ESCLUSIVO TPI – “Controlli mai fatti in 25 anni”: lo scandalo dell’impianto Eni in Basilicata
Nel Centro Olio Val d’Agri, il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale, i sopralluoghi dell’ArpaB hanno evidenziato difformità nelle linee interrate e nella gestione dei rifiuti. Ma 17 anni di violazioni sono già prescritti. L'inchiesta sul nuovo numero del settimanale di TPI, The Post Internazionale, in edicola da venerdì 21 gennaio
La si può raccontare in molti modi: Davide contro Golia, un sistema più realista del re, il classico “tiriamo a campare che poi ci penseranno quelli dopo”. Ma alla fine il punto non cambia: nessuno fino a dicembre – per paura, per quieto vivere, per non ostacolare un grande business – si è mai azzardato a fare qualche verifica. La storia è questa: da un lato Eni, multinazionale a maggioranza statale, dall’altro migliaia di segnalazioni, comitati spontanei di cittadini che fanno da megafono a disagi quotidiani, documentari per condividere la frustrazione che deriva quantomeno dal dubbio che qualcosa non vada. Nel mezzo, 25 anni di vuoto. Perché esattamente per 25 anni, da quando cioè è nato l’impianto Cova, nessuno ha mai controllato a fondo la cittadella industriale che si fregia di essere «il più grande giacimento di petrolio onshore dell’Europa occidentale». Il marchio del proprietario è il cane nero a sei zampe, il suo indirizzo porta in Basilicata, dove Viggiano, 3.300 abitanti in tutto in Val d’Agri, è ormai diventato il Texas italiano.
Il direttore generale dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Basilicata (ArpaB), l’avvocato Antonio Tisci, se ne è accorto poco dopo aver preso posto nel suo ufficio. A ottobre 2020, ha alzato la mano e chiesto di visionare le relazioni delle precedenti ispezioni integrate eseguite su quell’area. Il lavoro è stato rapidissimo: non ce n’era neppure una. Ecco perché tutte le segnalazioni dei comitati e dei cittadini non hanno mai avuto riscontro: il riscontro, quello fatto di dati, di rilievi e di misurazioni dei cosiddetti “livelli zero”, ovvero dei parametri che descrivono un andamento corretto di tutti i meccanismi, non c’è mai stato.
17 anni in prescrizione
«Lo so, sembra una barzelletta ma purtroppo non lo è: l’ArpaB non aveva mai svolto un controllo integrato allo stabilimento Eni, dal 1996 in avanti non era cioè stato verificato il rispetto delle prescrizioni sancite all’interno dell’Autorizzazione integrata ambientale dell’impianto – conferma Tisci -. Nell’arco di due mesi, il tempo di creare la squadra da inviare sul campo con la collaborazione dell’Arpa Lombardia, ho acquisito la documentazione dall’azienda e avviato l’ispezione, perché è importante dimostrare ai cittadini che un presidio a tutela di ambiente e salute non solo deve esistere, ma esiste: siamo noi». Il mandato, a quel punto, è chiaro: verificare tutte le matrici (acqua, aria e suolo) nell’arco temporale del triennio. Del resto, «ogni cosa eventualmente accaduta prima di quella data, sarebbe prescritta». Diciassette anni prescritti a scatola chiusa, dunque.
Un anno di lavoro, con sopralluoghi e campionamenti eseguiti in contraddittorio con i rappresentanti dell’iconico marchio del cane a sei zampe. E alla fine – nonostante «rotto il ghiaccio iniziale, la società abbia collaborato» – un paniere di criticità da segnalare e da correggere c’è. L’iter non è concluso: Eni ha ancora l’opportunità di controdedurre alle segnalazioni dell’ArpaB, ma le difformità sono state notate e suddivise in sei filoni: linee interrate (dove in alcuni casi “la percentuale di controllo è pari a 0 per cento o comunque molto inferiore al 100 per cento”), gestione dei rifiuti, serbatoi, vasche, camini ed emissioni sonore.
L’oro della Madonna Nera
Se si parla con chi vive a Viggiano (in provincia di Potenza), la prima informazione che ti dà è che il Centro Olio più grande d’Italia è stato realizzato «sulla traiettoria della Madonna»: è la Madonna Nera, patrona della Basilicata. Lì, esattamente su quella rotta – neanche fosse stato calcolato al millimetro – sta la titanica macchia grigia incastrata nel verde di boschi e colli: annunciata da un rumore costante in sottofondo e dall’odore con il retrogusto di gas e zolfo consente al Paese di estrarre circa il 71 per cento della produzione complessiva di petrolio e il 14 per cento di quella del gas.
