Reportage TPI – Il purgatorio Mediterraneo delle Ong: “La nostra colpa è salvare vite”
Soccorrono i naufraghi in mare, rispettando la legge. Eppure subiscono da anni attacchi dai governi, di sinistra e di destra. “Ma se esistono gli incidenti stradali non puoi prendertela con le ambulanze”. Il reportage degli inviati di TPI a Catania
Da Sottile, il posto più a sud di Lampedusa e d’Europa, il Mar Mediterraneo sembra una sequenza interminabile di azzurro che si interseca con il cielo, fino a non farti distinguere neppure l’orizzonte. A guardarsi intorno da questa striscia di terra rocciosa stretta e lunga, nei giorni di tramontana Tripoli sembra così vicina da poterne riconoscere il profilo. Pare quasi, concentrandosi, di riuscire a intravedere il celebre Arco di Marco Aurelio e l’Assai al-Hamra, il Castello Rosso, ma anche le interminabili coste da cui si dipana una delle più frequentate rotte di migranti, che punta ai territori siciliani quali ingresso al Vecchio continente.
«Partono spesso di notte, con la speranza di venire soccorsi lungo la traversata. Negli ultimi vent’anni ho salvato decine di migranti, mettendo a rischio la mia stessa vita. Sono stato molto criticato per quello che ho fatto, ormai non riesco più a uscire in mare con serenità, sono perfino finito in terapia per elaborare la sofferenza per le vite che non sono riuscito a salvare, ma non mi pento di niente», racconta Domenico con gli occhi lucidi. La sua storia si è intersecata a più riprese con il destino dei migliaia di migranti che da quest’isola di appena venti chilometri quadrati sono passati. Uomini e donne, spesso bambini, con negli occhi e nel cuore il sogno di un futuro migliore. Persone che scandiscono la vita di Lampedusa, meta di vip come Giorgio Armani e Claudio Baglioni durante l’estate, e purgatorio di anime appena il mare diventa calmo e la temperatura mite. La routine della migrazione non conosce alterazioni, ed è così che piccole imbarcazioni approdano sulle coste lampedusane a ogni ora del giorno. Si tratta di barchette sulle quali sono stipate dieci, venti, trenta persone – che arrivano da Tunisia, Gambia, Guinea, Costa d’Avorio, Siria e Iran – che verranno poi trasportate nell’hotspot isolano, dove convivono oltre mille persone in condizioni disperate. Vite che in rari casi – si parla di meno del 10 per cento – sono messe in salvo dalle Ong, mentre più frequentemente arrivano in autonomia sulle coste italiane o vengono soccorse dalla Guardia Costiera, dalla Guardia di Finanza, da Frontex o da navi mercantili. «Eppure nei nostri confronti – riflette Riccardo Gatti, responsabile operazioni ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere a bordo della Geo Barents – da anni è in corso una campagna non solo denigratoria, ma criminale. Lo spettacolo brutale andato in scena a Catania, dimostra come non esista più empatia, comprensione, umanità». E attesta anche quanto sia semplice accentrare, e manipolare, l’attenzione mediatica. Mentre i 527 migranti a bordo della Geo Barents – salvati in sette distinte operazioni in acque internazionali – erano al centro di un braccio di ferro a reti unificate, 500 persone soccorse dalla Guardia costiera al largo della Sicilia sbarcavano senza alcun problema nei porti di Augusta e Pozzallo. «Da anni si cerca di cambiare gli equilibri del Mediterraneo, provando ad annullare il soccorso in mare. Dal 2017 non esiste più alcun coordinamento, ma la situazione non è mai stata così preoccupante. Ormai ci si comporta alla luce del sole in completa violazione delle leggi internazionali», prosegue Gatti. «Noi come Medici Senza Frontiere non ci fermeremo. Adesso siamo nel porto di Augusta perché ci stiamo preparando a una nuova missione con simulazioni di salvataggi ed emergenze mediche, in attesa di riprendere il largo». Gatti ribadisce che il primo porto sicuro per Msf resta l’Italia, racconta dei momenti di tensione a bordo, di come ormai sia «imperante il disprezzo della vita umana. Quasi non esistesse più un bisogno etico, morale e anche legislativo di aiutare chi rischia di morire. Eppure è noto come nel Mediterraneo il rischio di perdere la vita sia alto e concreto. Spesso i migranti partono sapendo che con un’altissima percentuale potranno morire, eppure lo fanno lo stesso perché vogliono una vita migliore. Vogliono salvarsi, o lottare per le loro famiglie». Ed è così che ogni numero – ogni vita spezzata, ogni vita salvata – diventa una storia. «Mentre eravamo fuori dal porto di Catania, ho conosciuto un ragazzo che voleva arrivare in Germania dove la madre stava morendo di cancro, delle famiglie che scappavano dalla guerra in Siria… Spesso si cerca una visione unilaterale o univoca in queste storie, ma le motivazioni delle partenze sono molteplici e sono tutte molto valide».
