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Milano, storica sentenza per i diritti dei rider: “Cittadini, non schiavi. Vanno assunti in 60mila”

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Uber Eats Credits: ANSA

“La schiavitù” deve finire”, afferma il procuratore capo Francesco Greco. E per migliaia di rider si apre la prospettiva concreta di un’assunzione come co.co.co. Oltre “60mila lavoratori” di società di food delivery, ossia Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo, dovranno essere assunti dalle aziende come “lavoratori coordinati e continuativi”, passare cioè da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati.

È una delle prescrizioni contenute nella sentenza storica della Procura di Milano alle aziende, con sanzioni per 733 milioni di euro, dopo gli ccertamenti durati quasi un anno che si sono allargati a tutta Italia e hanno consentito di “escludere in maniera tassativa“, secondo i pm, che i ciclofattorini siano davvero lavoratori autonomi, liberi di scegliere se e quando dare la propria disponibilità alle piattaforme. Così ora Uber Eats, Foodinho (che in Italia distribuisce per conto di Glovo), JustEat e Deliveroo hanno 90 giorni di tempo per inquadrare gli attuali collaboratori occasionali come cococo. Con le relative coperture previdenziali, la malattia, le ferie, i congedi, l’indennità di malattia, la disoccupazione e il Tfr.

Le indagini condotte dai carabinieri del nucleo Tutela Lavoro con il supporto di Inps e Inail hanno verificato caso per caso il reale inquadramento dei fattorini – per la maggior parte “migranti ma con un regolare permesso di soggiorno”, come ha sottolineato il procuratore Francesco Greco – e il tipo di organizzazione a cui devono sottostare, oltre alle tutele garantite.

Quello che è emerso è un rapporto di lavoro subordinato in tutto e per tutto, anche se il committente è l’algoritmo contenuto nell’applicazione digitale preinstallata sullo smartphone. Nemmeno la scelta degli orari di fatto è libera, visto che il meccanismo del “ranking” assegnato a ogni rider penalizza chi prende dei giorni liberi, si ammala o sceglie orari poco interessanti per le aziende, facendolo scendere in fondo alla classifica. Con il rischio di perdere il lavoro. Lo stesso accade a chi è troppo lento o non accetta tutti gli ordini. Non solo: tutto il rischio di impresa, incluso l’obbligo di risarcire i clienti in caso di mancata consegna dei pasti, è in capo ai lavoratori. Per non parlare della costante geolocalizzazione.

Le prove raccolte mostrano insomma che quello delle società di delivery, scrive la Procura, è un “sistema” che “si fonda su una pressione continua sul lavoratore, il quale non può sottrarsi per evitare di essere retrocesso o addirittura espulso dal sistema e quindi di non poter più lavorare”. Non sussiste affatto, almeno per i 60mila le cui storie sono state verificate nell’ambito dell’indagine, la presunta autonomia che è da sempre il mantra delle piattaforme. Dunque inquadrare questi lavoratori come autonomi configura una “situazione di illegalità palese“, come ha sottolineato la pm Siciliano. Eppure proprio intorno a quel presupposto Assodelivery ha costruito lo scorso anno un contratto collettivo, firmato dal solo sindacato Ugl, che nei fatti legittima il cottimo. Contratto poi disconosciuto da JustEat che ha appena avviato l’iter per assumere i fattorini con contratto subordinato.

Il cottimo non sarà più un’opzione: le piattaforme hanno tre mesi per adeguarsi alle prescrizioni che sono state impartite, altrimenti partiranno i decreti ingiuntivi. La prima prescrizione ha carattere amministrativo: i verbali di Inps, Inail e Ispettorato del lavoro impongono di procedere alla riqualificazione contrattuale del rapporto di lavoro da prestazione autonoma a rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sulla base dell’articolo 2 del Decreto legislativo 81/2015, uno dei decreti attuativi del Jobs Act. Il decreto per la tutela del lavoro e le crisi aziendali varato dal governo gialloverde nel 2019 ha infatti sancito che quell’articolo si applica alle prestazioni “organizzate mediante piattaforme anche digitali”. Stando a quel decreto, i fattorini cococo possono rivendicare la retribuzione prevista dal contratto collettivo della logistica e trasporto merci. Sicuramente “non saranno più pagati a cottimo”, ha annunciato Ripamonti. Previsto anche il recupero dei contributi e premi assicurativi non pagati.

Le altre prescrizioni riguardano la sicurezza, visto che sei tra amministratori e delegati delle piattaforme sono indagati per aver violato diversi articoli del Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro. Sempre entro il termine di 90 giorni dovranno garantire che ai rider sia applicata l’intera disciplina in materia di sicurezza sul lavoro, dalle regolari visite mediche alla formazione sui rischi, fino alla dotazione di dispositivi di protezione e strumenti idonei per svolgere l’attività.

Dietro quel cibo che ci arriva a casa mentre stiamo in pigiama, ci sono migliaia di lavoratori sfruttati, pagati a cottimo, i cui diritti sono stati calpestati, e la cui sicurezza non è mai stata una priorità. Dietro quegli “eroi della pizza durante il lockdown” c’è un sistema di precarietà molto pericoloso. Che ora inizia, finalmente, a vacillare.

Leggi anche: Uber commissariata per caporalato sui rider: “Condizioni di lavoro degradanti”

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