«Abbiamo eseguito il primo monitoraggio dello zero acustico nell’area di Viggiano per avere il delta e poter così verificare anche l’inquinamento sonoro: per riuscirci, abbiamo dovuto imporre ad Eni di bloccare l’attività per qualche giorno», spiega il direttore a TPI. «Solo in questo modo, d’ora in poi, quando ci troveremo davanti alle segnalazioni saremo in grado di attribuire o di escludere la responsabilità dei disagi dei cittadini alla centrale». Durante i controlli, però, è accaduto anche altro. I professionisti dell’Arpa hanno scoperto nel Cova (acronimo di Centro Olio Val d’Agri) nuove condotte sotterranee, “autostrade interrate” differenti rispetto a quelle dichiarate dal gestore. In alcuni casi, poi, i tubi erano forati e i carotaggi eseguiti hanno fatto emergere la contaminazione del terreno. A cosa servono queste linee? Nel Centro il gas viene separato dalla parte liquida, quindi viene compresso e convogliato nella rete distributiva della Società nazionale metanodotti (Snam), una società di infrastrutture energetiche con sede a San Donato Milanese che si occupa di trasporto, stoccaggio e rigassificazione del metano. Il greggio, una volta stabilizzato e stoccato, viaggia attraverso un oleodotto sdraiato lungo 136 chilometri e arriva a Taranto, spesso pronto a ripartire in direzione Turchia. Per rendere possibile tutto questo, Viggiano è attraversato da una ragnatela sotterranea di tubi che affluiscono dai pozzi (nel paese ne sono concentrati venti sui 27 complessivi che puntellano la Val d’Agri) verso il Cova: stiamo parlando di circa 4 milioni di metri cubi di gas. Tradotto: più o meno 75mila barili di petrolio. Al giorno. Così la piccola Basilicata, con il suo giacimento terrestre di oro nero, copre tra l’8 e il 10 per cento del fabbisogno nazionale.
Fumi scuri nell’aria
Le ciminiere del Centro Olio sputano fumi neri. L’ArpaB lo ha notato, i camini non sono risultati conformi alle direttive: le dimensioni stesse delle piattaforme e l’area di lavoro non sono adeguate a un’azienda che dovrebbe effettuare i campionamenti. Sul fronte emissioni, poi, qualcosa è andato storto: il limite massimo di SO2 (anidride solforosa o biossido di zolfo, un gas dall’odore irritante, che ricorda un po’ quello delle uova marce) nel 2019 è stato superato, arrivando a farne uscire 17.190 kg in dodici mesi. A rendersene conto e a denunciarlo, prima che scoccasse l’ispezione integrata, sono state le organizzazioni Re:Common e Source International, che hanno analizzato la qualità dell’aria di Viggiano e di Grumento Nova tra luglio e agosto 2020: l’area è quella circostante allo stabilimento, dove lavorano in 3.500 fra operai e tecnici. L’obiettivo era non lasciare inascoltate le preoccupazioni dei cittadini rispetto ai rischi ambientali legati all’esposizione alle sostanze emesse. L’epilogo: in prossimità del Cova, la media giornaliera dei composti organici volatili (Covt) supererebbe i 250 microgrammi per metro cubo d’aria. Valori, quelli rilevati dalla stazione posizionata a circa 500 metri dall’impianto, paragonabili a quelli di Pechino e Nuova Delhi, tra le metropoli più inquinate del pianeta. In questo caso ci si riferisce in particolare a idrocarburi non metanici (Nmhc) originati dai processi produttivi, dai serbatoi di stoccaggio, dai gasdotti, dalle aree di scarico e dalle torce. Alcune di queste sostanze sono classificate come cancerogene o come potenzialmente cancerogene per l’uomo dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc).
