Verdelli a TPI: “Sbagliato censurare i no vax. La stampa deve stare dalla parte di chi non capisce”
Intervista all’ex direttore di Repubblica: "La stampa deve stare dalla parte di chi non capisce, di chi vuol sapere, sorvegliando il potere. Nel portafogli ho la tessera di mio padre partigiano. Così è nato il mio giornalismo popolare”
Cominciamo dal problema giornalistico di questi giorni. Cosa pensi della frase di Mario Monti su informazione e pandemia? “Bisogna trovare modalità meno democratiche di somministrazione delle notizie”.
(Sospiro). «Non mi pare felicissima».
Allude al tema del controllo.
«Lo so bene, ma non condivido. L’informazione è un mestiere civile, sia che scrivi sia che fai scrivere. Io sono molto cauto e allergico a qualsiasi idea di censura».
Monti dice: “Siamo in guerra”.
«Io sono contro la censura anche in tempo di guerra. Non ci possono essere regole imposte dall’alto, le regole deve dartele la tua coscienza».
Non credi al comitato di controllo etico.
«Ma figurati. E composto da chi, poi? La pandemia vissuta alla guida di un giornale è stata una esperienza sconvolgente, per me».
Spiega.
«Vedendo quello che accadeva, sentivo il dovere di fare una informazione più accurata e precisa. Ma anche meno reticente».
È la tua idea del “giornalismo popolare” declinata nel tempo del virus.
«Sei tu la sentinella, devi dare tu le risposte alle domande delle persone, devi stare dalla parte di chi non capisce e di chi vuole sapere, dicendo le cose come stanno, e sorvegliando il potere».
Chi è l’uomo dell’anno in Italia?
«Draghi. Non c’è discussione. Nessun paragone con i governi tecnici di Ciampi e di Monti».
Perché?
«Le condizioni sono completamente diverse. E quando questo tempo finirà, nulla sarà come era prima. Sono molto curioso di capire cosa accadrà, da giornalista e da cittadino».
Cosa ti preoccupa di più?
«La scarsa consapevolezza della classe politica. Li vedo disorientati, spaventati. L’Italia del post-Covid è un Paese in cui sotto il sottile velo dell’apparenza avverto povertà e paura».
Perché?
«Non ci sono più certezze. Quando la generazione di mio padre iniziava a lavorare sapeva che in un modo o nell’altro sarebbe riuscita a raggiungere un buono stipendio».
E oggi?
«Mettiti nei panni di un padre che sta mantenendo il figlio agli studi in America. Se perde il posto di lavoro chi glielo ridà? Io in questi tempi penso a quelli come lui».
Carlo Verdelli ha la voce di sempre. Sussurrata, priva di enfasi, densa di contenuti, ma le parole scorrono piane, come per bandire qualsiasi retorica. Verdelli è uno dei più importanti giornalisti italiani, ha diretto la Gazzetta dello Sport, Vanity Fair, Il Corriere della Sera Sette, e ovviamente La Repubblica. Ha guidato l’informazione Rai quando il direttore generale era Antonio Campo Dall’Orto. Lo ha fatto sempre così, senza mai gridare. È stato il mio direttore un secolo fa. Ha appena pubblicato “Acido”, un libro di “cronache italiane anche brutali” (Feltrinelli, 19 euro).
Raccontiamo il momento più bello della tua carriera?
«Ce ne sono stati tanti, ma, se ci penso, non ho dubbi. È quello della vittoria al Mondiale, che per me è un titolo della Gazzetta: “Tutto vero!”, con la foto di Cannavaro che alza la coppa».
Quella prima pagina fissò un primato.
«Sì, le rotative girarono per più di 24 ore senza fermarsi. Mai accaduto prima o dopo».
Due milioni e 200mila copie vendute, il record precedente era un milione e 200.
«Il giornale per vendere tutte quelle copie doveva essere stampato: al termine di quella giornata infinita noi del gruppo di direzione andammo a Pessano con Bornago, dove c’era lo stabilimento».
E cosa accadde?
«Mentre entravamo ci venivano incontro gli stessi dipendenti per farci firmare le copie. C’erano entusiasmo, aria di festa, orgoglio».
Bello.
«È il senso leggero di quando si entra nella storia. Sapevano già tutti che era una numero da collezione».
Da dove arrivi?
«Da una famiglia normalissima. Mio padre operaio specializzato, mia madre impiegata alla Cova, ditta di giocattoli e carrozzine. Poi si dedicò alla famiglia».
