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Nessuno tocchi i Nar: i negazionisti di Bologna, da Delle Chiaie a Meloni

Immagine di copertina
Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale. Credit: AGF

«È una macchia che a tutti i costi dobbiamo togliere dalla nostra storia». Chi parla è un militante storico della destra radicale italiana, che ci chiede l’anonimato. Prosegue: «Sono nato negli anni Settanta, la mia storia politica nella destra è sempre stata accompagnata dall’ombra del 2 agosto». Una colpa originaria mai risolta, anzi negata.

La strage di Bologna è stata la ferita più profonda per numero di morti e per ferocia della storia italiana. Nessun Paese in Europa ha visto una strage provocata dal terrorismo interno di questa portata. 

Le radici di quell’attentato, come stanno dimostrando gli ultimi due processi contro Gilberto Cavallini e Paolo Bellini, affondano nella storia del postfascismo italiano, in quelle organizzazioni nate dal Movimento Sociale Italiano negli anni Cinquanta: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che oggi figurano ancora a pieno titolo nella destra italiana di governo. 

Fratelli d’Italia non ha mai ripudiato la figura di Pino Rauti, uno dei fondatori del Centro studi Ordine Nuovo, che come slogan aveva «Il nostro onore si chiama fedeltà», lo stesso delle SS. Nel 1969 Rauti rientrò nell’Msi, portando con sé la storia e l’ideologia del fascismo rinnovato nel dopoguerra, radicato in quella stessa ideologia che alimentava la destra eversiva. 

Dunque, Bologna per l’area erede politica dal 1947 in poi della Repubblica Sociale di Salò è sempre stata una vera ossessione. Prima per il Movimento Sociale, poi per Alleanza Nazionale e oggi per Fratelli d’Italia. L’obiettivo era ed è quello di allontanare quello spettro. 

Guerra psicologica
Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, sapeva molto bene che la stagione delle stragi era il vero ostacolo per il suo progetto politico, dopo il suo rientro in Italia, alla fine degli anni Ottanta. L’esperienza boliviana al fianco dell’ex boia di Lione Klaus Barbie e del narcodittatore Meza era terminata e il “Caccola”, come era chiamato per la sua bassa statura, iniziò a preparare meticolosamente il suo ritorno in patria. 

Viene estradato dal Venezuela nel 1987 e due anni dopo è assolto dall’accusa di strage per Bologna. Nel 1990 è di nuovo in pista, riorganizzando la sua area, entrando in contatto con pezzi dell’Msi e preparando le basi per il lancio della Lega Nazionalpopolare.

Prima dell’estradizione lavora a lungo a un progetto, chiamato “Centro neutro”: l’obiettivo – leggendo il documento sequestrato a Delle Chiaie al momento del suo arresto, un copioso dossier di una cinquantina di pagine – era quello di creare un fronte parlamentare, di opinione pubblica (attraverso i media) e giudiziario (attraverso alcuni avvocati) per cancellare la colpa della destra nelle stragi.

La strategia della tensione, da Piazza Fontana a Bologna, doveva essere attribuita esclusivamente ad apparati dello Stato più o meno deviati e doveva apparire in realtà come un complotto ordito contro la destra neofascista. In altre parole, il “Centro neutro” era un progetto estremamente articolato di disinformazione, di intossicazione dell’opinione pubblica, una vera e propria “guerra psicologica”, il campo preferito di Delle Chiaie. 

Quale fosse il risultato da ottenere lo scriveva chiaramente lui stesso: «Strappare segmenti al fronte nemico e trasformarli in canali di diffusione a nostro favore». Il “Centro neutro” doveva convincere politici, giornalisti e formatori di opinione non legati alla destra sull’innocenza del neofascismo eversivo rispetto alle stragi. 

Le relazioni – secondo quanto si legge nel documento – che erano stati avviate puntavano a gruppi politici anche progressisti. In prima fila c’era ovviamente «il settore di Ordine Nuovo nel Msi», ovvero il gruppo dei rautiani, ma accanto agli eredi della filosofia di Evola vi erano «il Partito Radicale», «l’area socialista», «l’area giornalistica» e «l’ultrasinistra». 

Nello stesso documento Delle Chiaie scriveva: «Questa fase ha dimostrato l’urgenza di costituire un “Centro neutro” in grado di amministrare i segmenti strappati al fronte nemico. Infatti, pur avendo trasformato in canali favorevoli molti di quei settori che in epoca passata avevano alzato un muro di omertà sulle nostre ragioni non siamo riusciti a coinvolgere le altre forze nell’attacco alle inchieste contro di noi». Non bastava coinvolgere la destra istituzionale, il campo andava allargato. 

Il comitato trasversale
Il 2 agosto 1994, anniversario della strage, viene presentato il comitato “E se fossero innocenti”, con l’obiettivo di promuovere un movimento di opinione a favore di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. I due Nar nel maggio di quell’anno erano stati condannati in via definitiva per la strage di Bologna, ma i legali si preparavano a ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Luigi Ciavardini doveva ancora affrontare il processo, e dunque vi era un margine di manovra, almeno a livello di opinione pubblica e parlamentare. 

I promotori del comitato provenivano in buona parte proprio da quelle aree individuate dieci anni prima da Stefano Delle Chiaie per la sua strategia del “Centro neutro”.

Tra le figure che maggiormente si spesero per i due stragisti c’erano la parlamentare dei verdi Carla Rocchi, il radicale Mimmo Pinto e l’ex esponente di Prima Linea Sergio D’Elia. Quest’ultimo è stata una figura chiave, promotore dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” che proprio in quel periodo iniziò ad accogliere come volontari – retribuiti – Mambro e Fioravanti, aiutandoli nell’ottenere permessi premio prima e la semilibertà poi. 