«È evidente che nel momento in cui gli enti non forniscono informazioni dettagliate si crei sfiducia. Le associazioni – riconosce Tisci – negli anni passati hanno coperto un vuoto, ma ora ArpaB c’è». Come? Inaugurando un presidio fisso nel comprensorio lucano: in questo modo, il ritmo produttivo del Centro Olio sarà «accompagnato da un controllo più diretto e costante delle emissioni così da fornire risposte alla comunità: questo – ricorda il direttore – era un impegno che avevo assunto con i sindaci, ora ci sono un laboratorio e un mezzo dedicati al monitoraggio ambientale intorno al Cova».
Il business petrolifero
L’enorme giro d’affari attorno al business delle trivelle spiega come mai, nei fatti, al petrolio intendano rinunciare in pochi. Basti pensare che solo nel 2021 – alla data del 30 giugno – Eni ha versato 55,5 milioni di royalty (compensazioni) di cui 32,6 alla Regione Basilicata, 17,1 allo Stato e 5,8 ai sei Comuni interessati dalle attività petrolifere. Tutto questo solo per la produzione relativa al 2020. Complessivamente, tra il 1996 e il 2021, in joint-venture con Shell, il marchio del cane a sei zampe ha versato alla Regione e ai Comuni 2,035 miliardi di euro. Ma sulla Basilicata sta per arrivare una nuova cascata di denaro petrolifero sulla scia del nuovo accordo decennale siglato alla fine di maggio: non solo nel portafoglio pubblico entreranno tra i 120 e i 140 milioni l’anno per l’estrazione di greggio, metano e Gpl dai giacimenti, ma alle royalty di legge andranno a sommarsi tra i 60 e i 70 milioni l’anno (fino a 700 milioni nel decennio) di compensazioni aggiuntive. Una cifra sei o sette volte più alta rispetto all’intesa di vent’anni fa, scaduta a ottobre 2019: basti pensare che l’insieme fra royalty di legge e nuove compensazioni portano a un assegno di oltre 200 milioni di euro. Da moltiplicare per dieci anni.
Del resto, a Viggiano e dintorni l’oro nero sgorga nervoso, insinuandosi nelle sorgenti, anche quando non lo cerchi: succede, ad esempio, nel bosco alle spalle della cittadina di Tramutola, scavalcato il campo sportivo, oltre gli spiazzi in cui a Pasquetta le famiglie si organizzano per i picnic. E in molti hanno avuto o hanno a che fare col petrolio: c’è chi ha preso soldi per un pezzo di terra espropriato, chi viene arruolato per lavori occasionali, chi ha trovato il posto fisso. Senza contare che le cifre a disposizione della Regione vengono in parte utilizzate per finanziare lo stato sociale: sanità, borse di studio universitarie, forestazione, sconti sulle bollette, fondi di garanzia per le imprese.
Da qualche tempo la percezione è però cambiata: una parte del paese ha capito il prezzo ambientale che sta pagando. Sì, le cittadine beneficiano di royalty ma i residenti denunciano sempre più gli effetti collaterali più sgradevoli: il rumore, specie di notte quando la quotidianità tace, le esalazioni che disturbano, la moria di carpe nei laghi. Tisci lo dice chiaramente: «Insieme ad Ispra e all’Università di Torino abbiamo avviato uno studio sui valori di fondo del terreno, ma si sarebbe dovuto svolgere molto prima, quando è nato l’impianto estrattivo. Se i controlli fossero stati eseguiti prima, molti danni non si sarebbero forse verificati perché la società avrebbe potuto ottemperare. Certo, all’ArpaB ci sentiamo un po’ come se fossimo Davide contro Golia: Eni è una multinazionale statale». Agendo prima forse si sarebbe potuto evitare, ad esempio, lo sversamento (involontario, ma ugualmente nocivo) dell’aprile 2017, quando il petrolio fuoriuscito a causa delle perdite dai serbatoi di stoccaggio ha contaminato il reticolo idrografico che fornisce acqua a oltre 35mila ettari di terreno. O forse si sarebbe potuto evitare che il sottosuolo fosse avvelenato dal triclorometano, un solvente clorurato cancerogeno riscontrato, nella zona del Cova, «in quantità 100 volte superiore al limite normativo». Ora, stando a un documento dell’Ufficio prevenzione e controllo ambientale della Regione – fa sapere Legambiente, presente al processo in corso a Potenza a carico di Eni – nell’area del Centro ci sarebbero «sorgenti primarie di contaminazione ancora attive». Sorgenti che, a questo punto, si dovrebbero riuscire a stanare. Forse.
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