Periferia di Milano.
«Sì, proprio al confine, dove inizia Quarto Oggiaro. Zona industriale, ancora oggi».
Da piccolo ti mandano dalle suore.
«C’era il tempo pieno, e mio padre faceva in tempo a uscire al lavoro. Liceo classico al Beccaria».
Non era scontato.
«Per nulla. Tutti i miei compagni erano andati a ragioneria, istituti tecnici, avviamenti al lavoro. Ma i professori per me avevano insistito».
Erano gli anni dell’ascensore sociale e delle differenze di classe.
«Nel 1970 tutti i miei compagni del classico avevano famiglie importanti. E poi…».
Fammi un esempio.
«Molti di loro sapevano l’inglese. Viaggiavano. Io non ero mai stato all’estero in vita mia, nemmeno in Svizzera!».
Ti iscrivi a lettere.
«Con indirizzo storico. Poi mio padre andava in casa integrazione, e io iniziai a lavorare perché non potevo gravare su quello stipendio».
Raccontalo in una immagine.
«Lavorava in una ditta farmaceutica. Lui e i suoi compagni dovevano proteggersi con degli scafandri, come dei palombari».
Per le radiazioni.
«Ma la sera lo vedevo che si preparava degli impacchi di camomilla, per dare sollievo agli occhi».
Come mai?
«Mi spiegava che per manutenere le macchine doveva avvitare bulloni minuscoli».
E quindi?
«Mi diceva: “Come faccio a far bene il mio lavoro se non li vedo?”».
Quindi toglieva il casco.
«E lo ha pagato caro, con tanti malanni e una morte precoce».
I tuoi primi lavori?
«Andavo alla Carovana. C’era “la chiamata”».
Tipo caporali?
«Esatto davanti al cancello: tu vieni e tu no».
A Milano!
«In quegli anni era normale. Poi ho fatto il fattorino: giravo con la 500 aziendale».
Poi parti militare.
«Perché smetto di fare il rinvio sperando: “Magari non mi chiamano”».
E accade?
«Macché. Arriva subito la cartolina di precetto. Bersaglieri: Albenga, poi Friuli».
E quando torni?
«Penso: “Il primo lavoro che capita lo prendo”».
Invece capiti a La Repubblica.
«Nell’ottobre 1979 , il quotidiano, che dopo il sequestro Moro fa il salto di qualità, sbarca a Milano».
Ti presenti da Giampiero Dell’Acqua, il capo dell’ufficio di corrispondenza.
«Sembrava Walter Matthau. Un maestro. Gestiva quattro pagine di cronaca cittadina».
Colloquio brillante?
«Macché. Però vedo che mette in agenda sia me che Luca Martini, l’amico con cui ero andato».
E poi?
«Un giorno squilla il telefono di casa. È Giampiero: “Ti va di fare il Micam?”».
Cosa?
(Ride) «La Fiera delle calzature. Tutta la notte svegli, io e Luca, per 20 righe. Le firme erano piccolissime, in corsivo ma per un ragazzo come me era un sogno».
Il primo salto è in un periodico, Duepiù.
«Era stato una grande invenzione mondadoriana. Con un inserto chiuso dentro».
E cosa c’era dentro?
«Consigli di sessuologia. Riflessioni sulla coppia. “Come fare se lui ha problemi di erezione”. Tutto scritto da esperti seri».
Risultato?
«700mila copie».
In Mondadori trovi direttori come Rognoni e Sabelli Fioretti.
«Approdo ad Epoca con Statera: grandi maestri.
Diventi redattore, inviato, vicedirettore.
«Finché Paolo Mieli non mi chiama a fare il direttore di Sette. Ma ti devo dire una cosa importante».
Quale?
«Ci sono due modi per diventare giornalista».
Quali?
«O si nasce bene, figli di quel mondo o di universi attigui».
Oppure?
«Si arriva dalla foresta, come me. Tra chi viene dalla foresta alcuni cercano di far dimenticare la loro provenienza. Altri lo considerano la propria bussola».
Ti consideri socio di questo club.
«Ho sempre pensato ai lettori come la gente tra cui ero cresciuto. L’Italia popolare. Appartenere ai territori, vivere dei mestieri. Volevo parlare a questi, più che al Palazzo».
Hai scritto addirittura un libro sulla tua esperienza a viale Mazzini.
«La Rai è stata un percorso ad ostacoli sin dall’inizio. Quando vengo chiamato da Campo Dall’Orto lui mi assegna un mandato preciso».
