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Home » Cronaca

Il pm Tescaroli a TPI: “Sulla strage di Capaci presunti interessi esterni a Cosa nostra”

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Parla il pm che indaga sui “mandanti occulti” delle stragi: «L’uccisione di Falcone fu parte di un più ampio progetto terroristico-eversivo. Restano alcune domande senza risposta». L'intervista sul nuovo numero del settimanale The Post Internazionale - TPI, in edicola da venerdì 20 maggio

Da molti anni Luca Tescaroli, oggi procuratore aggiunto di Firenze, cerca la verità sulle stragi di mafia, incluso l’eccidio di Capaci. Il pm, che insieme al collega Luca Turco lavora all’inchiesta sui “mandanti occulti” delle stragi del ’93, aperta dalla procura fiorentina e coordinata dal procuratore capo Giuseppe Creazzo, accetta di rispondere a TPI sull’attacco costato la vita a Giovanni Falcone.

A trent’anni di distanza quali sono i risultati raggiunti?

«È stato celebrato un processo che ha consentito di individuare 38 responsabili appartenenti a Cosa nostra, condannati con sentenze definitive a seguito di un doppio verdetto della Corte di Cassazione nel 2002 e nel 2008. Ciò è stato possibile grazie al fondamentale apporto dei collaboratori di giustizia: ben 8 responsabili hanno assunto un atteggiamento di collaborazione dal 1992 al 2002».

Poi è seguito anche un altro processo.

«Sì, che ha consentito l’individuazione di 8 ulteriori responsabili, con un apporto nella fase preparatoria dell’attentato, per quanto attiene alla fornitura dell’esplosivo. Da ultimo è stato celebrato un processo nei confronti di Matteo Messina Denaro, condannato con sentenza di primo grado sia in riferimento alla strage di Capaci sia a quella di via Mariano d’Amelio, a ottobre 2020. In questo caso, la sentenza non è ancora definitiva».

Come giudica questi risultati?

«In un Paese dove le stragi rimangono a lungo avvolte dal mistero, se non senza responsabili, credo ci si trovi di fronte a un risultato di straordinaria importanza».

Cosa sappiamo sulle ragioni per cui Falcone è stato ucciso?

«Innanzitutto la ragione di vendetta per quel che Falcone aveva fatto a Palermo, dove aveva contribuito soprattutto a istruire il maxiprocesso, e a Roma, come direttore generale degli Affari penali. Poi per una prospettiva di carattere preventivo: la preoccupazione per l’attività che avrebbe potuto compiere, soprattutto nella gestione illecita degli appalti. Da ultimo è emersa anche una terza ragione».

Quale?

«La si coglie se la si colloca nel più ampio progetto terroristico-eversivo, di cui la strage di Capaci è stata una parte. Un progetto ideato nell’autunno del ’91 e che è stato sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina, riportate da un collaboratore di giustizia, Filippo Malvagna: “Bisogna fare la guerra, prima di fare la pace”».

Come si può leggere in questo quadro la strage di Capaci?

«Si colloca all’inizio di questo attacco al cuore dello Stato, che non mirava a produrre una rottura fine a se stessa, ma una cesura protesa alla creazione di nuovi equilibri e alleanze con nuovi referenti politico-istituzionali. Doveva essere una frattura costruttiva».

Lei si è occupato anche della strage dell’Addaura nell’89.

«Anche questo processo si è concluso con un duplice verdetto della Cassazione, nel 2004 e nel 2007. È stato accertato che giuridicamente si è trattato di una strage, che l’ordigno poteva esplodere, con un raggio di letalità di almeno 60 metri. È emerso che l’attentato doveva essere eseguito il 20 giugno 1989, proprio in coincidenza del bagno che Giovanni Falcone e i membri della delegazione elvetica avevano pianificato di fare. L’attentato non venne effettuato perché all’ultimo momento cambiarono programma».

Da qui l’idea che potesse esserci una talpa. Lei oggi ritiene verosimile questa ipotesi?

«Lo stesso Falcone aveva avanzato sospetti in relazione a questa condotta».

Parlò di un ispettore di polizia.

«Sì, aveva fatto anche un nome. Ma è giusto dire che quell’intuizione non ha poi trovato sviluppi processuali. Certamente quell’attentato può essere annoverato tra quelli più inquietanti che siano riconducibili a Cosa nostra».

Perché?

