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Letalità, contagi, efficacia dei vaccini: conoscere le varianti per non averne paura

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Illustrazione: Emanuele Fucecchi
** Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Marco Gerdol, ricercatore presso l’Università di Trieste e genetista.

Per capire cosa è una variante virale, dobbiamo capire come si replica un virus. Quando un virus entra dentro una cellula (nel caso di SARS COV 2, sfruttando la famosa proteina spike) comincia a replicarsi, ovvero a dare origine a tante copie di sé stesso. Avviene cioè che, sullo stampo di una singola molecola di RNA o di DNA del virus (nel caso di SARS Cov 2, si tratta di RNA), di questa molecola ne viene prodotta una copia identica, poi da questa copia un’altra copia, poi un’altra e poi un’altra, e così via. Attraverso questo processo, da una copia del virus se ne creano milioni.  Questo processo di replicazione deve avvenire secondo regole precise, in modo tale che la sequenza di nucleotidi (cioè la sequenza dei mattoncini che costituiscono il genoma virale) non si modifichi da un passaggio all’altro.

Talvolta però può succedere che, in questo processo, avvengano degli errori dettati dal caso (ovvero violazioni delle regole di cui sopra). Questi errori si chiamano mutazioni. Le mutazioni sono quindi piccolissimi cambiamenti nella sequenza di nucleotidi che costituiscono il DNA o l’RNA virale.

In alcuni virus, il tasso di mutazioni è alto (esempi paradigmatici il virus dell’epatite C o di HIV), in altri minore. Nel caso di SARS Cov 2, esso non è certamente uno dei virus che muta di più. E pur tuttavia, anche SARS Cov 2 accumula mutazioni. Nella maggior parte dei casi, queste mutazioni non hanno impatto né buono né cattivo: diciamo che sono neutre. Talvolta, invece, sono mutazioni deleterie per il virus e magari portano all’estinzione di quel ceppo virale, in altri casi danno dei vantaggi al virus in termini di maggiore infettività. A volte le mutazioni possono rendere un virus più letale, altre volte lo rendono invece meno letale. Quindi dire che un virus è mutato di per sé significa poco: bisogna capire che cosa comporta quella specifica mutazione.

Una volta capito cosa sono le mutazioni, possiamo ora finalmente arrivare al punto: la definizione di varianti. Le varianti di SARS Cov 2 sono dei ceppi virali che hanno accumulato una o più mutazioni rispetto al ceppo originale di Wuhan (ovvero la prima forma di SARS Cov 2 a noi nota). Capite bene che se le mutazioni sono neutre, di queste varianti non ce ne importa nulla; viceversa, se rendono il virus più contagioso e/o più letale e/o più in grado di sfuggire ai vaccini, ci possono dare molto fastidio.  

Le varianti preoccupanti

Chiarito questo, vediamo nel dettaglio le varianti più preoccupanti tra quelle ad oggi a noi note: la variante inglese, la brasiliana, la sudafricana e la variante indiana. Anzitutto precisiamo una cosa: i nomi che diamo alle varianti derivano dal posto in cui sono state isolate la prima volta ma, a differenza di quanto spesso si pensi, non necessariamente sono nate nel luogo in cui sono state scoperte. Per questo, i nomi dati alle varianti dai media sono fuorvianti e imprecisi e sarebbe più giusto riferirsi ad esse usando la notazione scientifica internazionale. Tuttavia, per semplicità e maggiore chiarezza, in questo articolo indicheremo le varianti preferenzialmente con il nome con cui sono note al grande pubblico.

Variante ingleseLa variante inglese (tecnicamente variante VOC 202012/01 lineage B 1.1.7 così andrebbe chiamata!) è stata scoperta a dicembre 2020 nell’Inghilterra meridionale ma circola con certezza almeno da settembre. E’ caratterizzata da numerose mutazioni nella regione del genoma virale che codifica per la proteina spike, cioè per quella proteina che permette al virus di entrare nella cellula, oltre che da mutazioni in altri regioni del genoma. Per capire l’espressione “regione del genoma che codifica per” dovete sapere che quando il virus è dentro la cellula infettata, a partire dal suo RNA, attraverso un processo chiamato traduzione, si ottengono delle proteine (proteina spike, enzimi vari, altre proteine) che servono al virus stesso per replicarsi, infettare sempre più cellule e fare danno. In pratica, in virtù di queste svariate mutazioni, la variante inglese è ben diversa dal ceppo originale di Wuhan. 

