetti nelle loro case, ad infettare i loro familiari.
E le sembra un problema di mentalità o economico?
Di mentalità. Perdiamo un miliardo di euro al giorno. Ma prendiamo tutte le stanze che servono, e facciamo trascorrere il miglior periodo di quarantena immaginabile.

Perché questo messaggio non passa?
Io non me ne capacito. Eppure nei venti punti del ministero ci stanno queste cose scritte. Il problema è che molti governatori non le applicano.
Quindi lei cosa direbbe alla Santelli?
Che se vuole aprire deve passare per le tre T e costruire questa infrastruttura. Ma senza aver costruito un sistema, invece, “aprire” diventa un esercizio di stile.
E in America a quante T siete?
Dipende. Serve un esercito di tracciatori. Negli Stati Uniti si pensa di assumerne almeno 100mila. Solo la California ne deve mettere in campo 10mila. E stiamo già facendo i bandi.

E la polemica sulla App?
Io non l’ho capita. Ma davvero pensiamo di sconfiggere Covid con una app?
Proprio lei è scettico?
Sì, e non perché da informatico non abbia fiducia nelle tecnologie, si figuri. Ma perché le persone vanno se-gui-te. Lei se lo immagina uno che si alza la mattina e tutto tranquillo si autoisola perché lo schermo del telefonino gli diventa rosso?
In teoria dovrebbe essere così.
Ma no, perché quell’infetto è un uomo che non può essere lasciato da solo. Magari sono un padre e ho una famiglia da far campare. Magari sono un precario e devo uscire. Magari non ho lo spazio domestico per tutelare i miei.

Esattamente quello che è accaduto in Italia.
Sono isolato a casa, in quarantena, non faccio il tampone, nessuno sa come sto, e poi magari chiamo la ASL che non mi risponde perché ha tante telefonate. Folle.
Quindi per questo la app non va bene.
Le app vanno benissimo, possono essere un grande supporto, ma serve un servizio umano. Serve una tutela a distanza che non si può realizzare solo con un algoritmo o con le faccine sul telefonino.
Ma serve un personale medico?
Nooo… Non devono essere necessariamente medici e infermieri. Devono andare a prendere la temperatura con lo scanner. Fare telefonate. Monitorare. E se ci sono problemi passare la palla ai medici.

E in quanto si mette su questa cosa da zero, in un paese dal Congo in su?
Bisognava partire al giorno uno a metterlo in piedi. Stiamo parlando di due mesi fa.
Quindi, ricapitando, facciamo l’esame di Fase 2 ai governatori, applicando la legge delle tre T.
Hai l’ospedale Covid e l’albergo dedicato? Hai già l’esercito dei tracciatori? Hai test e tamponi? Hai regole chiare e intellegibili per chi torna al lavoro? Hai le terapie intensive pronte? Hai modo di avere dati costantemente aggiornati su casi e decessi? Se non sei preparato devi sapere che stai correndo un rischio grave.
Molti virologi sono scettici sulla possibilità di attuare la Fase 2.
Io non sono d’accordo. In primo luogo perché bisogna tornare al lavoro. Il fatto di essere un epidemiologo non può esimermi dal sapere che si muore anche di recessione.

Il Governo apre molti spazi.
Ho visto le stime: questa Fase 2 porterà di nuovo in giro 4,5 milioni di italiani. È una cifra sostenibile. Anche perché tutti i luoghi pubblici restano chiusi.
Secondo lei possono riaprire i ristoranti e i bar?
Se hanno spazi all’aperto è meno rischioso.
Il caldo ci aiuterà?
L’estate potrebbe portare un po’ tregua. Io penso che in queste condizioni stare all’aperto sia meglio che stare al chiuso.
Un pericolo da evitare.
Ho paura dei locali con l’aria condizionata. Mi preoccupano più i luoghi di vacanza affollati al mare, soprattutto senza presidi medici, più che la gente vada al mare.

Parliamo ancora della terza T.
Io vorrei che ci fossero ospedali Covid in tutte le regioni, soprattutto in Sardegna e Sicilia.
E il rischio della seconda ondata?
Se siamo bravi non ci sarà. Noi siamo in grado di cambiare la traiettoria dell’epidemia. Noi possiamo evitare che l’uragano arrivi.
Quando potremo dire che tutto torna come prima?
Non c’è una data, ma un obiettivo. La risposta è: solo quando avremo più farmaci e il vaccino.

Quindi, sulla Fase 2, il suo è un sì, ma condizionato.
Per tornare al lavoro bisogna avere queste condizioni di contorno.
Alcuni dicono: “Non ci sono le risorse, non c’è il tempo”.
È un altro ragionamento folle. Le posso fare l’ultimo esempio? Bisogna immaginare per un attimo che non si tratti di un virus.
E cosa cambia?
Se ci fossimo ritrovati in una guerra dove si sono già contati 20mila morti, 100mila feriti, migliaia di dispersi non avremmo perso un secondo.
Dice?
Ma certo. Avremmo già intere fabbriche che costruiscono carri armati invece che automobili, avremmo già corpi volontari arruolati e intruppati, avremmo linee di difesa multiple, migliaia riservisti mobilitati!
Dovremmo, infatti.
(Sospiro). E allora perché non accade?

Leggi anche: 1. Il virologo Tarro a TPI: “Il lockdown non ha senso, il caldo e il plasma dei guariti possono fermare il Covid” / 2. Crisanti a TPI: “Le donne si negativizzano prima. Il Veneto si è salvato perché abbiamo blindato gli ospedali” / 3. Galli a TPI: “La Lombardia ha fallito. Riaprire le aziende? Rischioso, ancora un mese di stop”

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