Disperazione e salvezza
Ritornare alle persone, ritornare ai loro vissuti e alle storie che si portano dietro diventa allora un imperativo morale. Esercitare l’empatia attraverso l’incontro non con i meri numeri – dettati dai media, declinati attraverso gli organi istituzionali – ma con le storie che questi nascondono.
Storie come quella di Youssouf, incredibilmente non giudicato “vulnerabile” dopo il primo screening sanitario e rimasto a bordo della Geo Barents al porto di Catania per altri due giorni prima dello sbarco definitivo insieme ad altri 213 sopravvissuti. Una follia del sistema d’accoglienza italiano: 4 ore, come denunciato dall’onorevole Angelo Bonelli dei Verdi (l’unico insieme al dem Antonio Nicita e ad Aboubakar Soumahoro che sono accorsi al porto di Catania per verificare quanto stesse accadendo), per visitare 572 persone. In pratica, 50 secondi a persona. È così che a bordo sono stati trovati sopravvissuti che intanto avevano contratto la scabbia, e addirittura due minori. Ad un certo punto Youssouf si è buttato in mare da una finestra del natante: «Stavo impazzendo. Ho avuto la sensazione che il mio corpo e i miei sogni stessero andando in frantumi. Sono grato per tutta l’assistenza che ho ricevuto a bordo, ma non ce la facevo più. Ho lasciato il nord della Siria per offrire una vita più sicura alla mia famiglia. Ho quattro figlie che sono rimaste a casa. Negli ultimi anni hanno visto le bombe cadere sulla nostra città e non possono andare a scuola perché la zona continua a non essere sicura. I gruppi armati sono ovunque, rapiscono le persone per chiedere riscatti, la situazione è fuori controllo e ogni giorno ho paura per la loro vita. Voglio semplicemente trovare un posto dove possano essere libere e al sicuro. Questo è il mio sogno e non permetterò a nessuno di portarmelo via».
I sogni sono il fulcro cruciale di tutte le storie, e ritornano costantemente in ogni racconto come molla fondamentale per rischiare tutto, nel tentativo di sopravvivere. Ahmed – altro migrante salvato dalla Geo Barents – ha lasciato Damasco, in Siria, un anno fa. Lo ha fatto perché la sua vita era in pericolo: se non fosse scappato, forse oggi non sarebbe qui. Il suo viaggio della speranza ha toccato la Libia e per sei volte ha provato ad attraversare il Mar Mediterraneo. Ogni volta i libici fermavano le imbarcazioni, portavano i migranti nei centri di detenzione e abusavano di loro fisicamente e psicologicamente. «Da allora – racconta con un filo di voce, gli occhi umidi – i dolori alla schiena sono così forti che non cammino più bene».
