“Tamponi impossibili, protocolli violati: perché non mi fido più della Sanità lombarda”: la lettera di una caposala arrabbiata
La Sanità della Lombardia e l’emergenza Coronavirus: lettera di una caposala arrabbiata
Riceviamo e pubblichiamo integralmente di seguito la lettera di una coordinatrice infermieristica (ex caposala) che opera in Lombardia e lancia dure accuse contro la gestione sanitaria, politica e istituzionale dell’emergenza Coronavirus.
La lettera integrale
Buonasera,
non riesco più a contenere la rabbia e la frustrazione che sto (stiamo) vivendo. Sono un coordinatore infermieristico, sa, una di quelle che ha sempre pensato che la nostra sanità della Lombardia fosse davvero eccellente, una secchiona, una che rispetta e difende le regole e le norme. Ho vissuto l’avvento della legge regionale n.23 del 2015 con il suo ben noto taglio dei posti letto ospedalieri, con la sicura convinzione che ciò avrebbe prodotto un’attenzione nuova e necessaria alle esigenze sanitarie del territorio, dei suoi anziani, dei disabili e di tutti coloro che in ospedale “non ci dovrebbero andare”. Giuro, e ora me ne vergogno, che ci credevo!
Io mi occupo della gestione del personale infermieristico ed ausiliario in residenze per anziane religiose (assimilabili ad RSA) e in comunità psichiatriche accreditate. Servizi territoriali che, per qualcuno, contano meno di zero ma che curano moltissime persone. Lavoro impegnativo ma che adoro.
Dall’inizio dell’emergenza abbiamo avuto enormi difficoltà, partendo dal reperimento di introvabili DPI, passando attraverso un’ecatombe di morti, una moltitudine di colleghi malati e la totale assenza delle istituzioni (inutili le continue telefonate in ATS, gli scritti al sindaco o all’assessore dei servizi sociali).
Coordino circa 108 sanitari e non: se ne sono ammalati, alcuni seriamente, circa la metà. Abbiamo faticato a garantire l’assistenza minima, abbiamo sudato e pianto, tantissimo. Tamponi effettuati ad oggi: 5, elemosinati ad ATS per mezzo di “conoscenze”, ed effettuati dalla sottoscritta, niente di più.
“Guardiamo avanti” mi disse una dottoressa del servizio di sorveglianza sanitaria, “ormai quel che è stato è stato, pensiamo al futuro”!!! Non mi soffermo sulla gravità di tale affermazione ma mi voglio qui soffermare a descriverle due casi rappresentativi di questo “futuro” che ormai è qui, oggi.
1. Una collega si ammala giorni fa. Il MAP (medico di base), sostituto del sostituto, non sa come comportarsi e si limita a darle antibiotico e 7 giorni di prognosi. Io, visti i sintomi, mi allarmo, avviso la direzione sanitaria, faccio richiamare il medico di base (che dovrebbe segnalare il caso sospetto in ATS). Nulla, il vuoto. Il giorno successivo chiamo ATS e mi dicono che contatteranno tale dottoressa. Un altro giorno passa e nulla. Il mercoledì richiamo e mi dicono di sentire il medico del lavoro che ovviamente non ha alcuna credenziale d’accesso (mai fornita da ATS) per accedere alla piattaforma di segnalazione. Passa ancora un giorno, chiamo la collega, che ancora non sta bene e le dico, a questo punto, di recarsi in pronto soccorso, in accordo con il suo medico. Il venerdì lo fa e dopo diversi esami esce con la diagnosi di “polmonite interstiziale in fase di remissione”. Le fanno il tampone in pronto soccorso, tampone di cui, ancora oggi, non si sa l’esito. Specifico che la collega lavora in comunità con 20 pazienti psichiatrici e altrettanti operatori (le lascio immaginare il clima…). Nessuna quarantena “ufficiale”, nessuna sorveglianza, niente di niente (la invito a leggere la delibera della regione del 7 maggio, completamente disattesa).
2. Il giorno 11 u.s. ATS comunica un elenco di colleghi a cui effettuare esame sierologico. Ci organizziamo e gli esami vengono effettuati il 12 maggio. Gli esiti arrivano 8 giorni dopo. Alcune colleghe sono ovviamente positive (essendo state contagiate due mesi fa) e, per normativa, sono obbligate a non presentarsi più in servizio fino all’esecuzione del tampone. ATS scrive testualmente sul referto: “Fra QUALCHE GIORNO, verrà contattato telefonicamente da un nostro operatore, che FISSERÀ la data per il tampone…”. Ora noi siamo nell’assurda situazione in cui fatichiamo a garantire i servizi assistenziali perché costretti a lasciare a casa (non è dato sapere per quanto tempo) personale a cui due mesi fa nulla è stato fatto, che si è ammalato, è guarito, ha fatto già una quarantena e che prevedibilmente sarebbe risultato positivo agli anticorpi. Non sarebbe stato meglio provvedere contestualmente al sierologico all’esecuzione del tampone? O comunque, persone che hanno lavorato, sofferto e temuto per la loro incolumità per assistere i loro pazienti, non avrebbero almeno diritto di fare IMMEDIATAMENTE un tampone che li possa scagionare da una nuova quarantena??? Possibile che siamo ancora a questi livelli dopo 3 mesi da Codogno?
Possibile che si debba ricorrere alle “conoscenze” per farsi ascoltare? Possibile che siamo “eroi” solo se timbriamo il cartellino in silenzio? Ora gli esami li fanno anche a noi sul territorio (il buco nero della nostra sanità) perché prima altrimenti avrebbero dovuto chiudere tutti i servizi? (Sono infatti convinta che in troppi saremmo risultati positivi ai tamponi se li avessero fatti a marzo, come risulteremmo tutti positivi se facessero-a tutti-i sierologici oggi).
Amo il mio lavoro ma così è veramente assurdo… prima l’emergenza era sanitaria e non mi sono mai tirata indietro, ora però la vera emergenza è politico-istituzionale e questo mi annienta. È una guerra contro i mulini a vento, molto peggiore della guerra al covid-19…molto peggiore. Come possiamo lavorare per un sistema sanitario di cui non ci fidiamo più? Come possiamo fidarci di chi non ci tutela e non tutela i più fragili? Come possiamo “pensare al futuro?
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