Chi dice “no” al lavoro h24: la storia dell’atleta paralimpica Martina Caironi
Opporsi al “modello Elisabetta Franchi” non è solo una doverosa presa di posizione, ma un desiderio di cambiamento comune che non si ferma e non riguarda il genere, coinvolge in modo trasversale tutte quelle persone che non sono disposte a sacrificare qualunque cosa sull’altare del lavoro né a concepire la genitorialità come un problema da evitare. La vita non è scandita da giri di boa e nemmeno da range temporali in cui si può o non si può avere figli/coltivare sogni/realizzarsi professionalmente. C’è chi pensa, con convinzione, che la vita sia più questo.
È per questo motivo che sempre più persone continuano ad aderire alla campagna #senzagiridiboa lanciata da un gruppo di giornaliste e diventata ormai virale. Martina Caironi è un’atleta paralimpica italiana di fama internazionale, con convinzione ha deciso di metterci la faccia e farsi promotrice di questa battaglia. Trentadue anni, bergamasca di Alzano Lombardo, Martina è anche speaker e ambasciatrice nelle scuole. È una delle donne più forti nell’atletica mondiale: ha vinto l’oro paralimpico nei 100 metri a Londra nel 2012, e di nuovo a Rio de Janeiro quattro anni dopo. In Brasile è arrivato anche l’argento nel salto in lungo, a Tokyo torna a vincere due medaglie, stavolta entrambe d’argento: nei 100 metri ed un’altra nel salto in lungo. «Ho deciso di aderire perché parlare di questo tema è importante in tutti gli ambiti, quindi anche nel mio. Non si tratta nemmeno di cultura sessista, piuttosto direi “stakanovista”. Non si può accettare l’idea che il lavoro venga sempre prima, dobbiamo renderci conto, ad esempio, anche del valore che ha la maternità per la comunità. Le donne vanno supportate», racconta la campionessa a TPI. Chi pratica sport a livello agonistico è sottoposto a grandi stress e quando l’attività sportiva diventa una professione è molto frequente dover fare compromessi e rinunce, specie da donna. Lo racconta bene Caironi: «Quasi nessuna lascia che la maternità resti un evento improvviso. La carriera sportiva finisce a un certo punto e anche prima di molte altre, io sono la prima ad aver aspettato del tempo prima di fare un figlio per regolarmi in base ai quadrienni (delle Olimpiadi ndr). Tokyo è stato rimandato di un anno, il tempo tra l’una e l’altra edizione si è anche accorciato. Ho pensato di utilizzare l’intervallo e poi ricominciare.
Esistono esempi di atlete che hanno avuto figli e poi hanno ripreso più forti di prima. Ma ci vuole tempo. Nel nostro settore ci sono anche molte ginnaste che arrivano a fine carriera e solo allora pensano a fare un figlio. Però la scelta è dell’atleta, è una decisione più personale e in qualche modo libera. Nei due anni di avvicinamento all’olimpiade è un moltiplicarsi di sacrifici: alimentazione, stile di vita, divertimenti». La questione quindi non attiene solo al diventare genitori, è l’idea del lavoro “24h full time” che non può continua a resistere. «Ci dovrebbe essere un cambio legislativo e rivalutare le 8 ore giornaliere per esempio», dice Martina. «Lo spazio dedicato al tempo libero nei paesi scandinavi è già considerato, sono più avanti in questo senso e le persone stanno meglio. Qui in Italia le cose vanno in tutt’altro modo. Ho amiche che a Milano non riescono a coltivare una vita privata, per anni hanno vissuto di solo ufficio, non hanno sviluppato relazioni. Credo di essere una gran lavoratrice, ma penso che sia anche necessario staccare. Nel mio caso la vita quotidiana la gestisci da solo: ho il mio allenamento, ho un tot. di ore da dedicare al volontariato e ho ore da dedicare alle scuole, agli speech motivazionali, sono io a programmare le giornate ma questo non vuol dire che anche io non senta pressione, non tanto per le ore di allenamento, più la pressione sociale che si attiva quando vorresti essere presente a tutti gli eventi a cui ti invitano ma sai che non puoi».