La fuga dalla Libia
Nella roulette russa che è diventata la fuga in Europa, le storie riemergono in frammenti. Tra le centinaia di persone che hanno trovato sostegno grazie a Medici Senza Frontiere c’è un ventiduenne originario del Bangladesh: «Sono il primogenito, ho un fratello di 12 e uno di 7 anni. Mio padre è malato, lavora molto poco, e così i miei genitori hanno puntato su di me. Per prima cosa ho provato a cercare un impiego in Libia, ma la situazione era insostenibile: lavoravo moltissimo, ma mi pagavano poco e spesso per niente. Un giorno mentre andavo al lavoro sono stato sequestrato per strada: volevano un riscatto dalla mia famiglia per liberarmi. C’erano altre persone e chi non pagava veniva torturato». La storia – tragicamente simile a quella di migliaia di migranti, che nello Stato nordafricano hanno trovato sevizie e violenze – rivela l’animalesca prassi locale: «Per convincere la mia famiglia a pagare mi hanno legato entrambe le gambe, mi hanno appeso al soffitto e mi hanno costretto a videochiamare la mia famiglia. Mi hanno riempito di botte, e queste sono le cicatrici che mi porto addosso». Lunghi tagli segnano il corpo, punteggiando il rammarico e la sofferenza. «Per salvarmi, i miei genitori hanno venduto tutto quello che avevano: la casa, i terreni, l’auto. Hanno anche dovuto prendere diversi prestiti, perché quando il riscatto veniva saldato non venivo liberato per davvero ma solo ceduto a un altro gruppo. Alla fine il conto è stato di 15mila euro». Tanto vale, in Libia, la vita di un giovane uomo.«Appena sono stato scarcerato, ho capito che dovevo andare via e sono partito per l’Italia. Per tre giorni sono stato su una barchetta, terrorizzato, perché non so nuotare. Poi finalmente siamo stati soccorsi. Ho pensato che sarei riuscito a realizzare il mio sogno, invece…». La sospensione della voce corrisponde alla sospensione del destino. «Fisicamente e psicologicamente sono distrutto. I miei fratelli sono stati costretti ad abbandonare gli studi, non sento da settimane la mia famiglia e non ho idea di quando potrò mettermi in contatto con loro. Probabilmente penseranno che sono morto». Sempre in Bangladesh ha origine anche un’altra storia. Protagonista un padre di famiglia che ha perso tutto durante un’inondazione. «Devo mantenere sei persone: i miei genitori, mia moglie e i miei tre figli. Come contadino nel mio Paese non guadagnavo abbastanza, e così sono dovuto partire. Dopo una parentesi drammatica in Libia, dove sono anche stato sequestrato, ho scelto di partire per l’Europa. È l’unica possibilità che ho per dare un futuro ai miei figli, un presente ai miei genitori».
La traversata della Ocean Viking
A viaggiare con la speranza di approdare in Italia sono stati anche anche Bassem e Ana. Lui 32 anni, lei 22. Sono sposati e hanno una bambina di 5 anni, partita con loro. «Abbiamo pagato 70mila dollari in totale ai trafficanti. E dal 2020 ad oggi abbiamo provato cinque volte a fuggire, prima di riuscire a prendere il mare. Abbiamo scelto di lasciare Damasco per quanto lì avessimo una buona condizione sociale. Non volevamo che nostra figlia crescesse in un paese in guerra». E così inizia l’impresa: da Damasco a Beirut, poi in aereo fino a Bengasi. «I trafficanti hanno puntato un kalashnikov contro la testa di mia moglie e di mia figlia. Mi hanno detto che o pagavo o le ammazzavano. È stato uno dei momenti più drammatici», racconta Bassem che ad ogni passaggio si vede estorto denaro per salvare la sua famiglia. Fino al 9 ottobre scorso quando i tre vengono caricati sull’ennesimo barcone, ma questa volta dopo 9 ore vengono salvati. Sono gli operatori della nave di Sos Méditerranée, la Ocean Viking. Non avrebbe mai immaginato che da lì sarebbe cominciata un’altra incredibile traversata durata altre due settimane. Una sorte condivisa con altre 231 persone. «Le storie drammaticamente si somigliano tutte. Sono storie che puntualmente restituiscono l’immagine della sofferenza indicibile cui le persone sono sottoposte in Libia tra violenze, stupri, detenzioni irregolari», rivela il portavoce della Ong, Francesco Creazzo.
