Quei cattivi ragazzi: Bologna, la storia di Mambro e Fioravanti e tutti i dubbi su una strage lunga 40 anni
“Bisognerebbe pigliarti a calci in culo!”. Nel 2005 ero andato a trovare Valerio Fioravanti e Francesca Mambro per un’intervista che sarebbe servita per il libro che stavo scrivendo allora, Cuori neri. Era luglio, mancava ancora qualche mese all’uscita del libro. Avevo telefonato qualche giorno prima per annunciarmi e chiedere un appuntamento, mi aveva risposto lui, con voce asettica e poche parole: “Mi spiace, noi selezioniamo molto le interviste che facciamo”. Il tono era algido, quasi sprezzante. Sembrava proprio che non volesse concedermi udienza. Ma a me quell’intervista serviva. Così avevo raccontato a Fioravanti, per sommi capi, il capitolo che avrei scritto e i contenuti più importanti di alcune delle testimonianze che avevo già raccolto su una delle storie più dimenticate e amare nella catena di sangue dei “cuori neri”: quella di Alberto Giaquinto, ragazzino del gruppo del bar del Fungo.
Lui non aveva fatto in tempo a diventare uno dei Nar, gruppo che pure già frequentava, solo perché nel 1979 era rimasto freddato dal colpo di pistola di un poliziotto durante un corteo non autorizzato (proprio nell’anniversario della strage di Acca Larentia). Fioravanti mi aveva fatto alcune domande molto dettagliate sul materiale che avevo raccolto. Adesso sembrava meno arrabbiato, e anche più curioso: “Vuoi scrivere davvero la storia di Alberto? Se scriverai la verità non farai un piacere a nessuno”. Però mi aveva dato appuntamento.
Riparto da questo primo rocambolesco incontro mentre il quarantesimo anniversario della Strage di Bologna fa emergere dalle sabbie mobili degli archivi giudiziari un appunto autografo di Licio Gelli. Lo ha pubblicato sull’Espresso un cronista serio, Paolo Biondani. L’annotazione è del venerabile maestro e capo della P2, morto nel 2015, e condannato per il depistaggio successivo alla strage. Il suo tesoriere e braccio destro era Umberto Ortolani. Queste carte segrete di Gelli, scritte di suo pugno, erano state fatte sparire dagli atti del processo per la bancarotta dell’Ambrosiano e ora sono state rese pubbliche.
Il documento più interessante è stato sequestrato al capo della P2 nel giorno del suo arresto in Svizzera, il 13 settembre 1982: c’era il numero di un conto di Ginevra, dove Gelli custodiva milioni di dollari sottratti al Banco Ambrosiano, preceduto da un’indicazione: “Bologna”. Poi ci sono delle cifre a penna. Gelli aveva annotato di suo pugno importi e nomi in codice dei beneficiari dell’operazione Bologna e i bonifici collegati: almeno cinque milioni di dollari usciti dal suo conto svizzero in date che coincidono con i giorni cruciali della pianificazione, esecuzione e successivi depistaggi della strage del 2 agosto 1980.
La sigla “Zafferano” nasconde lo storico capo dell’Ufficio affari riservati, Federico Umberto D’Amato, iscritto alla P2, che aveva incassato 850 mila dollari, secondo l’accusa, come presunto “organizzatore” della strage. Gelli riassumeva in quella notula di aver distribuito, attraverso un fiduciario (M.C.), un milione di dollari in contanti tra il 20 e 30 luglio 1980, alla vigilia della strage, e altri quattro milioni il primo settembre 1980, quando iniziano i depistaggi. Altri documenti e testimonianze – racconta Biondani – collegano questi soldi ai terroristi dei Nar, già condannati come esecutori della strage, e alle false “piste estere” create dagli ufficiali piduisti dei servizi per ostacolare le indagini sui neofascisti.
Tuttavia non tutte le strade sono dritte. Nel depistaggio per cui è stato condannato Gelli, in una valigetta fatta ritrovare su un treno, c’erano campioni di esplosivo e documenti che mettevano sulla pista delle identità coperte dietro cui si trovavano gli stessi Nar. Per convolgerli? Per bruciarli? Così, ancora una volta – come tante in questi anni – si torna a Valerio Fioravanti e Feancesca Mambro nel segno del mistero. Ecco perché non mi scorderò mai quello che è stato il mio primo contatto con la coppia più famosa nella storia del terrorismo italiano.
Ero entrato nella sede del Partito radicale di largo Argentina, mi ero annunciato ai centralinisti (che all’epoca sedevano proprio all’ingresso, ed erano un battaglione), poi mi ero arrampicato sulla scaletta del soppalco che sormonta il grande salone con i manifesti e i simboli della storia radicale, quindi ero arrivato davanti alla stanzetta di “Nessuno tocchi Caino”, dove già allora i due lavoravano in affidamento alternativo al carcere. Proprio in quel momento, Francesca Mambro era uscita dalla stanza, a passo di carica, furibonda, sibilandomi quella inverosimile battuta proprio in faccia: “Quelli come te bisognerebbe pigliarli a calci in culo…”.
Io ero allibito. La porta era rimasta aperta, e mi ero ritrovato davanti a Fioravanti. Lui era seduto, apparentemente sorridente, scuoteva la testa piano in segno di disapprovazione (nei miei confronti, ovviamente), e stava sventolando con teatrale lentezza la stampata di un articolo tratto dall’archivio della rassegna stampa della Camera dei Deputati. Un mio articolo, ovviamente, quello che aveva provocato l’ira della Mambro. Avevo preso il foglio che Fioravanti mi porgeva, incuriosito più che spaventato. Prima di allora (questa era la netta impressione se frugavo nella memoria) non avevo mai scritto una sola riga sui Nar o su loro due. Eppure adesso avevo davanti al naso il pezzo che aveva provocato una reazione tanto furente.
Non capivo se Fioravanti scherzasse o meno mentre mi diceva: “Francesca è molto impulsiva, più passionale di me, la devi scusare. Per questo, spesso, come in questo caso, ha delle reazioni che vorrei avere anche io, e che purtroppo non posso permettermi”. Cos’era quello? Il gioco del buono e del cattivo? Un test, uno scherzo, un gioco delle parti? Un rito di esame? Scorrendo la fotocopia mi ero accorto che c’erano due righe sottolineate con un tratto di penna furibondo. Mi ero completamente dimenticato di quell’articolo, ma adesso, improvvisamente, ricordavo di averlo scritto. Era uno dei tanti pezzi di cronaca di giornata nell’anniversario del 2 agosto, con dentro un virgolettato di Paolo Bolognesi, in cui il presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime ribadiva la sua posizione sulla colpevolezza dei due ex Nar nella strage di Bologna.
