Taranto, bambino nato morto dopo il parto: “Le ostetriche non capivano di chi fosse il battito cardiaco che sentivano”
"L’ostetrica che mi ha fatto partorire, appena ha visto mio figlio, ha cambiato espressione. Il bambino non piangeva, lei lo scuoteva, io chiedevo cosa stesse succedendo. Nessuno mi rispondeva, nessuno mi guardava"
«L’ostetrica che mi ha fatto partorire, appena ha visto mio figlio, ha cambiato espressione. Il bambino non piangeva, lei lo scuoteva, io chiedevo cosa stesse succedendo. Nessuno mi rispondeva, nessuno mi guardava.»
Queste parole sono di Maria- che sceglie di non rendere noto il suo cognome-, e raccontano il momento della nascita silenziosa del suo bambino.
Questa storia inizia alle ore 11 del giorno 22 Gennaio 2023, quando Maria entra in travaglio e si reca all’ospedale San Pio di Castellaneta, in provincia di Taranto.
Nei corsi preparto si parla molto, alle gestanti, dell’importanza della respirazione. Maria se lo ricorda, che respirare è importantissimo, ma alle ore 14:30 non ci riesce più, così le attaccano uno strumento che agevoli l’ossigenazione.
Al compagno di Maria, preoccupa la sua difficoltà respiratoria, così decide di chiamare il loro ginecologo privato, che li rassicura.
Maria, nel frattempo, chiede di ricevere supporto al dolore ed è preoccupata ma, anche in quel caso, viene rassicurata. Il travaglio procede benissimo, le dicono. E lei si fida, non può fare altro.
Maria, alle 17:30, ricorda un tuono fortissimo, fuori pioveva. Subito dopo si rompe il cardiotocografo, lo strumento che serve a misurare i battiti del cuore fetale, che viene prontamente sostituito.
Nel frattempo, due ostetriche non riuscivano ad accordarsi su quale fosse il battito cardiaco di Maria e quale, invece, quello del bambino.
Alle 18:15 arriva il momento della sala parto. Inizia la fase espulsiva di Maria, che termina alle 19:25, con la silenziosa nascita del suo bambino, che viene portato via immediatamente.
I due genitori non avranno notizie per venti minuti, finché un pediatra entra nella sala parto in cui Maria aspetta di abbracciare suo figlio. «Mi ha dato una pacca gelida sulla spalla, e mi ha detto che il mio bambino non ce l’ha fatta», racconta.
A questo momento segue il trasferimento in sala travaglio, come un percorso al contrario, innaturale.
In quella stanza, dove Maria non riesce a rimettere insieme i frammenti della realtà che le è appena piombata addosso, entra la medica che ha seguito l’ Iter del suo parto.
«La Dottoressa» racconta il compagno di Maria, che sceglie di rimanere anonimo «ci ha domandato quanti parenti ci aspettassero fuori, perché lei era molto stanca e non ce l’avrebbe fatta ad affrontarli. Dunque ha chiesto a me di accompagnarla all’uscita. Io, invece, secondo lei ce l’avrei fatta. D’altronde avevo solo appena perso un figlio.»
La coppia ha sporto denuncia la sera stessa, ed è stata aperta un’indagine contro ignoti per omicidio. Sono trascorsi tre mesi da quel giorno, da quella tragedia, e ancora non è arrivato l’esito dell’autopsia.
Ogni volta che si scrive o si racconta delle morti in fase di parto c’è sempre qualcuno che si appella al caso e alla fatalità.
Non esiste la fatalità. Esistono le responsabilità. E la vita di un bambino che nasce è appesa alla responsabilità, prima che al cordone ombelicale.
Chissà se, mentre le due ostetriche tiravano a indovinare su quale fosse il battito cardiaco che sentivano, il cuore del figlio di Maria e il suo compagno aveva già smesso di fare rumore, per sempre.
Chissà se anche questa morte si sarebbe potuta evitare. Attendiamo l’esito dell’autopsia.