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Home » Cronaca

Reportage TPI – I bambini dimenticati della Terra dei Fuochi siciliana

Immagine di copertina
Credit: Emergency

Giocano in mezzo ai campi. I genitori lavorano sette giorni su sette. In casa hanno bagno e cucina ma non stanze né letti. Il lavoro c’è ma la dignità no. Qui si vive alla giornata. Per i volontari, questa non sembra nemmeno Italia

«Io sono arrabbiato sempre». Ahmed ha undici anni, è tunisino, frequenta la quinta elementare, dice di sentirsi triste e che lo prendono in giro, i compagni di classe, gli dicono le parolacce perché, dice, ‘è brutto’. Non ha amici. Vorrebbe andare via, tornare in un Paese che non ha mai visto, la Tunisia.

Invece vive in una baracca, in mezzo alle serre di Marina di Acate, nella cosiddetta Fascia trasformata, chilometri di serre di plastica a pochi passi dal mare, tra Ragusa e Vittoria, dove vengono coltivati pomodori, melanzane, peperoni, cetrioli. I bambini come Ahmed hanno pochissimi diritti. 

«Stanno ai margini della loro stessa vita. Non escono, non frequentano la città, stanno quasi sempre a casa, in mezzo ai campi, non hanno giocattoli, non parlano italiano o lo parlano poco, vanno spesso male e a malapena a scuola. Manca il diritto al gioco, si sentono soli», spiega Alessia Campo, coordinatrice dell’associazione I tetti colorati, legata alla Caritas, che dal 2014 ha aperto a Marina di Acate un presidio, una “casetta” colorata. Qui tutti i giorni, dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 19, si svolgono numerose attività socio-educative, come il servizio di doposcuola e la scuola dell’infanzia.

«In modo particolare dal 2020, con la pandemia, ci si è resi conto delle necessità dei minori nella zona, ai quali in quel periodo abbiamo consegnato i tablet per seguire le lezioni da remoto, abbiamo così iniziato il doposcuola e altre attività proprio per intercettare i bambini. Settimanalmente – dichiara Campo – seguiamo circa 110 ragazzi e ragazze dai 6 ai 12 anni e la mattina ci sono una ventina di bambini dai 3 ai 5 anni». Sono tutti figli di persone immigrate, di origine tunisina, rumena e albanese, impiegate nelle serre della zona. La scuola dell’infanzia è frequentata da un solo bambino italiano.

Vite ai margini
Per gli studenti delle superiori, il centro ha attivato un pulmino, che accompagna otto ragazzi a scuola, mentre da Vittoria c’è un altro mezzo per i bambini di Acate che frequentano elementari e medie, costa due euro al giorno. «Risolto o quasi il problema del trasporto, ne restano tanti altri. Tipo? «L’iscrizione a scuola. Cerchiamo di facilitarla. Ma non è semplice. Abbiamo purtroppo saputo di due ragazzini di 11 e 13 anni, in passato, tenuti a casa da scuola per badare ai fratelli o per lavorare, situazione che fortunatamente siamo riusciti a sanare». E poi, la questione abitativa, con le famiglie che vivono in alloggi di fortuna, per così dire, e che ovviamente si riverbera sui piccoli. L’associazionismo cerca di contrastare questo senso di abbandono e solitudine. «Abbiamo organizzato un laboratorio di fotografia, a Ragusa, molti dei bambini non c’erano mai stati. Una ragazzina, nata e cresciuta a Vittoria, non sapeva cosa fosse un ufficio, che potesse esistere un altro lavoro, oltre e fuori dalle serre. Anche se alcuni di loro hanno gli smartphone e sono sui social, sono come ancorati al loro mondo. Si sentono estranei, tristi e arrabbiati, spesso non controllano e gestiscono le loro emozioni. Una ragazzina di quindici anni mi ha chiesto «come si fa a fare amicizia?». Se vengono invitati ai compleanni o alle feste, non ci possono andare». Quasi nessun bracciante ha l’automobile, i mezzi pubblici sono pressoché inesistenti.