“Capisci perché Francesca si è arrabbiata con te?” mi diceva Fioravanti. “Io faccio il giornalista”, avevo replicato, “il mio mestiere è riportare opinioni”. Fioravanti aveva sospirato: “Riporti le solite accuse, ideologiche, senza contraddittorio, senza nessun dubbio… Per di più lo hai fatto addirittura su il Giornale. Bravo!”. Già allora sul processo di Bologna avevo una serie di dubbi (che spiegherò anche in queste pagine) e alcune opinioni che mi ero fatto incrociando la ricostruzione dei giudici con il lavoro che stavo portando avanti per Cuori neri. Ma non per questo potevo cedere il punto di fronte a una censura e a un così soave monito.
“Molto spesso”, avevo risposto, “riporto opinioni che non condivido, è il mio lavoro. Nel caso di Bolognesi, non lo so. Nel caso in cui voi accettiate di fare l’intervista, dovrò farlo sicuramente”. A questo punto la porta della stanza si era aperta di nuovo, e un’altra Francesca Mambro, molto più pacata, era rientrata dicendo: “Stai già parlando di un’intervista che non farai. Siete tutti così cazzari voi giornalisti?”. O la rabbia era sparita, o l’esame era stato superato, non lo so. Oppure era semplicemente uno stato emotivo, un modo di prendere le misure. Dopo quel giorno sarei tornato tre volte per Cuori neri, e poi ancora per lunghe trattative su diverse interviste, alcune andate a buon fine, molte altre no.
Una volta, per esempio, per una puntata di Planet 430, il programma che conducevo allora. E un’altra per un’intervista a Valerio dopo l’arresto di Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo che era stato compagno di cella di Fioravanti nel carcere di Ascoli, e che era tornato in galera dopo un terribile, duplice omicidio. Pochi mesi prima, malgrado Izzo fosse stato il suo grande accusatore, quando gli avevo chiesto di parlarne, Valerio aveva rifiutato. Il giorno in cui Izzo era stato riarrestato per quel delitto, invece, aveva deciso di rompere il silenzio, e ne aveva fatto un ritratto caustico e feroce. Quasi sempre, quando domandavo ai due se erano disposti a offrirmi una testimonianza su qualsiasi cosa, mi venivano prospettate delle condizioni molto specifiche e dettagliate: spesso non le avevo accettate io. Altrettanto spesso le avevo poste io e non le avevano accettate loro. Era una dialettica fisiologica, ma sempre faticosa.
Eppure ogni volta, a partire da quell’incontro, si erano ripetute alcune costanti. Fioravanti e la Mambro, che allora scontavano ancora la pena con vincolo di presenza presso la sede di “Nessuno tocchi Caino”, sembravano sempre agire come un organismo simbiotico, con la stessa esatta dinamica che avevo sperimentato il giorno del primo incontro. Caratterialmente opposti, ma perfettamente complementari. Se uno affondava il colpo, l’altro gli copriva le spalle, e viceversa. Se uno era duro, l’altro era conciliante. Se Francesca dava sfogo alla sua passionalità, lui rimaneva glaciale, se Fioravanti diventava intransigente, lei sfoderava una certa bonomia romana. Più che un gioco delle parti era un perfetto alternarsi di stati fisici, umorali e cognitivi.
La seconda questione ineludibile, se si parlava della Mambro e di Fioravanti, era più problematica per chiunque volesse registrare la loro testimonianza. Gli ex Nar, in questo percorso pluriennale in cui li avevo potuti osservare con attenzione, non sembravano avere altre preoccupazioni che dimostrare la loro innocenza riguardo al processo di Bologna. Era come se i venti e passa omicidi ammessi nella lotta armata sotto la sigla dei Nar fossero per loro un rosario necessario, feroce, irrevocabile e, per così dire, consegnato alla storia. Mentre per la strage del 2 agosto, ogni volta, si apriva una battaglia senza quartiere, una guerra su ogni dettaglio combattuta con scrupolo scientifico e metodo archivistico.
Leggendo la bibliografia pubblicata sulla storia del gruppo (ma anche quella che sarebbe uscita successivamente) si potevano toccare con mano gli effetti di quello scrupoloso impegno “revisionistico”. Molti giornalisti venivano avvolti, se non sedotti, in questo rapporto di dialogo e anche di “controllo”. Il libro più importante della produzione editoriale che li riguarda era (e rimane) senza ombra di dubbio, “A mano armata”, del giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi. Un libro di quelli che, una volta iniziati, non si riesce a smettere di leggere, anche se è un saggio, un testo scritto a mio parere in maniera avvincente e rigorosa. Ma che ovviamente non poteva non pagare anche un tributo alle sue due fonti primarie.
In alcuni passaggi cruciali della ricostruzione del martirologio e della loro storia, potevamo fidarci della versione fornita da Mambro-Fioravanti a Bianconi? Se, per esempio, Valerio spiegava di aver “letto” negli occhi stupiti di Roberto Scialabba (la sua prima vittima) la prova della sua innocenza solo nel momento in cui gli stava sparando, bisognava prendere per vera questa ricostruzione? Era verosimile accettare – come sostenevano loro – che l’assalto a Radio Città Futura, concluso con un incendio e con una gambizzazione collettiva, fosse nato invece come “un gesto di riconciliazione”, finché qualcosa non era andato storto producendo un effetto “indesiderato”? Non poteva certo essere Bianconi, che ovviamente in questo caso raccoglieva una memoria di parte, a fugare tali dubbi, ma leggendo le memorie e la ricostruzione che i Nar avevano affidato al suo libro non si poteva non porsi delle domande sul loro modo di ricostruire il passato di sangue che avevano alle spalle.
