Mors tua, dose mea: ecco perché lo stop a Reithera dimostra che è in atto una guerra sui vaccini
Stop a Reithera. Con un atto formale della Corte dei Conti viene fermato il vaccino italiano. La notizia viene accolta con stupore (eufemismo) dalle istituzioni coinvolte nel progetto: la regione Lazio (che aveva contribuito in fase di ricerca), il Mise e la strutturale di Invitalia (che l’avevano finanziata con un accordo di sviluppo).
Tutti attendono le motivazioni ufficiali della Corte. Fino ad allora – sul piano ufficiale, bocche cucite. Ma in off record trapelano malumori, stupore e ricostruzioni di retroscena. Di cui il più importante è questo: dal giorno delle dimissioni del Commissario Domenico Arcuri, i responsabili del progetto e della società avevano avvertito un sentimento di crescente freddezza nei loro confronti.
Lui, Arcuri, per ora tace: “Aspetta le motivazioni”, spiega la sua portavoce Laura Cremolini. E si capisce anche perché, visto che questa decisione della Corte è un attacco (neanche tanto indiretto) alle decisioni sue e di Gualtieri.
Questo in uno scenario che va raccontato per spiegare la gravità della scelta e le sue conseguenze: nel Lazio la campagna vaccinale si ferma e rallenta perché non ci sono più dosi di vaccini disponibili (e lo stesso accade in tante regioni italiane): proprio nello stesso giorno la Corte dei Conti con la sua decisione blocca i finanziamenti pubblici all’unico vaccino italiano.
Avremmo bisogno di più dosi, e di più possibilità di scelta, proprio in queste ore nel nord si redistribuiscono le dosi che arrivano dal Sud recuperato dal generale Figliuolo (per non sprecarne nessuna), ma con un gesto simile ad un harakiri, un pezzo dello Stato ferma un altro pezzo dello Stato che ha scelto di finanziare un privato su un progetto di pubblica utilità.
Dunque il risultato finale di questa scelta è che – invece di avere nuove dosi aggiuntive ad ottobre, come sarebbe accaduto dopo la fase di sperimentazione tre – l’Italia perderà tutto il lavoro di ricerca fatto fino ad oggi. Bel paradosso. Una istituzione dello stato italiano ferma l’unico vaccino italiano. La sperimentazione viene bloccata alla fase due, prima di essere conclusa, facendo sì che si rischi di perdere tutti gli investimenti messi in campo in questi mesi, lasciando a spasso i ricercatori e gli scienziati che hanno lavorato al progetto fino ad oggi.
Il fatto davvero incredibile è questo: la Corte dei Conti (che come abbiamo già detto deve ancora pubblicare le motivazioni del suo pronunciamento) non può essere intervenuta sul merito sanitario della sperimentazione in atto, perché questa competenza non le appartiene.
Quindi – date le possibilità di intervento della Corte – l’unica ipotesi è che abbia considerato illegittima, per qualsiasi motivazione, la delibera di spesa (o la modalità formale con cui quest’ultima è stata adottata). Una scelta non priva di conseguenze, nel bel mezzo di una Pandemia in cui tutti gli stati del mondo (con in testa la Germania e gli Stati Uniti) in un modo o nell’altro hanno favorito la ricerca e (giustamente) finanziato direttamente la produzione dei vaccini.
Un fatto ancora più curioso, se si pensa che il visto sul decreto relativo all’approvazione dell’accordo di sviluppo del 17 febbraio 2021 (sottoscritto al Mise, da Invitalia e da Reithera), era “volto a sostenere il programma di sviluppo industriale da realizzare presso lo stabilimento produttivo sito in Castel Romano”.
Ovvero: un intervento economico a supporto della produzione – come abbiamo visto – dell’unico vaccino di brevetto e predizione interamente nazionale. Per via di questo sostegno garantito, Reithera aveva rinunciato a cercare altro finanziatori pubblici o privati.
E non a caso questo accordo era stato salutato dall’approvazione generale nel mondo scientifico e in quello politico: “Ci abbiamo messo i soldi – ripeteva spesso soddisfatto, da ministro Roberto Gualtieri – ne sono orgoglioso. Il vaccino è già sperimentato, una volta chiusa la fase tre avremo un’arma in più per combattere il Covid”.
Ma poi – dopo la caduta di Conte – cambia il governo, cambia il ministro dell’Economia, se ne va il commissario Arcuri, in questo paese non esiste mai nessuno spirito di continuità istituzionale, il vaccino di Reithera aveva anche “il difetto” (si fa per dire) di agire per adenovirus (come AstraZeneca e Johnson & Johnson) e non per RNA messaggero: non è un vaccino “alla moda”.
Oggi nessuno dei giornali che riporta questa notizia (anche con grande enfasi) commenta in qualsiasi modo la decisione della Corte. Come se in un confitto tra istituzioni fosse difficile prendere una posizione, qualunque essa sia. Come se il finanziamento di Stato a Reithera, fosse considerato una battaglia persa, o una scelta anacronistica (come ho appena ricordato è stata presa pochi mesi fa!).
La verità è che anche questo episodio, sia pure nella sua inedita forma burocratico-giuridica ci conferma che è in atto una guerra commerciale sui vaccini, in cui forze e poteri enormi, industrie e Stati si combattono sopra la testa dei cittadini per spartirsi l’enorme torta del mercato vaccinale.
Una guerra che su sul suolo europeo – come dimostra la battaglia fra Pfizer e AstraZeneca – vale ancora di più, ed è una guerra allo stesso tempo sanitaria, economica, politica a geopolitica. L’eccezione italiana, rispetto a quello che abbiamo visto fino ad oggi è questa: per la prima volta un vaccino viene colpito da “fuoco amico”: non dal mercato, non dal autorità sanitarie, dunque, ma da un pezzo dello Stato che distrugge quello che l’altro ha fatto.
Non è una guerra pulita, non ci sono motivazioni sempre cristalline, c’è una battaglia combattuto all’ultima fiala con la concorrenza: mors tua, dose mea. E ogni commessa è parte di una guerra di egemonia in cui il vincitore non è indifferente.
Direbbe George Orwell: tutti i vaccini sono uguali. Ma alcuni sono più uguali.
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