Vivono dunque «una condizione di grande povertà educativa, con genitori analfabeti o semianalfabeti». Anche quando sono diventati mezzadri, gli adulti vedono per i figli un futuro nelle serre, non hanno desideri. «Per le ragazze la prospettiva è sposarsi, per i ragazzi vivere e lavorare nelle serre», prosegue Campo. «Qualcuno riesce a smarcarsi. Una ragazza tunisina che abbiamo conosciuto quattro anni fa, sedici anni, non parlava italiano. Si è diplomata e lavora per una grande catena alberghiera a Roma – racconta –. Mentre purtroppo abbiamo conosciuto anche dei ragazzini che ora si trovano in un carcere minorile, avevano smesso di andare a scuola, l’uso di sostanze stupefacenti ha contribuito a farli perdere». E per chi lavora per garantire diritti, in questo contesto, ci sono momenti di sconforto. «Con la frustrazione ci facciamo i conti costantemente. Ogni giorno facciamo un passo avanti e due indietro, in un territorio tanto difficile le “vittorie” sono sempre poche. Sentiamo storie tragiche, ragazzini che restano ingabbiati in questo sistema, non finiscono la scuola, vanno a lavorare presto o si sposano e fanno figli da giovanissimi. Cerchiamo però di guardare ai piccoli grandi successi: lo scuolabus per Acate fino allo scorso anno costava 2 euro e 80, ora costa 2 euro, la scuola dell’infanzia è stata una rivoluzione: se non ci fosse stata, questi bambini non sarebbero andati a scuola fino ai sei anni. C’è più consapevolezza, dei ragazzi e della comunità, fondamentale per ogni cambiamento possibile. Dieci anni fa – conclude Campo – nessuno sapeva nulla della Fascia trasformata».

La Caritas di Ragusa ha attivo in questo territorio da dieci anni il progetto ‘Presidio’, uno sportello d’aiuto per braccianti e loro familiari che prevede sportello legale, sportello sanitario e distribuzione di abiti e coperte. Inoltre è partner con I Tetti Colorati del Progetto ‘Liberi dall’Invisibilità’ di Save The Children all’interno del quale gestisce il centro Famiglie ‘Orizzonti a colori’: uno spazio dedicato ai minori 0-6 anni e alle loro famiglie, che fa orientamento sanitario per garantire l’iscrizione al pediatra pubblico, supporto alle iscrizioni scolastiche, orientamento legale-amministrativo. Nel primo trimestre 2024 ha seguito 62 genitori e 34 minori. «Liberi dall’invisibilità – spiega Viviana Coppola, Responsabile lotta alla tratta e allo sfruttamento di Save the Children – si concentra sul territorio di Marina di Acate, al centro della Fascia trasformata, una zona nota per minori e famiglie che vivono in condizioni di vita disagiate, spesso in stato di isolamento e marginalizzazione, a forte rischio di sfruttamento. Si basa su un approccio olistico, che, anche attraverso la collaborazione con istituzioni e attori sociali locali e nazionali, mira a promuovere il benessere dei minori e delle loro famiglie, avviare possibilità alternative di vita, studio e lavoro nel medio e lungo termine, ridurre il danno provocato dall’estrema marginalizzazione nel breve termine».

Non chiamateli invisibili
Sul lungomare di Marina di Acate, vicino all’unico negozio e lido aperto d’inverno, che si chiama “Chupa chupa”, sosta l’unità mobile di Emergency, dove «gli italiani ci scambiano per la guardia medica», attiva solo durante i mesi estivi. Ahmed Echi è responsabile dei progetti in Sicilia di Emergency. «Dal 2019 – spiega – abbiamo attivato una unità mobile nella provincia di Ragusa per dare un supporto di assistenza medica per la Fascia trasformata. Con un servizio di medicina generale, un infermiere, uno psicologo psicoterapeuta, due mediatori culturali e un logista cerchiamo di dare una prima risposta ai bisogni sanitari delle persone che vivono in questi territori. Registriamo numeri importanti di persone che non accedono ai servizi sanitari. In più ci sono isolamento logistico, sfruttamento del caporalato e lavorativo, mancanza di inclusione, irregolarità». Circa il 40 per cento dei pazienti «sono irregolari, senza permessi di soggiorno, molti sono tunisini sbarcati a Lampedusa e arrivati qui per lavorare».