Quanto è diffusa la variante inglese? Ad oggi è la variante predominante in Europa e in Italia. In particolare, si stima che nel nostro Paese abbia al momento una prevalenza superiore all’80 per cento.

Perché ci preoccupa? Perché è certamente più contagiosa della variante originale in una misura che è stimata tra il 43 e il 90 per cento, come dimostrato da un importante lavoro pubblicato su Science (Davies NG, Abbott S, Barnard RC. Estimated transmissibility and impact of SARS-CoV-2 lineage B.1.1.7 in England. Science. 2021 doi: 10.1126/science.abg3055.). In virtù di ciò, il famoso parametro Rt (che indica il numero di persone mediamente contagiate da un singolo infetto) della variante inglese è più alto di quello del ceppo originario di un valore compreso tra 1.5 e 2 volte, come suggerito da uno studio pubblicato su Nature. Perché la variante inglese sia più contagiosa non è chiarissimo. Forse ha un’efficienza di replicazione maggiore, per cui nell’unità di tempo determina una carica virale maggiore e, con ogni probabilità, tanto maggiore è la carica virale tanto maggiore è, a parità di altre condizioni, la capacità di contagio. Forse il virus mutato si lega in maniera più efficace al recettore ACE 2 della proteina spike rispetto al virus originario e in questo modo entra più facilmente nelle nostre cellule. Forse sono vere entrambe queste cose o forse il motivo va ricercato altrove. In ogni caso, quel che è certo è che la variante inglese è più contagiosa del ceppo originario.

Controverso invece è se questa variante sia anche più letale. Degli scienziati inglesi, in un documento pubblicato a febbraio 2021 hanno stimato come “likely” ,ovvero probabile, il fatto che la variante inglese sia anche più letale del ceppo originario. “Likely”, nel linguaggio scientifico, vuol dire che loro attribuiscono una probabilità compresa tra il 50 e il 70 per cento che sia più letale (quindi la probabilità che non lo sia non è stimata come trascurabile, precisamente viene considerata nell’ordine del 30-50 per cento). Un lavoro pubblicato su Nature a marzo 2021 su oltre 2 milioni e 200 mila casi COVID ha poi individuato un aumento della letalità della cosiddetta variante inglese pari al 61 per cento rispetto agli altri ceppi. Detta così sembra moltissimo. Se lo valutiamo però in una prospettiva globale, l’aumento sembra molto meno drammatico: secondo questo studio, se guardiamo ad esempio nella fascia 50-59 anni il rischio assoluto di morte passa dallo 0.6 allo 0.9 per cento. Quindi aumenta certamente ma resta globalmente moderato. 

In seguito, però altri lavori scientifici hanno parzialmente ridimensionato l’allarme. In particolare, un recentissimo lavoro su Lancet Public Health del maggio 2021, che ha analizzato con grande accuratezza l’impatto clinico della variante inglese nel Regno Unito tra settembre e dicembre 2020, da un lato ha confermato la sua maggiore contagiosità, ma dall’altro ha smentito che sia più letale o che si associ ad una gravità maggiore di malattia rispetto al ceppo originario o alle altre varianti. Inoltre, questo studio non ha individuato una maggiore capacità di reinfezione da parte della variante inglese rispetto al ceppo originario. Anche un altro lavoro pubblicato su Lancet Infectious Diseases ad aprile 2021 non ha individuato una correlazione tra la variante inglese da una lato, e una maggiore letalità o una maggiore gravità di malattia dall’altro.

