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Scuole chiuse, non tutti gli studenti esultano: “Senza metodi alternativi, maturità a rischio”

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Intervista al rappresentante degli studenti del Liceo Cavour di Roma e al rappresentante regionale della Rete Studenti Medi sulla decisione del governo di chiudere scuole e atenei fino al 15 marzo per contenere l'epidemia di coronavirus

Scuole chiuse per due settimane, gli studenti a TPI: “Abbiamo paura che ci venga tolto il diritto allo studio”

Scuole e atenei chiusi per due settimane, a partire da domani fino al 15 marzo. È questa la misura che il governo ha annunciato dopo che il bilancio di contagi e vittime del coronavirus è aumentato e l’epidemia ha iniziato a coinvolgere regioni al di fuori della “zona rossa”. La misura riguarderà gli istituti di tutta Italia, e nella conferenza stampa tenuta insieme al premier Conte a palazzo Chigi, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha fatto sapere che provvederà a garantire un servizio pubblico anche a distanza.

La sospensione delle lezioni potrebbe essere una buona notizia per gli studenti di licei e università, eppure non tutti esultano. I ragazzi che frequentano l’ultimo anno di scuola temono che la brusca interruzione delle attività possa ostacolare la preparazione dell’esame di maturità, mentre altri sono preoccupati perché la maggior parte delle scuole non hanno i mezzi per garantire il diritto allo studio attraverso metodi alternativi d’insegnamento.

Michele Sicca è il rappresentante degli studenti del Liceo Scientifico Cavour di Roma e frequenta l’ultimo anno di scuola. Come tanti altri suoi coetanei, tra meno di quattro mesi dovrà sostenere l’esame di Stato. “La notizia ci ha colti impreparati. Ovviamente se la misura è stata presa per garantire la salute di tutti e ha senso dal punto di vista precauzionale bisogna farlo, ma bisogna anche trovare modalità per preservare il diritto allo studio e garantirci la possibilità di apprendere, anche se non possiamo recarci materialmente a scuola. Gli studenti di quinto che hanno la maturità tra meno di quattro mesi si troveranno senza professori, lezioni e la possibilità di avere una guida verso l’esame”, commenta a TPI.

“Abbiamo necessità di avere risposte sul modo in cui verrà gestito il nostro apprendimento in vista dell’esame, e ovviamente anche tutte le altre lezioni, perché tutti gli studenti hanno il diritto d’imparare”, continua. Se tra i banchi di scuola, insomma, c’è chi è contento “perché non deve studiare per il giorno dopo” e non deve preoccuparsi delle interrogazioni, passata l’euforia e dopo una riflessione più profonda gli studenti si rendono conto che qualcosa “viene loro tolta” quando si chiude la scuola.

“È vero che le nostre scuole sono luoghi dove migliaia di persone vengono a contatto l’uno con l’altro, ci sono le aule magne, i professori girano per le classi, è ovvio che se c’è un focolaio a rischio di veicolare il virus a tante persone la scuola è uno di questi”, osserva, ma spiega anche che fino a questo momento non si respirava un clima di tensione. “Nessuno è stato male. In alcuni istituti nell’ultima settimana, da quando ci sono stati i primi casi nel Lazio, qualche studente o studentessa ha deciso di non andare a lezione, qualche professoressa si è data malata perché ha paura, ma non c’è stato nessun contagio tranne la famiglia di quel ragazzo a Pomezia. Eravamo sereni”, conclude.

Per Dario Rapiti, coordinatore regionale della Rete studenti medi del Lazio, un’associazione nazionale che si occupa del diritto allo studio per gli studenti delle superiori, la sospensione dell’attività didattica e l’adozione di misure a distanza potrebbe aumentare la disparità tra gli istituti: se alcuni di questi, infatti, potrebbero essere in grado di mettere in campo strumenti alternativi, molti altri no, allargando il divario che già esiste tra scuole di serie A e serie B. “Già esistono differenze tra scuole, ora se si dovranno adottare strumenti di insegnamento a distanza molte non saranno in grado di farlo. E questo contribuirà a aumentare le disparità nella qualità dell’insegnamento”, spiega.

“Comprendiamo la necessità d’interventi precauzionali per tutelare la salute di studenti e famiglie”, dice Rapiti “ma ci sono criticità. Non possiamo immaginare di bloccare la didattica per un mese o due settimane senza ripercussioni gravi. Se ci sono scuole riiusciranno ad adottare misure adeguate sfruttando la tecnologia, il dubbio è su tutte quelle in difficoltà economiche, che si trovano in territori più complicati e con studenti meno agiati, che non hanno gli strumenti per colmare il vuoto che potrebbe crearsi”.

Secondo Rapiti, insomma, non ci si dovrebbe trovare di fronte alla scelta tra diritto alla salute e diritto all’istruzione. “Da una parte abbiamo la priorità di difendere la salute degli studenti, ma un altro elemento è quello dell’accesso all’istruzione. Questo non deve diventare una scelta out out, per cui o si chiudono tutte le scuole per due mesi e non si fa lezione o niente”, chiarisce.

“Se gli esperti e i tecnici ci dicono che la chiusura è utile per una questione di sicurezza, nessuna polemica o problema, ma bisognerà trovare modi per implementare soluzioni alternative per tutti, e fino ad oggi nessuna scuola ha messo in campo strumenti di questo tipo funzionanti. Ho la percezione in base alla mia esperienza e all’analisi del territorio che molte strutture sarebbero in difficoltà. Il Ministero ora ha il compito di trovare strumenti trasversali che preservino il diritto allo studio per tutti. Altrimenti si rischia di creare più disparità”.

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