Quello che si cerca di fare è soprattutto garantire le visite mediche, in assenza di un pediatra e persino della farmacia. Un esempio è «l’assegnazione del pediatra di libera scelta: facciamo noi le pratiche, a volte accompagniamo i genitori e i bambini, cerchiamo di fargli fare le vaccinazioni». Emergency ha dapprima aperto un centro a Vittoria, ora diventato un ambulatorio fisso della ong. «L’anno scorso abbiamo avuto un centinaio di pazienti minori su mille – la metà dei quali sotto i sei anni -, tremila sono state le prestazioni erogate, tra sanitarie e attività di mediazione culturale e psicologica, abbiamo fatto 20mila chilometri di accompagnamenti. Nel 2022 eravamo a 1.150 pazienti, i minori erano una settantina. Abbiamo anche realizzato corsi di educazione socio-sanitaria e vorremmo avviare un vero e proprio ambulatorio fisso a Marina di Acate», aggiunge l’operatore di Emergency. Ci sono anche molte donne e «tanti casi sommersi di violenza di genere». Che cosa colpisce quando si visitano queste persone? «L’esclusione. Vivono in pessime condizioni igienico sanitarie, pagano per tutto, anche per le commissioni più semplici. Andrebbero aggiunti servizi e garantiti maggiori diritti, questo sarebbe un primo passo reale contro lo sfruttamento». 

Suor Cristina Budău Roșu è una missionaria, una delle due suore Carmelitane Missionarie di Santa Teresa del Bambin Gesù che vivono a Marina di Acate. In missione, come in un Paese di uno dei tanti Sud del mondo. Da un paio di anni, si occupa di supportare le famiglie che vivono in questo territorio. «Sto tornando ora dalla farmacia – ci dice -, ho speso 86 euro per acquistare le medicine per due fratellini. La mamma ha 18 anni, loro non hanno ancora un pediatra, sono spesso malati, una bambina appena nata e un bimbo di due anni». Le suore aiutano le famiglie nell’inserimento a scuola, perché spesso «alcuni bambini hanno solo il certificato di nascita, mentre tanti ragazzi non riusciamo ad intercettarli, ci sono anche minori che lavorano nei campi», ammette. Loro, le suore, a volte riescono ad accedere nelle abitazioni dove sono costretti i lavoratori migranti e i loro figli. «Spesso capiamo che non hanno mangiato, gli facciamo la spesa, le condizioni igieniche sono precarie. Anche se con noi sono molto accoglienti, ci vogliono sempre regalare qualcosa».

Vivere alla giornata
Le “case” sono spesso baracche, casotti degli attrezzi, costruzioni fatiscenti nei terreni dove si coltivano frutta e verdura. «A volte hanno bagno e cucina ma non stanze né letti, i materassi per terra, i vestiti ammonticchiati qua e là. Quando entrano nel nostro appartamento dicono: “Questa casa è bella”», aggiunge suor Cristina. «Per i bambini le quattro mura sono fondamentali, anche per la socializzazione. Ricordo due bimbi romeni che vivevano in una casa piena di muffa, quando i loro genitori sono riusciti a trovare un’altra sistemazione sono stati felicissimi, ‘ora non ci vergogniamo più’, hanno detto». In questo contesto di deprivazione materiale, ci sono anche casi più gravi, come quello di «una ragazzina adolescente, romena, di 13 anni, vive con la mamma, che insieme al compagno, ha una dipendenza da alcool. Ci stiamo impegnando con i servizi sociali ma non è semplice». Le situazioni problematiche sono tante e le istituzioni non riescono a occuparsi di tutto.