Quale?
«Recuperare il ritardo. Eravamo nel 2016, e l’azienda era ancora analogica».
E tu lo dici in Commissione di Vigilanza.
«“Siamo nel Duemila ma la Rai è rimasta al Novecento”. Era vero».
Però sei contento del tuo lavoro alla guida dell’informazione.
«In parte sì, in parte no. Avevo un contratto di 4 anni, me ne sono andato alla fine del primo».
Perché?
«Non c’erano più le condizioni per fare bene il nostro lavoro.
Che accade?
«Renzi aveva scelto Campo Dall’Orto con un mandato giusto: carta bianca per cambiare».
E poi?
«Quando Antonio gli fece il mio nome disse: “Una ottima scelta per due ragioni. La prima è che non lo conosco. La seconda è il suo curriculum”».
Un complimento.
«Vero. Ma quando Renzi capisce che le cose gli vanno male diventa invadente. Io faccio muro sulle richieste politiche. E quando non riesco più me ne vado».
Contro chi ti scontri?
(Sorride) «Ad esempio con la Maggioni, che diventa la capofila di “Lasciamo tutto così com’è”».
Perché?
«Va chiesto a lei. Un giorno avevo detto che Rainews24 non poteva fare l’uno per cento di share con 150 giornalisti».
E quindi?
«Dico: “O arriva al 3 per cento o va chiusa”. Lei l’aveva diretta e la prende come una grave offesa personale».
E di cosa vai orgoglioso?
«Ho cercato di fare spazio e di far crescere. Abbiamo fatto ore e ore di informazione».
E il rapporto con la politica?
«La Commissione di vigilanza è la cosa più lunare e astrusa del Parlamento italiano».
Ovvero?
«Un terribile crogiolo di incompetenza, presunzioni varie ed arroganza. E poi rapporti trasversali, e conflitti di interessi. Ti basta?».
Tu venivi dal mondo fatato di Vanity Fair.
«Incassavamo un sacco di soldi: gli editori americani erano impazziti».
E dici: “Non sapevo nulla di moda, quando ero entrato”.
«Vero. Ma studiando giorno e notte, nei giornali, ho sempre imparato tutto».
Anche alla Gazzetta?
(Ride). «Non sapevo neanche la formazione della Juve».
Hai fatto in tempo a conoscere un grande direttore.
«Da Gino Palumbo ho imparato moltissimo anche conoscendolo molto poco».
Ti aveva chiamato il futuro ministro Colao.
«Accettai perché, pur sapendo poco di sport, capivo che la Gazzetta era l’unico giornale popolare che l’Italia abbia mai avuto. Noi non abbiamo il Sun, i grandi quotidiani di massa inglesi».
E cosa capisci?
«Che nel nostro mondo era invecchiato il linguaggio. Palumbo aveva svecchiato questo codice».
Fammi un esempio.
«Un tempo la vecchia Gazzetta avrebbe scritto: record mondiale, Sotomayor salta 2 metri e 45».
E invece?
«Palumbo pensa: “Ma quante macchine una sull’altra ha saltato?”».
Ah ah ah…
«L’intuizione di Gino erano titoli come “Gigi sfonda la rete!”, “Eroi”… Pensa se anche la politica fosse stata titolata così».
Ci andò vicino.
«Lo avevano chiamato al Corriere. Rifiutò perché aveva scoperto di avere un male incurabile».
Sarebbe stato concorrente di Scalfari.
«Eugenio, pensando che accettasse, pubblicò in prima la lettera della madre di un tossicodipendente. Era il suo modo di accettare la sfida».
Ti piace questo dei giornali?
«Sí. Ogni tuo titolo influenza i tuoi concorrenti più di quanto tu non creda».
Uno slogan a cui sei affezionato?
«“Repubblica alza la voce”. Semplice, chiaro. Un programma. È quello che ho fatto».
Cos’è il giornalismo per te?
«La mia formula l’ho rubata a Wim Wenders: “Informotions”».
Come come?
«“Emozione più informazione”. Non credo alle notizie fredde. Non credo al giornalismo senz’anima».
Giochiamo con i temi di fine anno: riunione di redazione verdelliana. Vuoi un presidente «patriota» come dice Meloni?
«No. Lo voglio equilibrato, credibile capace di far rispettare la Costituzione».
Caspita.
«E poi cos’é la patria oggi? La profezia di Mc Luhan sul villaggio globale si è verificata abbattendo muri e confini. I giovani devo poter lavorare e avere diritti. Il loro paese è il mondo. Il tempo delle bandierine è finito».