L’elenco dei promotori del comitato innocentista è lungo e sorprendente: la regista Liliana Cavani, monsignor Luigi Di Liegro, Oliviero Toscani, Luigi Manconi, il giornalista de Il Manifesto Andrea Colombo (ancora oggi accanito difensore degli ex esponenti dei Nar), i giornalisti Rai Giovanni Minoli e Sandro Curzi. Non mancavano, ovviamente, gli esponenti della destra, come Giulio Maceratini. 

Fu un lavoro trasversale, durato anni, portato avanti soprattutto da un gruppo di radicali. Il partito fondato da Marco Pannella aveva già da tempo aperto canali di contatto con l’area dell’estrema destra: nel programma del primo convegno della Lega Nazionalpopolare di Delle Chiaie spicca l’intervento di Mario Mellini, parlamentare e cofondatore del Partito Radicale, che diede la sua adesione: «Io spero che diventi abitudine e non susciti più meraviglia, come è avvenuto in passato, la presenza e l’attenzione che persone diverse, di forze diverse, nell’ambito di manifestazioni che esprimono novità». 

Quella novità, la Lega nata da Avanguardia Nazionale, è ancora oggi una pagina misteriosa, al centro di approfondimenti della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, che la settimana scorsa ha arrestato l’avvocato e socio di Delle Chiaie Stefano Menicacci, protagonista del progetto politico di Delle Chiaie tra il 1991 e il 1993. 

“L’ora della verità”
Quel comitato trasversale creato nel 1994 si sciolse come neve al sole negli anni successivi, quando diventava molto difficile, anche dopo il pronunciamento della Cedu, sostenere l’innocenza degli ex Nar. Ma l’area postmissina non ha mai mollato, anzi. 

Negli anni 2000, mentre era in corso il processo contro Luigi Ciavardini, un gruppo nutrito proveniente dalla destra radicale e istituzionale creò il comitato “L’ora della verità”. Nel 2005 venne organizzata una fiaccolata a Roma, con la partecipazione di qualche migliaio di militanti.

Il 2 agosto 2020, nel quarantennale della strage, lo stesso gruppo organizzò un sit-in in piazza del Popolo a Roma con lo slogan «Nessuno di noi era a Bologna». Fu un vero e proprio happening della destra neofascista, con la presenza dei principali protagonisti della lunga stagione dell’eversione nera, da Mario Merlino ad Andrea Insabato, l’esponente di Forza Nuova autore dell’attentato a Il Manifesto del 2000. In prima fila un sorridente Luigi Ciavardini, ormai libero da anni, impegnatissimo nella gestione di associazioni e cooperative d’area. 

La tesi principale sostenuta dal 2006 in poi dai negazionisti della matrice neofascista della strage di Bologna è la cosiddetta “pista palestinese”, legata all’accordo conosciuto come “Lodo Moro”. La verità, sostenevano, è all’interno di cablogrammi segreti che parlano delle minacce provenienti da organizzazioni mediorientali contro l’Italia per non aver rispettato i patti arrestando nel 1979 un esponente del Fplp. 

Nei mesi scorsi TPI ha approfondito questa ipotesi, attraverso la lettura di quei documenti citati da anni dai negazionisti, resi pubblici grazie alla direttiva di declassificazione firmata da Mario Draghi quando era presidente del Consiglio. Nulla in quei dossier può essere ricondotto, neanche indirettamente, alla strage di Bologna. Anzi. Come dimostra la lettura dei cablogrammi scambiati tra Roma e la sede Sismi a Beirut appare evidente che la trattativa proseguì fino al 1982 e che quindi la strage di Bologna non può certamente essere ritenuta una “vendetta” palestinese per l’arresto del loro uomo alla fine del 1979. Eppure, quella tesi continua ad avere tanti seguaci. 

Il negazionismo di Giorgia Giorgia Meloni, fin da quando era a capo di Azione Giovani, ha sempre mostrato perlomeno scetticismo sulla responsabilità della destra neofascista nella strage.

Il 15 ottobre 2019, mentre era in corso il processo Cavallini, la leader di Fratelli d’Italia ha twittato: «Attendiamo risposte urgenti a interrogativi inquietanti per risolvere un intrigo dai risvolti sempre più internazionali che qualcuno si ostina a considerare vicenda di terrorismo interno». Parole chiarissime, pronunciate mentre preparava il suo partito per la scalata a Palazzo Chigi, meno di quattro anni fa. 

FdI nella scorsa legislatura ha presentato il progetto di commissione parlamentare d’inchiesta «sulle connessioni del terrorismo interno e internazionale con le stragi avvenute in Italia dal 1953 al 1989 e sulle attività svolte dai servizi segreti nazionali e stranieri», dove la strage del 2 agosto viene «inserita in un contesto internazionale». Primo firmatario Federico Mollicone, oggi presidente della commissione Cultura a Montecitorio.

Un progetto di inchiesta parlamentare con un titolo analogo – il testo, nel momento in cui questo giornale va in stampa, non è ancora disponibile sul sito della Camera – è stato ripresentato nei giorni scorsi, firmato da esponenti di tutti i partiti della maggioranza.

Dunque, la strategia che punta a ricostruire una “verità” parallela e alternativa a quella ormai consolidata da quindici sentenze, gran parte delle quali definitive, non è mai terminata. Quel “Centro neutro” di Delle Chiaie sembra non essere stato mai archiviato.

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