Poche le “storie” a lieto fine: «Un ragazzo rumeno, di 14 anni, aveva lasciato la scuola, lo abbiamo aiutato, ha fatto seconda e terza media in un anno e chiesto di andare all’Aeronautico. Frequenta il primo anno, la mamma si è trasferita per lui in una cittadina siciliana, ha trovato lavoro come operatrice sanitaria in una residenza per anziani, stanno bene». 

Le suore hanno anche creato un’associazione laica di volontari, Tucum, di cui fa parte Davide Bocchieri, antropologo, si è occupato di ricerca in questo territorio: «Noi non parliamo di invisibili, non vogliamo mortificare queste persone e soprattutto i bambini appiccicandogli un’ulteriore etichetta, usare una categoria significherebbe alimentare la “profezia che si autoavvera”. Non sono invisibili, sono persone, vittime di un grandissimo sfruttamento, dimenticate dalle istituzioni. Bisogna “tirare fuori loro dal fango”, simbolicamente, e soprattutto denunciare questa situazione». 

Denunciare che in questo lembo di terra pieno di plastica i bambini non stanno bene, non possono stare bene. «Giocano in mezzo alla terra, i genitori lavorano sette giorni su sette. Il lavoro c’è ma la dignità no. Si vive alla giornata», continua la missionaria. «Quello che ci dicono i volontari quando vengono qui è che non sembra Italia». A Marina di Acate non ci sono chiese, la parrocchia più vicina è ad Acate. «Dal primo momento in cui sono arrivata ho capito che sarebbe stata un’esperienza forte: ho accompagnato una minorenne in sala parto, la sua famiglia non c’era. L’anno scorso siamo andati in gita a Sampieri, coi bambini. Siamo stati in un fast food a mangiare un gelato, i piccoli erano felici. Era la prima volta che andavano in vacanza, a fare un fine settimana fuori. Ho visto in loro una gioia per le cose semplici che noi forse dimentichiamo». Perché, ci tiene a precisare suor Cristina, «Non è un deserto, qui, c’è tanta vita». 

Lavorare senza dignità
Già, perché paradossalmente qui il problema non è la mancanza di vita e nemmeno di lavoro. Anzi, di lavoro ce n’è fin troppo. Peppe Scifo è un sindacalista della Cgil, si occupa dei lavoratori e delle lavoratrici di Marina di Acate: «Nel territorio di Vittoria e Acate ci sono 3000 aziende agricole (e i dati non sono esaustivi) e in provincia di Ragusa 28 mila sono i braccianti, la metà dei quali stranieri. L’elemento del vivere nelle campagne, con persone che pur lavorando non possono permettersi un affitto, una casa, un mezzo di trasporto, è la peculiarità di questo luogo. Parliamo di lavoratori e famiglie che vivono in casotti degli attrezzi, non hanno mai visto la città, hanno difficoltà a muoversi. E consideriamo che tra Vittoria e Acate c’è il maggior numero di concentrazione di forza lavoro agricola a livello provinciale».

Di che lavoro si tratta? «Un lavoro molto povero, lavoro grigio in larga parte. I braccianti hanno quasi tutti contratti stagionali ma c’è molta evasione contributiva: dichiarano un numero di giornate effettuate inferiore a quelle realmente svolte e la paga contrattuale spesso non è il salario di fatto». Che nella migliore delle ipotesi è un «sotto salario, intorno ai 35-40 euro giornalieri». Oppure un lavoro nero, saltuario, con persone che ogni giorno si propongono come braccia agli agricoltori. «In larga parte tunisini, anche irregolari perché non hanno avuto la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno: è questa la causa del loro ingresso nel lavoro sommerso».