Quindi riassumendo: rispetto al ceppo originario, la variante inglese è sicuramente più contagiosa (su questo la letteratura scientifica è concorde) e forse -ma non sicuramente! – un po’ più letale (su questo i risultati degli studi sono contrastanti, il che nella scienza, quando ci si approccia ad un argomento nuovo, è frequentissimo e non deve spaventare, ma al contrario deve essere interpretato come uno stimolo per continuare a studiare!). Nel complesso, comunque, è chiaro che, in assenza di misure protettive, la variante inglese risulta sicuramente più pericolosa del ceppo originario

Per fortuna però abbiamo i vaccini. E tutti i vaccini, sia quelli a mRNA (Pfizer e Moderna), sia quelli basati su vettore adenovirale (Astra Zeneca e Johnson & Johnson), proteggono benissimo dalla variante inglese, seppur in misura leggermente inferiore rispetto al ceppo originario. E questo è dimostrato sia da dati real life sulle persone vaccinate sia da dati in vitro sulle capacità neutralizzanti degli anticorpi indotti dal vaccino. Quindi, se vacciniamo a spron battuto, la variante inglese non è assolutamente un problema. E la dimostrazione più tangibile di ciò è quello che sta avvenendo nel nostro Paese: grazie alla vaccinazione, si osserva un crollo delle infezioni e dei ricoveri in un momento in cui la variante inglese è assolutamente predominante, in parallelo ad una forte riduzione della mortalità da covid-19 proprio nelle fasce della popolazione più anziana, maggiormente vaccinata e dunque più protetta!

Varianti sudafricana e brasiliana – Parliamo ora di variante sudafricana e brasiliana. Qui le trattiamo insieme perché sono estremamente simili tra loro. Che cosa ne sappiamo finora? Sappiamo che, a differenza della variante inglese, per quanto riguarda la variante sudafricana (variante B.1.351) e brasiliana (variante P.1), non abbiamo ad oggi alcun dato solido pubblicato su riviste internazionali che ne suggerisca una maggiore letalità o una maggiore contagiosità. 

Perché allora le temiamo? Le temiamo perché sono immuno-evasive, cioè in grado di sfuggire almeno in parte alle difese immunitarie contro il virus (per lo meno, sono certamente in grado di sfuggire in buona misura- anche se non sempre del tutto- agli anticorpi, mentre non è escluso che altri tipi di meccanismi di difesa, come i linfociti T della memoria, possano mantenere comunque una qualche forma di efficacia contro queste varianti). La conseguenza di questa capacità di evasione, almeno parziale, alle difese immunitarie contro Sars Cov 2, è che queste due varianti, rispetto al ceppo originario e rispetto alla stessa variante inglese, in virtù di specifiche mutazioni della proteina spike che hanno in comune (in particolare una, chiamata tecnicamente E484K) sono più in grado di reinfettare soggetti già colpiti dal virus in passato e poi guariti. A tal proposito, va sottolineato il fatto che, nel corso della seconda ondata della pandemia, si sono imposte in Sudafrica e in Brasile, paesi già pesantemente colpiti durante la prima ondata, proprio perché in grado di reinfettare molti soggetti già infettati dal virus nella prima ondata e successivamente guariti. Insomma: seppure ho gli anticorpi contro il SARS Cov 2 perché mi sono già preso l’infezione e l’ho superata, se mi trovo a contatto con la variante brasiliana o la variante sudafricana, ho un rischio alto di ammalarmi di nuovo.

Quanto sono diffuse? Nel mondo ancora relativamente poco. Al di fuori del Sud Africa e dei paesi limitrofi, la variante sudafricana risulta prevalente solo in Qatar e Bangladesh, mentre quella brasiliana, al di fuori del Paese da cui prende il nome ed alcuni paesi sudamericani confinanti in cui ha preso il sopravvento, si è diffusa sì in molte nazioni, ma non è mai diventata predominante a livello globale. In Italia, in particolare, entrambe le varianti, soprattutto quella brasiliana, hanno avuto una diffusione non trascurabile, ma restano ad oggi largamente minoritarie.

I vaccini funzionano rispetto a queste varianti? Ad oggi, per quanto noto, queste varianti, proprio per le loro capacità immuno-evasive, rispetto al ceppo originario e alla variante inglese, sfuggono maggiormente ai vaccini, ma non al punto da renderli tutti inefficaci. A questo proposito, un importantissimo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine e relativo al Qatar (paese in cui la variante sudafricana è predominante), ha dimostrato in maniera inequivocabile che il vaccino Pfizer, dopo due dosi, oltre a proteggere al 90 per cento dall’infezione da variante inglese, offre una protezione del 75 per cento (quindi più bassa ma comunque ottima!) dalle infezioni da varianti sudafricana. In più- ed è questa la cosa più bella ed importante!- rispetto alle infezioni gravi, la protezione, a ciclo vaccinale completo, è superiore al 90 per cento nei confronti sia della variante inglese che della variante sudafricana.

