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Strage di piazza Fontana, cosa sappiamo 50 anni dopo

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Cinquanta anni dopo, per la strage di Piazza Fontana non sono stati ancora condannati ideatori, esecutori e mandanti

Strage di piazza Fontana, cosa sappiamo 50 anni dopo

Erano le 16:37 del 12 dicembre 1969 quando una bomba scoppiò nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, uccidendo diciassette persone e ferendone ottantotto.

Nelle ore successive venne ritrovato un altro ordigno inesploso nella sede dalla Banca commerciale italiana di piazza della Scala, sempre a Milano. La bomba fu fatta brillare disperdendo elementi utili alle indagini.

In un breve arco di tempo altri tre ordigni esplosero a Roma: una in via Veneto, una all’altare della Patria e una terza al museo del Risorgimento. Rimasero ferite complessivamente 17 persone.

La strage di piazza Fontana e le esplosioni ad essa collegate segnarono l’inizio della strategia della tensione e il primo di una serie di attentati terroristici – stazione di Bologna, piazza della Loggia, treno Italicus – che sconvolsero il paese.

Nonostante i processi, Piazza Fontana rimane uno degli episodi più controversi della storia italiana. Per la strage fu ingiustamente incolpato l’anarchico Giuseppe Pinelli, morto precipitando dalla finestra della questura di Milano durante gli interrogatori per la strage. Nel 2005 la Cassazione ha pronunciato una sentenza di assoluzione generalizzata degli imputati coinvolti nell’indagine sulla pista neofascista, avviata negli anni Novanta. Ma 50 anni dopo la strage cosa sappiamo su ciò che accadde?

Le prime indagini

Inizialmente le indagini si concentrarono sulla cosidetta “pista anarchica”. A essere arrestato fu ballerino anarchico Pietro Valpreda, assolto solo nel 1985 dopo tre anni di carcere. Il 15 dicembre 1969 l’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitò dal quarto piano della questura di Milano, dove era illegittimamente trattenuto, e morì.

Per la morte di Pinelli alcuni gruppi di estrema sinistra ritennero responsabile il commissario Luigi Calabresi, che fu vittima di una violenta campagna stampa e venne assassinato il 17 maggio 1972 da militanti di estrema sinistra, membri di Lotta Continua.

La “pista nera”

Le indagini si allargarono anche alla cosidetta “pista neofascista”, che coinvolse in particolare Franco Freda e Giovanni Ventura, accusati di aver compiuto la strage insieme ad altri esponenti della formazione politica di Ordine Nuovo. I due tuttavia vennero assolti in via definitiva dopo che il processo nei loro confronti fu trasferito da Milano a Roma, da Roma nuovamente a Milano, e infine a Catanzaro.

A partire dagli anni Novanta, la “pista neofascista” fu suffragata dalle dichiarazioni di alcuni pentiti , tra cui Carlo Digilio, armiere di Ordine nuovo in Triveneto e Martino Siciliano, esponente di Ordine Nuovo legato a Freda e Ventura. I pentiti raccontarono di riunioni preparatorie agli attentati, forniscono ragguagli su esplosivi e congegni utilizzati e danno informazioni sulle cellule padovane e mestrine di Ordine nuovo, oltre che sui milanesi del gruppo La Fenice.

Il processo

Nel 2000 si arrivò a un nuovo processo, che vide imputati l’esponente di Ordine nuovo Delfo Zorzi, divenuto nel frattempo un ricco imprenditore della moda in Giappone, il medico veneziano Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine nuovo, Giancarlo Rognoni, capo del gruppo milanese La Fenice, Roberto Tringali, accusato di favoreggiamento, e Carlo Digilio.

In primo grado Zorzi, Maggi e Rognoni furono condannati all’ergastolo, mentre per Digilio l’accusa cadde in prescrizione. In appello, tuttavia, Digilio non fu ritenuto credibile e Siciliano ritrattò.

Il 3 maggio 2005 la Corte di Cassazione emise una sentenza di assoluzione generalizzata nei confronti degli imputati, ma certificò che la strage di piazza Fontana fu realizzata da “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo” e “capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”. I due tuttavia non erano più giudicabili in quanto già assolti in via definitiva per gli stessi fatti.

La declassificazione

Cinquanta anni dopo, per la strage di Piazza Fontana non sono stati ancora condannati ideatori, esecutori e mandanti. Durante la scorsa legislatura è stato avviato il processo di declassificazione e pubblicazione dei documenti formati o acquisiti dalle commissioni parlamentari di inchiesta, al fine di renderli conoscibili e più facilmente consultabili. Questo procedimento sta andando avanti anche durante la legislatura in corso.

Il presidente della Camera Roberto Fico, alla vigilia del 50esimo anniversario, ha parlato di quell’evento come di “un gravissimo attacco alla nostra democrazia che, pur messa a durissima prova, seppe resistere, respingendo, senza rinunciare ai principi dello Stato di diritto, la violenza e il ricatto quale strumento di affermazione di visioni ideologiche e politiche”.

“A questa dimostrazione di forza e di dignità del Paese non corrispose purtroppo un pieno esercizio di verità: depistaggi e complicità hanno per molti anni ostacolato il lavoro della magistratura, delle forze dell’ordine e delle commissioni parlamentari di inchiesta”, ha aggiunto Fico.

“La ricostruzione storica ha ricondotto le responsabilità di quell’evento a gruppi eversivi, mossi dall’intento di promuovere in Italia una svolta autoritaria attraverso una serie di sanguinosi attentati”, ha sottolineato il presidente. “Ma mezzo secolo non è stato sufficiente per fare pienamente chiarezza anche sul piano giudiziario sui colpevoli di quella strage. Ciò è inaccettabile per le vittime, per i loro familiari, per uno Stato democratico. La diffusa aspettativa di verità e giustizia non può dunque più essere ulteriormente disattesa”.

Per ulteriori approfondimenti:

La vicenda di Piazza Fontana è stata di recente ripercorsa dal giudice istruttore Guido Salvini in un libro dal titolo emblematico: “La maledizione di Piazza Fontana”, scritto insieme ad Andrea Sceresini. In occasione dell’anniversario torna inoltre in libreria il libro intervista: “Una storia quasi soltanto mia” (uscito nel 1982 per Mondadori) che il giornalista Piero Scaramucci scrisse raccogliendo le confidenze di Licia (oggi 91 anni), vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli.

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