“Io trattato come un animale in un ospedale di Roma”: la denuncia di Baryali, rifugiato afghano, a TPI
ESCLUSIVA TPI – “Appena ha letto i miei documenti, l’infermiere ha assunto un atteggiamento aggressivo. Ha iniziato a dirmi frasi del tipo ‘che vuoi qua?’, ‘non è casa tua qui’, ‘non hai nessuno diritto’. Ho avuto paura, voleva picchiarmi”.
Baryali Waiz, 28 anni, studente della John Cabot e originario dell’Afghanistan, è ancora sconvolto, ha paura di uscire di casa e mentre ci racconta cosa è accaduto la mattina di venerdì 6 giugno ha la voce spezzata, sputa le parole una dopo l’altra, quasi a volerle cancellare, quasi a voler buttare fuori tutto il suo disagio. In un tempo in cui tutto il mondo alza il pugno per dire “no” alle discriminazioni razziali, la storia di Baryali arriva proprio come un pugno nello stomaco.
“Mi hanno trattato come un animale”, ci ripete di continuo. Baryali Waiz è un ragazzo venuto da Kabul più di 11 anni fa. Fuggito da un paese in guerra, ha attraversato un viaggi lungo e tormentato per arrivare in Italia, lo avevamo raccontato in un articolo del 2018. Oggi ci ha ricontattato lui, spaventato e arrabbiato, per raccontarci cosa gli è successo.
“A Roma non ho ancora un medico di base, il mio è lontano, e venerdì avevo deciso di informarmi meglio sulla possibilità di effettuare il test per il Covid-19 prima di iniziare i nuovi corsi con studenti e persone anziane. Così sono andato alla guardia medica dell’ospedale nuovo Regina Margherita, quella disponibile anche per turisti”.
Cosa è accaduto quando sei arrivato?
Quando sono entrato non c’era nessuno, soltanto l’infermiere che prende le registrazioni e scrive i nomi in lista. La sala era vuota, ho salutato, mi sono messo seduto e ho lasciato i miei documenti. Appena l’infermiere ha letto i miei documenti ha assunto un atteggiamento ostile. Mi ha detto “che vuoi, qua che vuoi?”. Io ho risposto che non volevo niente, che avevo bisogno solo di alcune informazioni.
Poi cosa è successo?
Non c’è stato modo di farlo ragionare, mi sono presentato, ho detto che ero uno studente, che avevo diritto a chiedere informazioni. Ma niente, lui ha cominciato a urlare “Esci da qui altrimenti te meno”(ti picchio in romano). Mi spingeva, urlava e non veniva nessuno, mi ha detto tante parolacce, mi ha dato del “delinquente”. Quando sono arrivato, forse perché vestito bene, mi ha scambiato per un turista. Ma quando ha letto i documenti ha dato in escandescenze, è cambiato improvvisamente.
E tu come hai reagito?
Non avevo modo di parlare, lui ripeteva “Stai zitto”. “Qua nn è casa tua”. A un certo punto sono arrivati alcuni medici, mi hanno portato un po’ lontano per proteggermi da lui perché si era fatto molto aggressivo e voleva picchiarmi. Ho mostrato la mia tessera dalla John Cabot, ho detto che lavoro, ma i medici hanno minimizzato la cosa e mi hanno detto “vai al san Giovanni”. Sono uscito e ho cercato aiuto. Ho chiamato il 112 e sono arrivati i carabinieri.
E poi?
Quando sono arrivati i carabinieri ho consegnato i miei documenti e sono entrato con loro nella guardia medica, lì c’era ancora l’infermieri circondato da altri tre medici. Ho indicato ai carabinieri che era lui la persona che mi aveva aggredito e lui ha subito puntato il dito verso di me chiamandomi “delinquente”. Ho fatto presente che se non mi credevano potevano controllare anche i filmati delle telecamere. Io non ho fatto niente e sono stato aggredito in questo modo. I carabinieri volevano fare una mediazione, ma io ero stato pesantemente aggredito e volevo sporgere denuncia. Così mi sono recato al comando di via Garibaldi e ho raccontato l’accaduto. Non sono soddisfatto di come è stata redatta la denuncia e mi sto muovendo con dei legali e l’ufficio antidiscriminazione di Unar e di Asgi.
Qualcuno potrebbe dire che la tua è una reazione esagerata.
Quell’uomo ha cercato di picchiarmi tante volte. Sono traumatizzato da quello che è successo, ho paura anche uscire di casa. Sempre più spesso, negli uffici pubblici mi sta succedendo di aver paura di mostrare i miei documenti perché non mi trattano come una persona ma come un animale. E infatti mostro solo la tessera della John Cabot perché lì non c’è scritto da dove vengo. È normale tutto questo?
È vero che non sono italiano, ma ho diritto a vivere qui: studio alla John Cabot studio con una borsa di studio completa che ho vinto con i miei sacrifici. Sono nella lista delle preferenze della Columbia per un master a New York. Lavoro per mantenermi con un contratto regolare, vivo e lavoro qui da 11 anni, ho sempre lavorato, pagato le tasse, ho sempre avuto il contratto. Ora mi ritrovo a dovermi giustificare per dei diritti che dovrebbero essere comunque garantiti a tutti.