Quindi, stando a questo studio, a due settimane dalla seconda dose del vaccino Pfizer, la probabilità di ammalarsi in modo grave per infezione da variante sudafricana è molto bassa (mentre purtroppo il rischio resta alto nell’intervallo di tempo tra la prima e la seconda dose).  Il dato- è giusto ribadirlo- riguarda esclusivamente Pfizer e la variante sudafricana e non è quindi automaticamente estensibile ad altri vaccini e alla variante brasiliana. Tuttavia, considerato che i) i vaccini Pfizer e Moderna hanno un meccanismo d’azione simile e una simile efficacia rispetto al ceppo originario, ii) che alcuni dati in vitro suggeriscono che gli anticorpi indotti dal vaccino Moderna mantengono un potere neutralizzante nei confronti della varante sudafricana (seppur ad un livello significantemente inferiore rispetto alla variante inglese) e che iii) la variante sudafricana e brasiliana sono molto simili tra loro, è ragionevole ipotizzare (anche se ad oggi non è dimostrato) che entrambi i vaccini ad mRNA oggi disponibili (Pfizer e Moderna) dopo due dosi offrano una protezione buona almeno rispetto ai casi gravi di infezione sia da variante sudafricana sia da variante brasiliana. 

Per quanto riguarda il vaccino Astra Zeneca, sappiamo che offre una protezione molto bassa, intorno al 10 per cento, rispetto ai casi lievi di variante sudafricana, ma non abbiamo dati solidi rispetto alla capacità di protezione dai casi gravi. 

Infine, per quanto riguarda l’ultimo arrivato, il vaccino Jansen di Johnson & Johnson, i dati dei trial pubblicati sul New England Journal of Medicine, hanno documentato una capacità protettiva intorno al 60 per centorispetto all’infezione da variante sudafricana (quindi una capacità protettiva buona, seppur significativamente inferiore rispetto a quella offerta nei confronti del ceppo originario). E sono stati riportati dati di efficacia simili anche nel contesto brasiliano, in un momento in cui la variante brasiliana era già prevalente.

Quindi riassumendo: le varianti sudafricana e brasiliana non sembrano più contagiose o più letali del ceppo originario e sono ad oggi minoritarie in Europa e in Italia. D’altra parte, ci destano qualche preoccupazione perché, rispetto al ceppo originario e alla variante inglese, sfuggono di più alle difese immunitarie e quindi sono maggiormente in grado di reinfettare persone già colpite dal virus; tuttavia, i vaccini (con certezza il vaccino di Pfizer, ma presumibilmente anche quello di Moderna e quello Jansen), a ciclo vaccinale completo, mantengono comunque una soddisfacente efficacia protettiva almeno rispetto ai casi gravi di infezione da queste varianti.