Un’altra biografia su Fioravanti (ma ovviamente anche sulla Mambro) era quella di Piero Corsini, giornalista della Rai formatosi alla scuola di Giovanni Minoli, autore di un libro molto simpatetico con la testimonianza dei suoi due protagonisti: “I terroristi della porta accanto”. Bianconi aveva aggiunto in una nuova edizione del suo libro un capitolo sul processo di Bologna. E Corsini aveva sposato le tesi difensive della Mambro e di Fioravanti al pari di Andrea Colombo in “Storia nera”, un libro altrettanto ricco bello e problematico. Colombo, ex giornalista de Il Manifesto, aveva lucidamente e decisamente imboccato la via dell’innocentismo per la Mambro e Fioravanti sulla strage, con il senso e la forza di chi aveva combattuto i Nar dall’altra parte della barricata negli anni di piombo, con lo spirito civile dell’ex nemico che celebra la sua politica e personale amnistia.
Al contrario, ricordo ancora benissimo che Riccardo Bocca, autore di un volume colpevolista senza se e senza ma, “Tutta un’altra strage”, rifiutò l’invito a partecipare a una puntata di Tetris – il mio programma – in cui ci sarebbe stata anche la testimonianza di Fioravanti. E ricordo ancora meglio che in quella occasione Riccardo (con cui malgrado tutto ho ottimi rapporti) mi urlò al telefono furibondo: “Non vengo perché non posso accettare di prendere parte a un programma in cui la mia voce ha la stessa legittimità di quella di due condannati per strage”. Mi sembrava sinceramente indignato. Subito dopo mi aveva avvertito con un tono che mi sembrava quasi minaccioso: “Luca, lo sai che stai diventando anche tu lo strumento inconsapevole di una manipolazione?”. E quindi aveva aggiunto: “Tu non ti chiedi come mai i Nar abbiano accettato di parlare con te, Bianconi o Colombo, e invece non abbiano voluto parlare con me?”.
Lì per lì avevo pensato che se il tono con cui si era rivolto a loro ero lo stesso con cui parlava con me, io stesso al loro posto non avrei mai accettato. E nemmeno avevo spiegato a Riccardo che il “dialogo” che lui mi imputava come una colpa era tutt’altro che facile: mentre Bocca mi parlava, mi era tornato in mente quel mio primo incontro con la Mambro che usciva furibonda dalla stanza, ma non avevo detto nulla. Capivo che Riccardo non aveva una questione personale con me, ma che quell’irritazione era per lui un obbligo di coerenza con il metodo che si era dato e le regole di ingaggio che aveva scelto. Prendere in considerazione le loro argomentazioni, per lui era già intelligenza con il nemico. Adesso – dieci anni dopo – credo che abbia perdonato il mio “tradimento”.
Ma anche questo dialogo brutale, che ci portò a non parlarci per diverso tempo, mi aiutava. L’ira di Riccardo mi spingeva comunque a pormi una domanda, e a darmi una risposta sul modo in cui avevo lavorato io. E in questi anni mi sono convinto che la complessità delle cose è anche nell’idea laica, che coltivo faticosamente dentro di me da anni, che nessun approccio talebano sia utile per spiegare gli anni di piombo, nessun dogma aiuta a capire. Se valeva per gli altri, doveva valere anche per i Nar. Ma qui devo dire perché, seguendo il filo delle mie ricerche, avevo trovato dei nodi che non si scioglievano anche nel racconto dei giudici. C’erano, infatti, dei punti di evidente incongruenza anche nel ragionamento accusatorio dei magistrati che volevano considerare i Nar come gli indubitabili autori dell’attentato (è noto che il pm di piazza Fontana, Guido Salvini, uno dei massimi esperti della storia nera, è invece convinto che siano estranei alla strage di Bologna).
In un altro anniversario del 2 agosto, nel 2005 – un appuntamento praticamente fisso della mia vita di cronista – avevo percorso buona parte del corteo con uno dei pubblici ministeri del processo, Libero Mancuso. Il disegno accusatorio che lui e i suoi colleghi avevano sostenuto era fortemente suggestivo, ma anche fortemente indiziario. Avevo letto con molta curiosità il loro dispositivo e soprattutto alcuni frammenti di ipotesi che venivano considerati come prove inconfutabili. Era stato lo stesso Mancuso a dirmi, durante quella camminata, come se fosse un fatto indubitabile: “Che i Nar abbiano compiuto la strage lo dimostra l’attentato preparatorio del giugno 1979. Quella strage mancata per un soffio, a poco più di un anno da Bologna, all’epoca era stata la prova generale della strage alla stazione, ed è oggi la prova che i Nar non avevano improvvisato nulla, ma scientificamente premeditato ogni cosa”.
Quello che Mancuso invece non poteva sapere, era che io l’attentato del 16 giugno 1979 lo conoscevo molto bene, e lo avevo studiato direttamente sulle carte per il capitolo di “Cuori neri” che raccontava la storia di Francesco Cecchin. Nulla di quello che l’ex magistrato mi diceva combaciava con le risultanze delle indagini. Alle 19.20 di quel terribile giorno, infatti, un commando dei Nar aveva fatto irruzione nei locali della sezione Pci Esquilino tirando due bombe Srcm ed esplodendo colpi di pistola calibro 7,65, lasciando due feriti sul campo e sfiorando la strage solo perché gli ordigni – per un provvidenziale effetto ottico ingannevole – erano stati lanciati contro uno specchio che era all’ingresso e non contro la platea, proprio mentre era in corso una riunione.
Qui importa poco che Fioravanti abbia raccontato a Bianconi (e anche a me nell’intervista su quel capitolo) di non aver preso parte a quell’azione e di essere stato contrario a che venisse messa in atto. Anche in questo caso, malgrado le regole non scritte dello spontaneismo armato, non mi tornava il fatto che un capo carismatico e riconosciuto come Fioravanti potesse subire (se davvero era così contrario) un gesto che i suoi camerati portavano a compimento contro la sua volontà. Ma era ancora più inverosimile quello che mi stava raccontando Mancuso: e cioè che l’attentato alla sezione del Pci fosse, “poco più di un anno prima, la prova generale della strage alla stazione”.