Nel tuo libro parli per la prima volta del tuo addio a Repubblica.
(Pausa). «Sono stato licenziato lo stesso giorno in cui volevano uccidermi».
Racconta.
«Tutti i licenziamenti sono brutti. Ma credo che il mio, da La Repubblica, abbia battuto una serie di primati da Guiness».
Mettiamoli in fila.
«È l’aprile 2020, e io sto vivendo un momento difficile, sul piano personale e professionale, proprio quando cambia l’editore del giornale e arrivano gli Elkann».
Che tipo di momento?
«Dopo alcuni titoli polemici sulla Lega, si erano abbattute su di me, e sulle persone a me più vicine, una serie di minacce terribili e molto violente».
Il più discusso era un titolo di prima a tutta pagina, “Cancellare Salvini”. Erano il tuo marchio di fabbrica a La Repubblica: titoli forti e netti.
«Era una sintesi tra una polemica politica di giornata e un invito al Pd e al M5s a contrastare il leader della Lega».
Ricordiamo il momento: c’era stata l’estate di Salvini al Viminale, le navi ferme fuori dai porti, gli immigrati in mare…
«Io avevo fatto un lungo lavoro di studio sulla Repubblica degli esordi per arrivare a quello stile».
Lo avevi dichiarato alla presentazione di “Grand Hotel Scalfari”, di fronte al fondatore.
«La storia di Repubblica è stata sempre quella di un giornale di opposizione importante per l’identità della sinistra».
Opposizione, dici.
«Certo: quella di Scalfari a Craxi e al Pentapartito, quella di Mauro a Berlusconi e alla destra. E anche, se vuoi, quella di Calabresi, che si ingarellò contro il primo M5S».
Tu in quel momento avevo schierato il giornale contro la linea dei “porti chiusi”.
«Esatto. Ma Salvini fu lesto nel trasformare quel nostro titolo in un invito ad annientarlo sul piano personale».
E cosa accadde da quel momento?
«Si attivò un tiro al bersaglio continuo contro di me. Insulti, ingiurie, e poi addirittura minacce di morte».
Il Consiglio d’Europa arriverà a classificarle di “livello 1”, ovvero tra le violazioni più gravi alla libertà di stampa.
«Minacce per cui, come vedi, vivo ancora oggi sotto protezione armata».
E quel 22 aprile cosa accadde?
«Ben due diversi avvisi, registrati e raccolti dalle forze dell’ordine, dicevano che quello sarebbe dovuto essere il mio ultimo giorno di vita».
Immagino lo stato d’animo.
«Stavo lavorando. Ero al giornale, mentre si moltiplicavano appelli di solidarietà in mio favore. avevo appena finito la riunione, la segreteria di redazione mi dice: “Direttore, ti vogliono al decimo piano”».
Nel palazzo di largo Fochetti era quello degli amministratori.
«Esatto. Era il giorno del primo Cda, pensai ad una qualche comunicazione burocratica».
E invece?
«Prendo l’ascensore. Mi restano impressi gli orari e i tempi».
Cioè?
«Alle 14.02 ero dentro la stanza. Alle 14.10 ero già fuori. Licenziato».
Mi pare incredibile.
(Sguardo serio. Ombra di sorriso). «È esattamente quello che è accaduto».
Se provi a guardarla da fuori, quella storia, che cosa ci dice?
«Visto quel che è successo dopo, qualche domanda me la faccio. Diciamo che non è un bel segno per il mondo dell’informazione, nel tempo che stiamo vivendo».
Diciamo qualcosa sul senso di quella giornata.
«Lasciai il giornale dopo mezzanotte. Gli uomini della mia scorta, comprensibilmente nervosi, con le pistole nella cintura. Non sono tornato al giornale mai più».
Tu non contesti il diritto di un editore di licenziare.
«Assolutamente no. Il giornale all’epoca viveva un ottimo momento, ma non vuol dire. Sei il padrone, per me della tua azienda puoi fare ciò che vuoi».
E dunque?
«Il tema è il rispetto della persona, che non può venire mai meno. Che poi è anche il rispetto del lavoro. Siccome il lavoro di un giornalista deve coincidere il più possibile con la libertà, questo è un problema».
Oggi sei un editorialista del Corriere della Sera.
«Ho trovato di nuovo casa a via Solferino, dove ho lavorato tanti anni tra Corriere e Gazzetta. È stata una bellissima opportunità, sono rinato».
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