Variante indiana – Ultimamente i media hanno poi molto parlato (e a ragione!) di variante indiana (tecnicamente chiamata B.1.617). Più correttamente si dovrebbe parlare di varianti indiane, perché ne esistono tre, simili, ma non identiche tra loro: tra queste, una in particolare (la B.1.617.2) ha allarmato la comunità scientifica, tanto da essere recentemente classificata come variante preoccupante (tecnicamente variant of concern, VOC) sia dal Servizio Sanitario Inglese (Public Health England, PHE) sia dal Centro di Controllo delle malattie (Center for disease control, CDC) americano. Il motivo di preoccupazione per questa variante è duplice: da una parte essa possiede diverse mutazioni strategiche, che ne lasciano ipotizzare una qualche capacità immuno-evasiva (seppure quasi certamente inferiore rispetto alle varianti brasiliana e sudafricana); dall’altra, alcuni dati epidemiologici relativi all’India, ma non solo, ne suggeriscono una maggiore contagiosità rispetto al ceppo originario e forse rispetto alla stessa variante inglese. A questo proposito va segnalato che, dopo che grazie al rigido lock down e alla straordinaria campagna di vaccinazione con Pfizer e Astra Zeneca nel Regno Unito le infezioni e le morti da COVID erano crollate, quasi azzerandosi, ultimamente in quel Paese si sta assistendo ad una ripresa (per fortuna, ancora modesta) dei contagi, in particolare nelle fasce di età più giovani, in cui la percentuale di vaccinati è ancora relativamente bassa. E in questa ripresa, sembra stia giocando un ruolo rilevante proprio la variante indiana B.1.617.2, che differentemente dalla variante inglese, mostra al momento in quel contesto un Rt maggiore di 1 (come è noto, Rt maggiore di 1 vuol dire epidemia in espansione!). Non sappiamo da cosa dipenda la diffusione di questa variante indiana, se da una maggiore contagiosità intrinseca oppure da una capacità immuno-evasiva oppure da fattori epidemiologici contesto dipendenti (per esempio, legati a casi di importazione che hanno innescato poi importanti focolai all’interno di comunità giovanili ancora scarsamente protette dai vaccini) o se tutti questi fattori abbiano in sinergia giocato un ruolo. Quel che è certo è che al momento la variante, dopo essersi diffusa rapidamente in India, si sta diffondendo molto rapidamente nel Regno Unito (in alcune zone ha già superato per abbondanza la variante inglese stessa!). Per cui occorre tenere d’occhio la situazione

Quanto ai vaccini, la comunità scientifica non ha ancora definitivamente chiarito quanto essi siano efficaci rispetto alla variante indiana. Cominciano tuttavia a venire fuori dei primi dati, che suggeriscono una capacità protettiva dei vaccini ma solo a ciclo vaccinale completo. In particolare, proprio ieri è stato pubblicato uno studio su Lancet, in cui è stata testata in vitro la capacità neutralizzante degli anticorpi indotti dal vaccino Pfizer nei confronti del ceppo originario, della variante inglese, della variante sudafricana e della variante indiana B.1.617.2: ebbene, dopo due cicli di vaccinazione, gli anticorpi indotti dal vaccino mantenevano una capacità neutralizzante buona rispetto a tutte le varianti, ma per la variante indiana e sudafricana ad un livello significativamente inferiore rispetto al ceppo originario e all’inglese, e questa riduzione era evidente soprattutto per gli anticorpi prodotti dai soggetti più anziani (non si apprezzavano invece differenze nella capacità protettiva nei confronti della variante sudafricana ed indiana). Inoltre, dallo studio emergeva che gli anticorpi indotti da una singola dose di vaccino avevano un’attività neutralizzante insufficiente rispetto sia alla variante indiana che alla variante sudafricana.  Inofine, dati preliminari ricavati da uno studio che è ancora in fase di peer review (cioè è ancora in fase di revisione da parte di scienziati revisori che hanno il compito di controllarne la correttezza) e relativo ai vaccini Pfizer e Astra Zeneca, suggeriscono che una singola dose di vaccino (senza distinguere tra Pfizer e Astra Zeneca) abbia una  capacità significativamente ridotta di proteggere dalla variante indiana B.1.617.2 rispetto alla variante inglese, mentre dopo un ciclo di due dosi, l’efficacia sia di Pfizer sia di Astra Zeneca si mantiene ottima contro entrambe le varianti (risultando solo minimamente ridotta per la variante indiana). Ma appunto, trattandosi di dati preliminari, è bene prenderli con cautela e li commenteremo eventualmente nel dettaglio solo se e quando saranno pubblicati in via definitiva.