Ero molto stupito, perché avevo la certezza quasi matematica che quella di Mancuso fosse una grandissima superficialità, o addirittura una imperdonabile falsificazione. Infatti l’assalto all’Esquilino si svolgeva il giorno stesso della morte di Francesco Cecchin, uno dei “cuori neri” rimasti sul campo nella feroce rapsodia della guerriglia urbana nella capitale. Ne avevo scritto. Era, insomma, il più classico e spietato attentato di rappresaglia: invece, per far quadrare i conti e creare una “prova retroattiva”, veniva riscritto, decontestualizzato e stravolto da Mancuso per dimostrare una tesi precostituita. Erano diversi i tempi (una rappresaglia del giorno stesso diventava una prova generale per un crimine di un anno dopo) e soprattutto gli strumenti: cosa avevano a che vedere i colpi di pistola e le bombe Srcm (di quelle trafugate da Fioravanti durante il suo servizio militare) dell’Esquilino con l’esplosivo devastante (una miscela di 5 chili di tritolo e T4 detta “Compound B”, potenziata da 18 chili di nitroglicerina a uso civile) utilizzato dai terroristi alla stazione di Bologna? Nulla. Dal punto di vista militare era come paragonare un tiro di fionda alla deflagrazione di una bomba atomica.
Il che non toglieva nulla alla vigliaccheria e all’intento criminale di quell’attentato, sia chiaro, ma non aggiungeva niente all’indagine sulla strage. E se a questa considerazione poteva arrivare qualunque persona dotata di una minima conoscenza della storia degli anni di piombo, non si capisce come non potessero arrivarci i pm di Bologna. Il bello è che lo stesso Mancuso sembrava sorpreso dell’obiezione che gli stavo sottoponendo: “Sì, è vero, una rappresaglia… Ma una rappresaglia che prefigurava un successivo sviluppo criminale. Quello che mi dici non è incompatibile con quello che abbiamo scritto”. Mancuso stava sfilando in un corteo tra gli applausi da magistrato; solo un anno più tardi, nel 2006, sarebbe diventato assessore alla Sicurezza nella stessa città, nella prima giunta di sinistra dopo l’era Guazzaloca. Avrebbe potuto essere così popolare, se invece che alle certezze avesse lasciato spazio ai dubbi? Troppo facile rispondere di no, e constatare che la regola per cui nessun magistrato dovrebbe poter assumere incarichi o ricoprire mandati elettivi nelle stesse circoscrizioni in cui ha indagato dovrebbe essere inderogabile. Ma questa è un’altra storia.
Tuttavia, riconoscere una tesi come sbagliata non significa dover accogliere automaticamente quella opposta come vera. La parte forte dell’impianto accusatorio dei pm, riportata e assunta dal libro di Bocca, era quella che demoliva la ricostruzione fatta dai Nar della loro latitanza nel periodo precedente la strage. E qui c’erano delle zone d’ombra innegabili. Non solo perché, come diceva Fioravanti con una battuta efficace, “un latitante non può ricostruire i suoi movimenti con prove documentali perché nella latitanza ha fatto di tutto proprio per cancellare ogni traccia”. Ma perché c’erano due conti che non tornavano anche in questo sforzo difensivo degli innocentisti. Anzi: c’erano una prova a favore delle tesi innocentiste e una a favore di quelle colpevoliste che incrociavano, ancora una volta, una storia che avevo raccontato in Cuori neri.
La prima riguardava Nanni De Angelis, detto “Piccolo Attila”. De Angelis, militante di Terza posizione a Roma, giovane, alto, ribelle, ex scout, poi diventato animatore della squadra dei “Brutti” di Terza posizione nel quartiere Parioli, era stato tirato dentro la strage di Bologna, come esecutore, in uno dei più contorti percorsi pentitistici che si potessero immaginare: una ragazza, Raffaella Furiozzi, era stata arrestata nelle vicinanze del casello di Alessandria nel 1985 durante lo scontro a fuoco in cui era morto il suo compagno, Diego Macciò, un giovane militante missino. Dopo anni di reclusione, e dopo essere stata trasferita nel carcere di Paliano, dove aveva stabilito una relazione con Izzo, si era convinta a rilasciare ai magistrati una testimonianza clamorosa. Secondo le dichiarazioni di Izzo ai magistrati, la Furiozzi gli aveva raccontato che il suo ragazzo, prima di morire, le aveva rivelato che uno dei Nar, Gilberto Cavallini, gli aveva a sua volta detto che dietro la strage alla stazione c’erano i servizi e Licio Gelli e che gli esecutori materiali erano stati “i ragazzini” di Terza posizione.
Per un attimo lasciamo perdere questa impressionante catena di informazioni de relato e la valutazione se possa essere credibile o meno (il gioco del telefono senza fili con i morti è un esercizio difficile). Secondo la Furiozzi, “Diego seppe da Cavallini che Giusva e la Mambro furono presenti all’attentato del 2 agosto, riuscirono a manovrare dei ragazzini di Tp che furono gli autori materiali della collocazione dell’ordigno, avvenuta sotto la copertura di Valerio e Francesca Mambro. Ricordo con assoluta precisione e fermezza che Diego mi fece i nomi di Taddeini, Ciavardini e De Angelis, persone che non avevo mai conosciuto. Cavallini criticò quella strage e disse che Giusva era un folle perché aveva realizzato qualcosa di eccessivo”.
C’erano molte cose strane, in quella testimonianza. Intanto perché in un primo momento la Furiozzi aveva parlato solo genericamente dei “ragazzini di Tp”, e il primo a fare i nomi dei tre era stato Izzo (in seguito sostenuto dalle parole della Furiozzi). E poi perché, raccontando in Cuori neri la tragica fine di De Angelis, per esempio, avevo raccolto le testimonianze quasi unanimi di quelli che lo conoscevano e gli erano stati vicini negli ultimi giorni. Nanni era morto per i postumi di un pestaggio e di un arresto, avvenuto mentre cercava di aiutare Luigi Ciavardini, che a sua volta fuggiva dai Nar (convinto di essere stato “condannato a morte” dopo aver “bruciato” dei documenti e una macchina restando implicato in un incidente). Nanni era orgogliosamente rimasto in Terza posizione, mentre il suo ex amico del cuore era passato ai Nar, facendosi accettare con il rito di fuoco dell’”omicidio Serpico”, ovvero ammazzando, come già ricordato, l’appuntato Franco Evangelista, uno dei poliziotti più amati di Roma, proprio di fronte al liceo Giulio Cesare.
