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Home » Cronaca

“Ditemi perché mio figlio è morto durante il parto in casa”

Immagine di copertina
Pixabay

Voleva far nascere il suo bambino in casa. Ma dopo 30 ore di travaglio il piccolo è deceduto. La madre spiega a TPI perché ha denunciato le ostetriche che erano presenti: “Storie così non devono ripetersi”

Un neonato è morto dopo 30 ore di travaglio durante un parto in casa. È successo a Rimini, lo scorso 5 novembre. L’avvocato Piero Venturi, che rappresenta i genitori protagonisti della vicenda, ha sporto querela per omicidio colposo, lesioni colpose e falso ideologico in atto pubblico, chiedendo di sospendere in via cautelare dall’esercizio della professione le due ostetriche che ha seguito il parto.

Su questa faccenda, caratterizzata da connotati opachi oltre che drammatici, ci sarebbe molto da dire. I genitori del bambino raccontano che le due ostetriche a cui era stato affidato il parto a domicilio, una 45enne di Faenza e una 27enne di Rimini, hanno opposto resistenza alle richieste della coppia di andare in ospedale, sopraggiunte durante un travaglio durato quasi due giorni.

Si rivolgevano alla gestante con frasi come «Puoi farcela, noi ci crediamo», oppure «Ormai è troppo tardi, le colleghe ci darebbero delle incapaci», o ancora «Cosa credi, che in ospedale soffri meno?».

«La madre, vista l’insistenza delle professioniste a cui era stata affidata la responsabilità di una vita, non ha potuto fare altro che fidarsi», racconta a TPI l’avvocato, «così ha proseguito il doloroso travaglio in casa per 30 ore, un tempo lunghissimo e ben oltre la consueta soglia».

«Tutti i tentativi delle ostetriche di avviare il parto attraverso manovre fisiche, scale e sessioni di squat si sono rivelati vani. Così, all’alba del giorno dopo, le due hanno acconsentito alle richieste dei genitori di recarsi in ospedale ma si sono rifiutate di chiamare l’ambulanza, scelta decisamente incongrua, visto che si poteva già toccare la testa del bambino. I due genitori, pertanto, hanno raggiunto l’ospedale in macchina, da soli».

A quel punto, però, era troppo tardi: l’ospedale ha rilevato l’assenza del battito cardiaco fetale. Il bambino era morto. «Ulteriore opacità si riscontra nella questione del diario clinico, che le ostetriche, per dimenticanza, non hanno prontamente consegnato all’ospedale come da prassi, compilandone un altro in un secondo momento, dichiarando il falso su elementi macroscopici. L’orario di inizio dilatazione, ad esempio, sul documento è posticipato di sette ore».

«Noi siamo determinati a far luce sulle circostanze poco chiare attorno a questa drammatica vicenda», continua l’avvocato, «l’ipotesi è che la causa del decesso del bambino sia direttamente riconducibile al procrastinare delle ostetriche che hanno bloccato il bambino nel condotto uterino troppo a lungo, e che un intervento tempestivo, unito all’aver intercettato in tempo i segnali di allarme, avrebbe cambiato le sorti di questa famiglia».

Mentre si attende l’esito delle indagini, le due ostetriche proseguono la loro attività anche sui social. «Il giorno dopo la morte di nostro figlio, una delle due ha ripreso indisturbata la sua attività sui suoi canali social. Gli stessi su cui aveva pubblicato le foto del mio travaglio senza il mio consenso, mentre io e mio figlio ci trovavamo tra la vita e la morte. Materiale accuratamente rimosso, appena ha saputo che mio figlio, a tutto questo, non è sopravvissuto», racconta la madre del bambino a TPI.

«Noi vogliamo far luce sull’accaduto, abbiamo il diritto di sapere perché nostro figlio è morto, e vogliamo che il dolore che ci portiamo addosso non debba pesare sui corpi di altri genitori. Intendiamo andare avanti in questa battaglia per la verità, farci portavoce di altre vittime e diffondere consapevolezza sugli operati di alcune ostetriche, affinché storie come queste non si ripetano mai più. Affinché il nostro dolore possa salvare almeno una vita».

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