Insomma riassumendo: la variante indiana o meglio le varianti indiane con certezza presentano delle caratteristiche che ci devono far drizzare le antenne, ma non ci sono al momento elementi per pensare che possano sfuggire ai vaccini più di quanto non facciano le varianti sudafricana e brasiliana. Quindi, dal momento che con ogni probabilità i vaccini, a ciclo completo, mantengono una buona efficacia anche su di loro, non facciamoci prendere dal panico e continuiamo a studiarle.Altre varianti

Sui media avete sentito parlare di tante altre varianti, con toni spesso enfatici, ma senza motivo. Parlo delle varianti californiane, della variante svizzera, della variante spagnola e molte altre. Ecco, nessuna di queste rappresenta una variante realmente preoccupante e quindi il grande pubblico può tranquillamente dimenticarsene. La comunità scientifica sta comunque monitorando molto attentamente la situazione per identificare immediatamente l’emergenza di eventuali altre varianti che dovessero presentare delle caratteristiche tali da costituire una fonte di preoccupazione.

Perché dobbiamo vaccinare, vaccinare, vaccinare

Concludendo, il messaggio da portare a casa è: il virus Sars Cov 2, come tutti i virus, muta. E mutando, può crearci dei problemi. Ma rispetto a tutto questo, non dobbiamo perdere la testa. Non siamo in balia del virus, ma abbiamo tutti gli strumenti per difenderci. Cosa dobbiamo fare? 

  1. Anzitutto, vaccinare, vaccinare e vaccinare. I vaccini sono armi potentissime: tutti ci proteggono dalle infezioni sintomatiche (seppure in misura diversa) e tutti ci proteggono in maniera straordinaria dalle infezioni gravi e dalla morte. Si stanno poi accumulando evidenze che i vaccini (almeno quelli a mRNA) sono anche in grado di ridurre drasticamente anche le infezioni asintomatiche. Per cui vaccinando, facciamo circolare meno il virus. E meno il virus circola, meno muta. 
  2. Poi dobbiamo tracciare e sequenziare. Più abbiamo un’idea precisa di quanto l’infezione corra e di come e quanto il virus muti, più possiamo prendere delle contromisure. In Italia, quasi tutte le regioni (con le nobili eccezioni di Campania e Abruzzo) stanno sequenziando troppo poco (meno del 5 per cento dei genomi virali, che è l’obiettivo minimo che bisogna raggiungere per avere sotto controllo le varianti). Su questo dobbiamo certamente impegnarci di più.
  3. Continuare ad usare prudenza nei comportamenti quotidiani. I vaccini ci aiutano tantissimo, ma da soli non bastano. Fintanto che una grande parte della popolazione non è completamente vaccinata, dobbiamo continuare ad evitare assembramenti, soprattutto al chiuso, ed è buona norma continuare ad utilizzare la mascherina, sempre nell’ottica di ridurre la probabilità di diffondere l’infezione e di conseguenza la probabilità che si creino varianti pericolose.
  4. Nel caso in cui emergessero varianti completamente resistenti ai vaccini, dobbiamo isolare subito i focolai in modo tempestivo. E adeguare velocemente i vaccini alle nuove varianti (abbiamo la tecnologia e la competenza per farlo e si sta già lavorando in merito per mettere in sicurezza gli anziani il prossimo autunno con un richiamo, qualora si dovesse rivelare necessario!).

A tutto ciò va aggiunta un’ultima considerazione. Di fronte a una pandemia che per definizione è globale la strategia di contrasto non può che essere globale. Per cui le misure di contenimento a parità di condizioni epidemiologiche devono essere simili. E poi-cosa ancora più importante- è necessario che si proceda velocemente a garantire una copertura vaccinale massimale in tutti i Paesi del mondo, ricchi e poveri. Se non vacciniamo insieme Paesi ricchi e Paesi poveri, c’è sempre il rischio che, dopo che in Occidente tutti si sono vaccinati, in qualche villaggio dell’Africa o dell’America latina nascano varianti resistenti ai vaccini che tornano poi a bussare alla porta dell’Europa o degli USA vanificando gli sforzi fatti.

Insomma: il sovranismo non è mai la soluzione. Dai problemi non ne usciamo mai da soli, ma solo lavorando tutti assieme su scala globale.

*** Questo articolo fa parte della rubrica di TPI “Parole chiare in medicina” tenuta dal medico neurologo dell’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) Leonardo Biscetti. Apparentemente sul Covid gli scienziati dicono tutto e il contrario di tutto. Vi faremo capire che la scienza non è un’opinione. Vi spiegheremo i dati e gli studi più recenti sulla pandemia. E non solo.

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