Quando Ciavardini aveva rotto con i Nar, Nanni era andato ad aiutarlo, finendo nella rete dell’arresto in piazza Barberini, dove i due erano attesi da un impressionante piano di cattura, con tanto di agenti travestiti da passanti e da netturbini. Ai magistrati di Bologna, che non si erano addentrati in questa ragnatela complessa di storie romane, le parole della Furiozzi erano sembrate una prova di colpevolezza innegabile a carico dei tre “ragazzini”. E la madre di Nanni mi aveva raccontato, con un sorriso raggelato di stupore sul viso, anche a venti anni di distanza, che nel 1986 erano arrivati i carabinieri a bussare alla sua porta per arrestare il figlio con l’accusa di strage. Questo tentativo di irruzione, però, era stato messo in atto senza sapere che Nanni all’epoca era già morto. Proprio per questo la famiglia De Angelis aveva voluto impegnarsi in una battaglia innocentista che era culminata con un proscioglimento non meno clamoroso: l’innocenza di Nanni De Angelis e Massimiliano Taddeini si era potuta provare perché gli avvocati avevano prodotto il video di una partita di rugby a cui i ragazzi avevano partecipato, proprio a ridosso della strage.
I due erano stati sollevati da ogni accusa.Ma a questo punto la domanda e il sillogismo erano inevitabili: se erano innocenti Taddeini e De Angelis, come poteva non esserlo anche Ciavardini? In questo complesso intreccio di effetti sulle testimonianze c’era in realtà un problema di ordine processuale: Ciavardini era anche l’uomo che continuava a garantire l’alibi della Mambro e di Fioravanti, visto che ha sempre detto che il giorno della strage era con loro. Quindi, anche se giudicato da un’altra Corte (il Tribunale dei minori), Ciavardini restava dentro, con l’accusa di strage, e per lui le parole di Izzo e della Furiozzi non perdevano di peso.
Anche i Nar, però, avevano i loro scheletri nell’armadio. Dove sono il giorno in cui avviene la strage? Secondo le loro stesse testimonianze, si trovano in Veneto, dove stanno rifilando le canne di alcune pistole presso un esperto balistico trovato da Cavallini. Si tratta di un camerata di sicura fiducia, che ha un soprannome vezzeggiativo: “zio Otto”. Secondo la ricostruzione che lo stesso Fioravanti ha fatto in Storia nera, il libro scritto insieme con Andrea Colombo, all’epoca lui stesso ignorava la vera identità dello “zio”. E ad accertarla sarebbe stato proprio il giudice che indagava su piazza Fontana. Salvini, infatti, aveva appurato che dietro quel soprannome si celava Carlo Digilio, testimone chiave del processo (fino a che non era stato colpito da un ictus), ex agente dei servizi americani, grande esperto di esplosivi.
Occorre fare questa digressione perché Digilio è un anello di congiunzione incredibile tra due stragi che sono separate da undici anni di distanza. Era infatti anche l’uomo che aveva fornito l’esplosivo alla cellula ordinovista veneta per la strage di piazza Fontana. Però la domanda restava, ed era inquietante. Era possibile che uno stesso uomo, in condizione, anni, rapporti umani e generazionali completamente diversi, avesse avuto, solo casualmente, un ruolo così decisivo nei rapporti con due gruppi eversivi sospettati di entrambe le stragi? Era mai possibile che Fioravanti e la Mambro andassero proprio da lui, senza sapere nulla della sua identità e del suo ruolo? Fioravanti ha risposto così: “Se avessi saputo chi era lo ‘zio Otto’ e che ruolo aveva avuto nel 1969, avrei certamente avuto dei sospetti. All’epoca, però, il suo nome non mi diceva assolutamente nulla”.
Di nuovo, quindi, questa testimonianza e il ruolo di una figura cruciale e controversa come quella di Digilio ci ponevano uno snodo decisivo e un grande enigma che riguardava il bilancio storico sull’intera esperienza della banda. I Nar, secondo i diversi punti di vista di chi li raccontava con sentimenti opposti, erano sul filo del tutto o nulla. O una banda criminale integrata tra mafia e servizi, un braccio armato assoldato per lavori sporchi al servizio di una regia occulta; oppure, nelle ricostruzioni degli interessati e dei loro difensori, un inesperto gruppo anarco-nichilista di destra radicale precipitato in una rete distruttiva e autodistruttiva.
Ancora una volta mi trovavo combattuto fra queste tesi, e portato a non credere fino in fondo a nessuna delle due. Non credevo a questo mosaico criminale in cui tutti i tasselli venivano limati uno per uno, pur di farli combaciare a forza, in modo che potessero contribuire alla dimostrazione di un teorema. Ma non credevo nemmeno alla totale inconsapevolezza ed estraneità degli ex Nar. Non era neppure casuale che nei diversi racconti forniti dalla Mambro e da Fioravanti si sbiadisse fino quasi a restare in ombra, nella banda, il ruolo di Gilberto Cavallini e Massimo Carminati: il primo, malgrado le dichiarazioni di principio, era il più anziano del gruppo, era milanese (mentre tutti gli altri erano romani) ed era proprio lui l’uomo che (come nel caso dello “zio Otto”) aveva i contatti più antichi con la galassia neofascista ante-Nar (nel 2001 gli hanno revocato i benefici di libertà perché lo hanno trovato in possesso di una pistola con matricola abrasa e proiettili!).
Il secondo, invece, aveva rapporti stretti con la banda della Magliana, al punto da custodire per conto dell’organizzazione il deposito di armi, incredibilmente nascosto negli scantinati deldella Sanità, in via Liszt, all’Eur. Gli stessi Nar ci raccontavano che “era tale la diffidenza verso tutte le infiltrazioni degli ambienti neofascisti delle generazioni che ci avevano preceduto”, che “non ci fidavamo di nessuno”, al punto da non rivolgere la parola agli esponenti di quelle storie. Eppure dei fili di collegamento alla fine c’erano. E quindi saltavano fuori i legami di Cavallini con i vecchi neofascisti, quelli di Carminati con la banda della Magliana, quelli che il gruppo aveva avuto con i vecchi arnesi dell’atlantismo stragista come lo “zio Otto”.
Solo coincidenze? Forse davvero quella banda di natural born killers era rimasta impigliata in una rete più grande, senza averne la piena consapevolezza, e adesso era costretta a negare tutto per difendersi dall’accusa di strage? Forse era stata in parte manipolata? Forse qualcuno dei Nar sapeva di più e qualcun altro di meno? Quando venivo interrogato sulla disputa fra colpevolisti e innocentisti dicevo, facendo probabilmente infuriare quelli come Bocca secondo cui le prove prodotte nel processo erano sufficienti e convincenti: “Non so se abbiano commesso la strage. Di sicuro in quel processo non ci sono le prove per inchiodarli al più feroce reato di sangue del dopoguerra italiano”. Ne ero convinto, e lo penso ancora. Se la Mambro e Fioravanti sono davvero colpevoli (cosa che alla luce di quello che sto ricordando non si può assolutamente escludere) bisognerà trovare ben altri riscontri per poterlo provare.