A differenza della Geo Barents (e della Humanity1, altra nave pure approdata a Catania), il destino della Ocean Viking è stato ancora più crudele e complesso: dopo giorni e giorni in mare al largo dell’Italia, la nave è stata costretta a spostarsi e alla fine è approdata a Tolone. Innescando una crisi diplomatica tra i due Paesi. «Sono state dette cose false in questi giorni – sottolinea ancora Creazzo – È stato detto ad esempio pochi giorni fa in un’informativa in Parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che noi avremmo innescato, andando di nostra volontà in Francia, la crisi con Parigi. È un’accusa grave e non veritiera». Tutto ruota attorno a un numero: 46. Tante, in 14 giorni, sono state le richieste di Pos (place of safety) che la nave ha avanzato, soprattutto all’Italia. Richieste a cui nessuno ha mai risposto. Da lì la decisione di spostarsi verso la costa francese. «La verità – continua Creazzo – è che l’Italia, e anche Malta che pure abbiamo contattato mentre eravamo in acque internazionali, non hanno agito in ottemperanza al diritto internazionale che prevede in questi casi l’assegnazione di un Pos. Siamo stati dunque costretti ad agire a causa della situazione a bordo che stava precipitando, cosa che le autorità italiane e maltesi sapevano bene perché erano tutte informate passo dopo passo. Ribadisco: non è stata nostra volontà, siamo stati obbligati a cambiare rotta vista l’inadempienza dell’Italia al diritto internazionale».
Soccorritori “criminali”
Una situazione che lascerebbe quasi pensare che sia meglio fermarsi, evitare scontri con Paesi “democratici”. Ma, esattamente come Msf, anche Sos Méditerranée non ha alcuna intenzione di mollare la presa. «Per adesso la Ocean Viking è a Marsiglia, abbiamo uno stop programmato per controllo e revisione dell’imbarcazione. Ma torneremo nel Mediterraneo centrale per compiere la nostra missione: salvare vite umane». La metafora di Creazzo, d’altronde, chiarisce la posizione delle Ong più di mille altre parole: «Purtroppo assistiamo da anni, da governi di destra e di sinistra, a un processo di criminalizzazione nei confronti delle Ong. Ed è una follia: se esistono gli incidenti stradali, la colpa non è delle ambulanze. Noi siamo semplicemente dei soccorritori, cerchiamo di riempire il voto che gli Stati lasciano». Un vuoto enorme. Che non senza ipocrisia nessun Paese riconosce. Eppure, mentre l’Italia cerca di creare delle barriere all’accoglienza – con leggi, muri, divieti -, le frontiere cambiano. E tornano in mente le parole di Alessandro Leogrande, scrittore tarantino prematuramente scomparso che ha indagato nel corso della sua esistenza i flussi migratori. «Le frontiere cambiano, non rimangono mai fisse», rifletteva spesso. Le frontiere sono mobili, e l’essere umano sa fare della resilienza un’arma di sopravvivenza. Ed è così che il pensiero da Catania sbarca a Lampedusa. Poco distante dal centro dell’isola c’è infatti l’opera di Mimmo Paladino “Porta di Lampedusa – Porta d’Europa”. Un monumento di quasi cinque metri di altezza per ricordare i migranti che, nel tentativo di attraversare questo tratto di mare, hanno perduto la vita. Purtroppo ad oggi non esistono che stime – elaborate sempre per difetto – per raccontare la silenziosa carneficina del Mediterraneo. Secondo la Fondazione Openpolis, solo nei primi otto mesi del 2022, nelle sue acque hanno perso la vita 1.161 persone. Vite, storie, sogni, ambizioni e unicità. Non numeri