I suicidi tra studenti che non arrivano alla laurea raccontano il disagio di una generazione schiacciata dal successo
Il modello economico-sociale basato sul merito va messo in discussione. Non è pensabile che l’unico fine sia primeggiare su tutto e tutti. Tra i giovani c’è chi si considera solo un riflesso del proprio studio o della propria professione. E chi non riesce a sostenere il peso della pressione arriva a togliersi la vita
Per decenni abbiamo subìto il mito del successo. Ci hanno detto che bisognava finire tutti gli studi nei tempi, avere voti alti per emergere, restare nei binari dei programmi educativi, fare carriera prima degli altri. Chi non era dentro al sistema, chi saltava un passaggio, chi restava indietro, era un reietto, letteralmente un emarginato. La nostra società ci ha imposto l’ideale positivo della persona di successo e ci ha fatto credere che per ottenere la felicità avremmo dovuto aspirare a quel modello, convincendoci che solo raggiungendo obiettivi ambiziosi e traguardi lontani, ci saremmo sentiti completi. Ma la felicità non deve essere uno status symbol: quello che ci rende contenti probabilmente non soddisferà le aspettative o l’approvazione sociale.
Fare in fretta, per gli altri
Riccardo Faggin è morto dopo essere finito con l’auto contro un albero, nel giorno in cui era prevista la sua laurea in Scienze infermieristiche. La famiglia e gli amici lo aspettavano a casa, per festeggiare, eppure secondo l’Università il ventiseienne non aveva passato tutti gli esami.
Non è ancora chiaro se si è trattato di un suicidio, ma la vicenda è l’ennesimo ritratto di una generazione condannata a soddisfare le aspettative sempre più alte di una società individualista e perfezionista. Molti studenti vivono una quotidiana pressione da parte delle famiglie, dei professori, dei coetanei e della collettività che li spinge a non mollare, a perseverare nello studio, a sacrificarsi, a primeggiare. E quando non riescono ad aderire a questo paradigma sociale tendono a sentirsi difettosi, sbagliati e inadeguati. Così, per compiacere gli altri, portano avanti il percorso iniziato – anche se non dà felicità e soddisfazione – per evitare di sprecare un costo (in denaro, tempo, attenzione, emozioni) che hanno dovuto sostenere, oppure cominciano a considerare l’università come una gara. Per arrivare alla laurea in fretta e dimostrare a tutti che sono i migliori.
Ma in alcuni casi, il bisogno di eccellere può rivelarsi un inferno: secondo le stime dell’Istat, ogni anno in Italia 200 ragazzi sotto i 24 anni si suicidano.
Non c’è mai una sola causa a motivare un gesto così estremo e incolpare l’università sarebbe limitante, ma la pressione sociale e l’ansia da prestazione non sono facili da reggere. Quantomeno, non per tutti.
Un messaggio dannoso
Spesso i media alimentano la competizione con articoli in cui elogiano studenti eccellenti che si laureano in anticipo mentre stanno già lavorando o che discutono la tesi in sala parto. La normalizzazione dei cosiddetti “laureati prodigio” è una narrazione che incentiva gli studenti a trasformare un’esperienza formativa in una preoccupazione angosciosa, aumentando esponenzialmente il peso delle aspettative dei genitori.
Si sta infatti radicando sempre di più l’associazione tra virtuosità, successo e sacrificio individuale: se ti sacrifichi tanto per il tuo lavoro (o studio), hai molti impegni e metti da parte il benessere per lavorare (o studiare), vali di più e meriti maggiori vittorie. Seppur sia importante impegnarsi nelle attività che si fanno, questo pensiero può portare a sviluppare una percezione sbagliata di cosa significhi davvero avere un valore, che viene misurato paragonandosi alle aspettative sociali.
La narrazione tossica e distaccata dalla realtà ci porta a pensare che il valore di ognuno sia determinato dai traguardi raggiunti, da un lavoro stabile e dai soldi ottenuti da una carriera brillante. Tutta questa tipologia di messaggi fa perdere pregevolezza al percorso universitario, che dovrebbe invece arricchire il singolo, e fa scaturire dubbi, ansie e aspettative nelle menti dei più fragili, che si paragonano a modelli inarrivabili. Una semplice bocciatura o un voto basso possono essere vissuti con terrore proprio per paura delle opinioni negative che si riceverebbero sull’operato. Un solo errore può rappresentare il fallimento.
Ma al contrario, il fallimento andrebbe normalizzato, perché fa parte della vita ed è umano. Non è un qualcosa da nascondere, che provoca imbarazzo o vergogna, quanto piuttosto una forma di esperienza da valorizzare culturalmente. La società dovrebbe aiutare le persone ad elaborare i propri insuccessi e prenderli come punto di partenza per imparare qualcosa di nuovo. L’ossessione dell’esame perfetto e della vittoria a ogni costo non sono più paradigmi sostenibili e morire per una manciata di crediti non è accettabile.
La meritocrazia che non c’è
La società nella quale viviamo ci vuole efficienti: se non sei produttivo, non esisti. Chi non ha un’alta performance nello studio e nel lavoro, viene criticato. Punito se non ce la fa. Premiato se ci riesce. Il fallimento non è contemplato e viene così vissuto come una colpa, perché se per farcela basta impegnarsi, chi non ce la fa è responsabile del suo male: non si è impegnato quanto avrebbe dovuto.
Ma come si fanno ad attribuire successi e fallimenti al singolo, se mancano meritocrazia e pari opportunità? Le condizioni familiari, culturali ed economiche di partenza, non sono uguali per tutti.
Affermare che chiunque ce la può fare se lo vuole davvero è un modo per colpevolizzare chi non vuole o non riesce ad aderire a un modello economico e sociale basato sull’esaltazione della produttività e del profitto. Per questo non si può pensare di valutare una persona solo sulla base del proprio curriculum e delle esperienze formative a cui ha avuto accesso. Inoltre, è importante ricordare che non esiste uno standard di successo, le persone hanno obiettivi e sogni diversi tra loro e il modello economico entro il quale vivono non è un modello di vita universale e di riconoscimento sociale a cui aspirare.
Richieste di aiuto psicologico
La vita dello studente universitario è una fase di grande riorganizzazione a livello di esperienze e identità. In questi anni si affrontano molteplici cambiamenti personali, familiari e sociali che in molti casi necessitano di servizi di supporto psicologico, difficilmente fruibili da chi non gode di disponibilità economiche. Per cui, il più delle volte, lo studente che vive una situazione di fragilità, non sa come e a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Durante la pandemia da Covid-19 è peggiorato lo stato generale di benessere mentale a causa dell’isolamento forzato e secondo i dati raccolti dall’Istituto Piepoli per il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (Cnop) c’è stato un aumento significativo dei pazienti in terapia, in particolare tra le fasce più giovani: del 31 per cento fra i minori di 18 anni e del 36 per cento tra i 18-24 anni, per poi a scendere al 25 per cento per i 25-34. L’Università, quindi, in quanto istituzione, ha un ruolo fondamentale nell’intervenire in queste situazioni. Per questo è necessario che diventi luogo di promozione del benessere di studenti e studentesse, fornendo spazi di ascolto e strumenti per lavorare sulle competenze nel riconoscere, gestire e comunicare le proprie emozioni.