Quando si rivolgono ai sindacati? «Quando non vengono pagati o quando si accorgono di non avere i contributi versati e quindi non possono ricevere la disoccupazione agricola. Fare denuncia, per loro, è molto difficile, in alcuni casi gli troviamo una sistemazione temporanea, proprio perché vivono nelle serre. Il lavoro è totalizzante, denunciare i padroni significa perdere tutto». Per il sindacalista, è una forma di “neoschiavismo”: «I lavoratori sono alla totale dipendenza dei datori di lavoro, anche per mangiare. Vige un caporalato dei servizi: dentro alle comunità ci sono stranieri che accompagnano in auto i loro connazionali dal medico, a fare la spesa. Si paga anche 15 euro per andare al supermercato, una volta a settimana, a pochi chilometri di distanza». L’illegalità è diffusa: «tutto il sistema è a maglie larghe», dice Scifo.

Le ispezioni, nei luoghi di lavoro, partono anche dalle denunce e sono comunque poche, in rapporto al numero di addetti. Un caso recente: «alcuni giovani del Gambia che hanno subito vessazioni, gli veniva chiesto di restituire parte del salario al datore di lavoro. Ora i titolari dell’azienda sono agli arresti domiciliari, stiamo aspettando il riesame. Ma bisogna tutelare anche l’occupazione: è complesso. La legalità è giusta e conviene ma è difficile spiegarlo ai lavoratori. Si può essere braccianti e farlo nella massima regolarità. Oggi, però, rispetto a dieci anni fa abbiamo degli strumenti di contrasto in più».

Come cambiare? «Serve una presa di coscienza da parte dei datori di lavoro. È successo, in alcuni rari casi, che i datori di lavoro hanno accompagnato a scuola e a fare le visite i bambini dei propri dipendenti. Inoltre, lavoriamo molto sulla filiera, per ricordare il valore della responsabilità sociale. Ma, a parte alcune eccezioni, quello che conta, per le aziende, sono le certificazioni. Il tema è il sottocosto: il cetriolo si vende a circa 1,9 euro al chilogrammo, al produttore costa 30 centesimi al kg. L’unico elemento di flessibilità, su cui poter tagliare, è il costo del lavoro».

Gli inesistenti
Sicurezza, intesa come salute delle persone, e ambiente sono altri tasti dolenti. «Dove c’è sfruttamento c’è tutto: rischi maggiori per i lavoratori, tassi tumorali altissimi per i braccianti delle serre. I ragazzi che vanno in bici in queste strade rischiano di essere investiti. E i prodotti che arrivano a tavola sono sicuri ma il procedimento non lo è per nulla. I prodotti di questa zona hanno un ciclo colturale di pochi mesi: i rifiuti vengono bruciati, manca lo smaltimento delle frazioni organiche», aggiunge il referente sindacale. Sui temi ambientali è attivo, tra l’altro, il progetto Trasformare la fascia trasformata che ha tra gli obiettivi la riqualificazione delle filiere floro-vivaistiche e agroalimentari con attività di sostegno alle filiere agro-alimentari che possano garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Vincenzo La Monica è il coordinatore di questo progetto e responsabile dell’osservatorio su povertà e risorse della Caritas di Ragusa. Per lui i bambini della Fascia trasformata «non sono solo figli di braccianti, sono persone, sono anche talenti, che andrebbero valorizzati». 

E poi c’è l’informazione, il modo in cui si raccontano queste storie: «Mentre c’è una grande empatia verso gli agricoltori – dice Peppe Scifo -, i braccianti sono inesistenti dal punto di vista della narrazione. E non possiamo non segnalare l’assenza del mondo politico, rispetto ai problemi di questa categoria». Eppure «non è nemmeno vero che fanno i lavori che gli italiani non farebbero, perché dove e più vengono garantiti diritti, allora lì lavoreranno anche gli italiani». I braccianti della Fascia trasformata, conclude, «hanno quasi tutti un contratto, pagano le tasse, sono dei cittadini». 

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