«Se è provata la responsabilità delle sette persone condannate (sei per strage e uno per detenzione e porto di esplosivo) appartenenti a Cosa nostra, vi sono una serie di elementi che inducono a ritenere che anche in questa strage dell’Addaura, come del resto nella strage di Capaci, vi possa essere stata una convergenza di interessi di soggetti anche esterni all’organizzazione, che hanno interagito con gli interessi preminenti dei vertici di Cosa nostra».

Lei già nel ’97 indagò sulla pista dei c.d. “mandanti occulti”, il gip archiviò.

«A Caltanissetta lavorai anche per verificare se fossero individuabili convergenze di interesse. Lo sforzo che allora venne compiuto non raggiunse risultati. Posso dirle che dal dibattimento del primo maxiprocesso, quello che portò all’individuazione di 38 responsabili, sono emersi elementi che inducono a ipotizzare che vi possa essere stata una partecipazione a livello esecutivo o ideativo anche di altri soggetti. Si tratta di spunti di indagine, come tali vanno considerati. Lasciano aperti anche degli interrogativi».

Ad esempio?

«Per esempio come mai Paolo Bellini (ex militante di Avanguardia nazionale condannato all’ergastolo ad aprile 2022 per la strage di Bologna, ndr) incontrò l’esecutore della strage di Capaci Antonino Gioè».

Che poi fu trovato impiccato in cella nel 1993.

«Esatto. Alcuni collaboratori di giustizia hanno riferito in dibattimento che Paolo Bellini instillò il proposito di colpire la Torre di Pisa. Proposito che venne elaborato e poi portò agli attentati degli anni a seguire. E poi le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè, il 29 luglio del ’93, all’indomani degli attentati nelle città di Roma e Milano del 27 e 28 luglio ’93, sono rimaste non chiarite».

Cosa resta da chiarire?

«Resta da capire perché e da chi furono manomessi alcuni supporti informatici di Giovanni Falcone. Sono stati infatti editati file dopo il giorno della strage, è stata cancellata la memoria palese dell’organizzatore elettronico, il databank Casio. Non sono state rinvenute la scheda elettronica Ram per l’espansione della memoria di questo organizzatore elettronico, e rimanevano da verificare gli incontri del collaboratore oggi deceduto Francesco Di Carlo con esponenti dei servizi segreti nel carcere di Full Sutton, che erano portatori del proposito di eliminare Falcone, e la possibile interrelazione degli stessi con la strage. Erano colloqui nel corso dei quali, secondo il collaboratore, veniva indicato da parte dello stesso Di Carlo, Gioè – che poi verrà coinvolto nell’eccidio di Capaci – come soggetto idoneo allo scopo».

Altro?

«Meritano una riflessione ulteriore la partecipazione dell’artificiere Pietro Rampulla, colui che ha procurato i telecomandi per la strage di Capaci e che aveva competenze tecniche in materia di esplosivi, ed è risultato essere un soggetto legato a estremisti di destra, come Rosario Cattafi, appartenente a Ordine Nuovo. Sul luogo teatro della strage di Capaci è stato rinvenuto un bigliettino, con l’annotazione: “Guasto numero 2 portare assistenza settore numero 2. Gus, via Selci numero 26, via Pacinotti”. C’era anche un numero di utenza cellulare in uso a un appartenente del Sisde. Poi è stato rinvenuto sul cratere di Capaci un guanto di lattice, con un’impronta genetica che potrebbe far riferimento a una donna».

In sintesi, quali sono le questioni più importanti rimaste aperte?

«La prima è quella di stabilire le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, avvenuta sostanzialmente nel medesimo luogo, a ridosso della città di Palermo, a 57 giorni di distanza dalla strage di Capaci. Poi occorre comprendere perché quella campagna stragista nel ’94 cessò. Sono i due quesiti che il processo ha sostanzialmente consegnato, e la cui risposta potrebbe consentire di colmare vuoti in ordine alla verità che sino ad oggi si è ricostruita in termini processuali e sulla base di sentenze passate in giudicato».

Di recente la Corte costituzionale ha dato altri 6 mesi al Parlamento per modificare la disciplina dell’ergastolo ostativo.

«Penso sia importante evitare che gli affiliati a Cosa nostra percepiscano che la spinta investigativa dettata a ricercare la verità non si è arenata, e che il contrasto alla criminalità organizzata è in vetta alle priorità politico-amministrative e giudiziarie del Paese. In questa prospettiva diventa decisivo varare una normativa che renda più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza, potenziando l’efficienza assistenziale del servizio di protezione e rendendo concreto il reinserimento sociale, rimodulando la normativa con tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato».

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