Detto questo, di sicuro gli ex Nar non hanno rivelato tutto quello che sanno. E confesso di aver passato molto tempo a cercare di decrittare i caratteri dei due. Francesca Mambro è una donna diretta, collerica, passionale, capace di spietatezza ma anche di slanci generosi. Fioravanti è ancora più enigmatico. Lei figlia di poliziotto con educazione ipermissina. Lui a-fascista americanizzato, ma fedele al lascito del mussolinismo affettivo trasmessogli dalla madre e vivificato dalle esperienze di militanza di strada del fratello minore Cristiano. Lei tradizionalista, lui dal punto di vista culturale “laico”. Lei cresciuta insieme ai futuri colonnelli di An, lui cresciuto nel loro disprezzo. Quando avevo pubblicato Cuori neri era accaduto un altro episodio illuminante. Avevo raccontato a Adolfo Urso: “Lo sa che negli anni Settanta l’avevano condannata a morte?”. Urso, che all’epoca era viceministro del Berlusconi bis, non aveva battuto ciglio: “Sì, so che il mio nome era nella lista di un gruppo di fiancheggiatori delle Brigate rosse”. E io: “No, era in quella dei Nar”.
Pochi giorni dopo l’uscita del mio libro la Mambro mi aveva chiamato furibonda: “Questa cosa che hai scritto non è vera, da dove l’hai tirata fuori?”. Le avevo risposto che aveva al suo fianco l’uomo che me l’aveva detto. Cioè lo stesso Fioravanti. Secondo quanto Valerio mi aveva raccontato – senza particolare enfasi – dopo la morte di Alberto Giaquinto i Nar avevano discusso l’idea di una clamorosa rappresaglia contro Urso e Fini, che da dirigenti del Fronte della gioventù avevano organizzato il corteo commemorativo della strage di Acca Larentia durante il quale Alberto era stato ucciso. La rabbia di Fioravanti era dovuta a questo: “Tutti sapevano”, ricordava lui, “che ci sarebbe scappato il morto. Ma il Msi cercava di recuperare popolarità fra i ragazzi nella lotta contro di noi. Cercavano un gesto estremo, per cinismo, e si ritrovarono con un cadavere sulla coscienza”.
Ma allora perché la Mambro si era arrabbiata, per una cosa che Fioravanti rivendicava persino in virtù di un ragionamento politico? La spiegazione era in quell’intrico di sentimenti e di storie che era la destra romana. Francesca, secondo il racconto di Valerio, si era opposta a quell’idea con tutte le sue forze, fino a far pendere la bilancia dalla sua parte: sarebbe stato un fratricidio difficile da spiegare, anche nell’ambiente della destra radicale. Un gesto così poteva essere immaginato da quelli come lui, estranei alla storia missina, ma non da lei, che – anche allora – aveva mantenuto un’amicizia con Daniela Di Sotto (all’epoca ancora moglie di Fini).
Urso mi aveva detto di più: “Io ero un ragazzo fuori sede siciliano, una domenica sì e l’altra pure andavo a mangiare la pastasciutta preparata dalla madre di Francesca, che mi voleva molto bene e mi trattava con affetto. Capisco che per la storia di Francesca un gesto come quello fosse lacerante”. E in questo aneddoto (in cui ovviamente la memoria di ognuno accentuava o smussava gli spigoli) c’era la chiave di una grande differenza fra il terrorismo nero e quello rosso, come sappiamo. Si è discusso per anni se le Br fossero o meno nell’album di famiglia della sinistra, come nella celebre espressione di Rossana Rossanda: ma, tranne il gruppo di Reggio Emilia (che proviene dalla Fgci), i brigatisti – pur essendo indubitabilmente di sinistra, e anche se molto spesso si consideravano comunisti – erano tutti cresciuti fuori dal Pci, contro il Pci.
I Nar, invece, erano (anche) una scapigliatura missina, nata come secessione ribellistica nei giorni infuocati delle sparatorie dopo i fatti di Acca Larentia e del conflitto con il partito che non voleva sottoscrivere la petizione contro il capitano Eduardo Sivori (l’uomo accusato di aver sparato a Stefano Recchioni). Fioravanti dirà di aver notato Francesca perché era l’unica del suo gruppo che aveva firmato la petizione contro l’ufficiale del carabinieri. E anche in questo caso dice una cosa che è vera in parte o, per così dire, vera in modo retroattivo, perché all’epoca la Mambro stava con un altro ragazzo. Eppure, persino nel far quadrare le cronologie sentimentali, gli ex Nar lavorano alla costruzione di un mito coerente.
Oggi quando qualcuno mi chiede: “Ma che senso avrebbe tutto questo sforzo autodifensivo, se in fondo sono già liberi?” rispondo nel modo più semplice, e cioè che lavorano per difendere la loro stessa memoria agli occhi di una figlia. Perché non c’è dubbio che sia lei la cosa a cui la Mambro e Fioravanti tengono di più, e (per chi ci crede) il loro vero unico possibile progetto di redenzione. Quando parla del suo passato, Fioravanti a tratti assume un tono di riflessione che sfiora l’autocritica. In altri casi è stato capace di dire frasi spiazzanti e brutali come questa: “Non è stata una strage di Stato: non riesco a capire perché lo Stato dovesse far saltare Bologna. Potrebbe essere stato un club di negri omosessuali o nani dello Zimbabwe. Chiunque potrebbe avere fatto la strage: prove non ce ne sono”.
Lo diceva per difendersi nel paradosso? Oppure per allontanare i sospetti dal suo gruppo? Una delle argomentazioni principe degli innocentisti (“Hanno confessato i delitti, quindi avrebbero confessato la strage”) non significa in realtà quasi nulla: se l’avessero fatta, la strage, se ne vergognerebbero, perché ammettere di aver polverizzato una bambina che non ha nessuna colpa, se non quella di trovarsi nella sala d’attesa di una stazione, è davvero molto diverso dall’ammettere di aver ucciso nella logica di una guerra per bande animata dalla furia postideologica a Roma. Anche in questo caso l’erede di questa battaglia di memoria è la figlia dei due leader dei Nar. E di certo il discorso sulla strage non esaurisce i dubbi sulla loro vicenda complessiva.
Chi erano l’uomo e la donna che avrei incontrato tante altre volte? Un giorno, sul suo blog, un giornalista con l’istinto innato della polemica come Mario Adinolfi ha scritto – proprio parlando della figlia della coppia – che trovava indecente la sola idea che i due passeggiassero per largo Argentina con una bambina per mano. Che quello era un insulto alle vittime. Cosa pensavo, io, di questo? Non ero d’accordo. E non ho mai accettato – in nessun campo – l’idea che le colpe dei padri debbano ricadere sui figli. Poi sapevo come, infilandosi con la consueta abilità negli spiragli della legislazione italiana, i due erano arrivati alle soglie della libertà. Per effetto della legge Gozzini, infatti, uno dei meccanismi fondamentali per cui un ex terrorista può accorciare la sua pena è ottenere il perdono delle vittime. Un perdono simbolico, ovviamente, ma anche burocratico, certificato da una lettera o da una prova documentale.
Per esempio, i due ex Nar avevano ricevuto in carcere, davvero come un dono del Signore, una visita della vedova di Franco Evangelista, alias Serpico. Me l’aveva raccontato lo stesso Valerio: “Una donna cattolicissima, piena di valori e di carità cristiana, che era arrivata a noi attraverso la rete dei cappellani della prigione. E che ci aveva aiutato”. Il perdono che era seguito a quell’incontro aveva prodotto un primo sconto importante per i delitti del gruppo di fuoco. Del secondo incontro ero stato, forse, protagonista involontario. Avevo infatti raccontato la storia dei coniugi Calidori. Lui (Giancarlo) nella strage di Bologna aveva perso il migliore amico, lei (Anna Di Vittorio) il fratello. I Calidori erano un caso unico: si erano conosciuti nell’obitorio della strage, si erano sposati, avevano consacrato tutta la loro esistenza al superamento del lutto e della dimensione della vendetta, si battevano da anni per istituire (e alla fine ce l’hanno fatta) una giornata della memoria. Tutte le mattine, per dire, scrivevano una lettera diversa al presidente della Repubblica, a quello della Camera e del Senato, al presidente del Consiglio.
Come tutto quello che esce dagli schemi, avevano avuto anche dei problemi, rispetto alla linea più ortodossa e intransigente dell’associazione delle vittime. Il gruppo diretto da Paolo Bolognesi vedeva di pessimo occhio l’idea di fondo che i Calidori avevano maturato sulla strage. Ma quello con loro era stato un incontro che mi aveva arricchito. Mi ospitavano nella loro casa, mi giravano la loro corrispondenza istituzional-memoriale, mi consigliavano (e spesso persino regalavano) libri da leggere sul tema del perdono, della violenza, della giustizia. L’Italia è un grande Paese – penso spesso – perché ci sono persone come loro, che con incredibile laicità hanno saputo piegare il lutto alla volontà di capire. Il giorno dopo il mio articolo sui Calidori, ero stato sorpreso da una telefonata. Indovinate di chi? Di Fioravanti, che mi aveva chiamato per chiedermi informazioni su di loro.
Quasi un anno dopo, in un articolo del Corriere della Sera firmato da Giovanni Bianconi sull’accesso alla libertà dei due, scoprivo che la scarcerazione della coppia si era avvicinata perché (dopo aver potuto dimostrare quello della vedova di Evangelista) avevano ottenuto “il perdono” dei parenti di almeno una delle vittime della strage: i Calidori. Le due famiglie si erano incontrate a fine giugno del 2008 – una cena nella casa romana dove vivono Mambro e Fioravanti –, in libertà condizionale lui, in regime di detenzione domiciliare speciale lei. Era stato davvero decisivo quell’incontro? Il primo bandolo di quella matassa sgrovigliata era stata la telefonata che mi aveva fatto Fioravanti? Sta di fatto che, a parte i dettagli, era verissima una riflessione che l’ex leader dei Nar aveva fatto su quel percorso: “I giudici che ci hanno stroncato mettendoci in carcere e sconfiggendo con la legislazione di emergenza e il pentitismo la lotta armata, sono gli stessi che poi ci hanno portato alla libertà, applicando con grande garantismo le leggi premiali”.
Nella sua visione era l’omaggio dell’esercito vincitore al nemico finalmente battuto; nella testa dei loro accusatori, la prova che venivano scarcerati, malgrado l’inverosimile collezione di ergastoli, per un patto con i poteri occulti del Paese. Di fronte a ipotesi di questo tipo, ho sempre pensato che la via più vera sia sempre la più semplice. Anche perché nessuno poteva ritenere seriamente che la “rete atlantista” potesse controllare apparati, giudici, magistrati di sorveglianza per quasi mezzo secolo, fino a garantire queste impunità agli ex terroristi. Non era biologicamente possibile, e la serietà dei magistrati dei tribunali di mezza Italia escludeva il sospetto (almeno per me) di ogni inquinamento.
Era vera, invece, un’altra cosa: la debolezza della politica aveva fatto sì che l’amnistia amministrativa italiana portasse alla libertà gli ex terroristi per una via burocratica che purtroppo non poteva avere nulla del rito civile di cui una società ha bisogno dopo il bagno di sangue di una carneficina. Ricordo le discussioni con Anna e Giancarlo Calidori, in cui i due grandi sognatori immaginavano che in questo Paese ci fosse la possibilità di una “soluzione sudafricana” al nodo della lotta armata e ai fantasmi che quella stagione continua a trascinarsi dietro: diteci tutta la verità, in cambio dell’impunità. Soluzione per nulla facile (ma sostenuta anche da studiosi e magistrati come Giovanni Fasanella e Rosario Priore), soluzione affatto assolutoria, soprattutto visti i traumi prodotti dalla via sudafricana a cui ho accennato nell’introduzione.
Ma nel 2017 arriva un altro colpo di scena: la Mambro e Fioravanti con una serie di post sposano i dubbi sollevati da un ex deputato di An, Enzo Raisi, convinto che il fratello di Anna – il suo di uno dei primi corpi ritrovati – fosse coinvolto nella strage, e che fosse un complice “di sinistra” di quelli che secondo Raisi sarebbero i veri attentatori di Bologna. I palestinesi del gruppo Carlos. Anche quest’anno Raisi rilancia la tesi della pista palestinese e annuncia: “Sarà provata quando verranno desecretate le carte dei servizi segreti”. Possibile? Per ora resta una tesi, a cui la destra e la coppia si aggrappa, come abbiamo visto nel caso dei Calidori anche con qualche terribile costo umano. Purtroppo, nel bene e nel male, la vicenda della Mambro e di Fioravanti è il simbolo incarnato di questo doppio fallimento della giustizia e della politica in Italia. Non c’è stata nessuna capacità da parte della politica di prendersi responsabilità, e l’amnistia amministrativa non ha prodotto verità.
Ci sono molte domande a cui gli ex Nar (e gli ex Br) sfuggono dicendo: “Non posso mandare in carcere qualcuno che si è rifatto una vita, sarei un delatore”. E i dei ex Nar giustificano così tutte le loro incongruenze. Pertanto la storia di questa banda armata (così sanguinaria) e la storia della “vita dopo” (così difficile da giudicare con lucidità, senza perdonismi e senza odio) resta sospesa fra due ricostruzioni taroccate: i Nar non erano un gruppo di giovani romantici sognatori e nichilisti. Non erano puri e spietati come dei cavalieri, ma probabilmente non erano nemmeno la grande agenzia omicida di tutti poteri occulti, il braccio armato consapevole di Licio Gelli. Forse sono stati in molte e pagine oscure delle pedine, e oggi riguardandosi indietro con la lucidità della loro età, faticano ad ammettere di essere stati manipolati.
Molto più spesso – penso all’incredibile numero di errori di persona nel rosario di omicidi inanellato dai Nar – i terroristi neri erano una scheggia impazzita, animata da istinti assassini, ma guidata da una logica di facilità omicida terribile e oscena. C’è gente rimasta sul selciato perché stava a una fermata di autobus e assomigliava a qualcun altro (penso a Maurizio Di Leo, il tipografo de Il Messaggero assassinato al posto del giornalista Michele Concina). E ci sono vittime dimenticate da tutti come i passanti coinvolti nelle sparatorie, o come uno degli ultimi caduti, Marco Pizzari, un ragazzo sospettato di aver denunciato De Angelis. Ma Pizzari era stato l’amico di infanzia di Ciavardini, e il suo assassinio, messo in scena dai Nar, veniva rivendicato, dal carcere, proprio dalla persona con cui aveva condiviso una parte importante della sua vita: “Preciso di non essere un pentito”, scrisse dal carcere Ciavardini, “e che Pizzari era responsabile dell’arresto mio e di De Angelis”. Una spietatezza che si può capire solo calandosi in un altro tempo. Ma che non si può giustificare mai.
Saranno gli appunti di Gelli a dirci qualcosa di più? Perché il grande maestro ha cercato di depistare le indagini, ma instradando gli inquirenti sui Nar? Rispetto a come si percepivano e si raccontavano i Nar erano molti diversi: dicevano di voler sparare a tutti gli ex avanguardisti, e a tutti gli ex Ordinivisti, che consideravano spioni o inquinati, ma poi nella loro squadra, nel giorno più drammatico della loro organizzazione, c’è Cavallini, più grande di quasi dieci anni, ex militante che li porta dall’ordinovista Digilio. È curioso invocare uno stravista come alibi per una strage. È sempre nel loro gruppo – anche se loro hanno cercato di ridimensionare il rapporto – c’era Massimo Carminati, l’uomo che crea il rapporto “tecnico” tra i Nar e la Banda della Magliana. Uno dei Nar aveva rubato una borsa di armi, e la Banda aveva rapito Paolo Aleandri, uno dei ragazzini del gruppo Costruiamo l’azione. Carminati aveva mediato così bene, che da quel momento era rimasto in rapporti. I Nar sono stati – anche – un catering omicida. E tutto questo fa parte di questa storia complessa, di cui – quasi ogni anno – salta fuori un nuovo tassello.
Di sicuro la strage di Bologna fu l’occasione in cui il partito delle stragi si liberò della sua manovalanza: tutti i militanti di destra da Terza Posizione ai Nar furono arrestati, il circo veniva chiuso dopo anni di infiltrazioni. Quando si ferma la musica, questi due ex ragazzi che all’inizio non erano stati nemmeno imputati si ritrovano la responsabilità di quella carneficina sulle spalle. Il processo ai mandanti – tutti e quattro morti – è ancora in corso. Ma forse da lì possono arrivare le ultime tessere che mancano al mosaico. Le ultime chiavi per capire se i due ex ragazzi neri sono responsabili della bomba oppure no. Oggi, se guardi negli occhi affilati di Fioravanti, quella ferocia non la trovi più. Sono occhi che assomigliano soltanto – oggi sono molto diversi – a quelli del bambino che negli anni Sessanta era protagonista della serie tv La famiglia Benvenuti.
Non sono nemmeno gli occhi delle foto segnaletiche del ricercato numero uno che predicava la guerra al sistema: ci assomigliano, ma solo per un effetto ingannevole. Sono occhi che hanno visto molte cose, e che hanno conosciuto la spietatezza. In questi occhi non cercate l’innocenza, o la redenzione, perché questo è il compito dei sacerdoti o dei santoni. E non cercate nemmeno il male, o il nemico, perché questo è l’esercizio dei moralisti e degli angeli sterminatori. Se volete cercate gli occhi del padre, se siete più inclini all’intransigenza cercate la memoria del carcere. Se potete cercate l’errore, perché è la cosa più utile per capire. Ma se oggi guardate gli occhi di Fioravanti, e ci trovate un enigma o una nube, subito dopo concedetevi questo esercizio.
Andate a cercare il sorriso di qualcuno di quelli che sono stati ammazzati dai Nar, cercate una foto sbiadita, cercate la chiave per capire dove è nata la rabbia e come si può impedire che tornino i giorni della violenza.Gli occhi di tutte le tre vite che ha attraversato fino a oggi sono e saranno per sempre impresse nello sguardo di Valerio Fioravanti, rappresentano il suo sigillo. Mentre l’immagine sfuocata e il sorriso cancellato di una di quelle vittime avrebbe potuto essere, in qualsiasi momento, il nostro. Noi o i nostri fratelli o i nostri figli. Ecco perché dedicarsi alla memoria di chi è stato spazzato via dai giorni dell’ira non è un esercizio rituale. È, almeno per me che non mi attendo salvazioni ultraterrene, il rito civile più alto che riesca a immaginarmi.