Cosa ne è stato della regolarizzazione dei braccianti? Il reportage di Intersos da Foggia | VIDEO
A distanza di cinque mesi dal varo del decreto, il resoconto finale non sembra soddisfare l'obiettivo iniziale
Il 19 maggio 2020 la ministra delle politiche agricole Teresa Bellanova presentò, in una conferenza stampa in piena fase 2 del lockdown, la norma sulla regolarizzazione dei rapporti di lavoro. L’intento consisteva nel far emergere tutte quelle condizioni di lavoro subordinato irregolare che, nella maggior parte dei settori, ha causato enormi danni sulla tutela e rispetto dei diritti del lavoratore. Tra le categorie citate era presente anche il comparto agricolo, nel quale lo sfruttamento dei braccianti è divenuto, negli anni, una condizione consuetudinaria.
Lo scorso 14 agosto si è concluso il periodo utile per presentare le domande di emersione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici impiegati nei settori dell’agricoltura, del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona. Ma il provvedimento non ha raggiunto l’obiettivo preposto: regolarizzare lavoratori e lavoratrici sfruttati. A distanza di cinque mesi dal varo del decreto, il resoconto finale non sembra soddisfare l’obiettivo iniziale.
Il report finale del Ministero evidenzia una prevalenza delle domande riguardanti il lavoro domestico e di assistenza alla persona, che corrisponde all’85 per cento del totale delle domande trasmesse (176.848), mentre le domande per l’emersione del lavoro subordinato (e dunque anche braccianti del comparto agricolo) hanno riguardato il 15 per cento del totale (30.694).
In Puglia, sono state 2.871, circa la metà delle quali a Foggia: 1.268 domande a fronte delle 6mila persone che vivono nei ghetti della zona. Le falle e difficoltà legate al provvedimento del Ministero erano già state annunciate e denunciate da tempo da varie organizzazioni e associazioni che si occupano della difesa dei diritti dei migranti, principali vittime dello sfruttamento nei campi.
Intersos, organizzazione umanitaria operativa nel territorio della Capitanata dal 2018 con attività medica e di educazione sanitaria per i braccianti dei ghetti, ha sin da subito chiesto un rafforzamento delle norme contenute nel provvedimento di emersione: troppo limitante nei requisiti, nelle tempistiche e con il grande limite di demandare tutto ai datori di lavoro, spesso parte integrante del meccanismo di sfruttamento. Le visite mediche effettuate hanno spesso riportato condizioni di preoccupante stress psicologico o addirittura depressione frutto di una condizione di irregolarità e, dunque, di invisibilità, come testimonia Sergio Cotugno, medico di una delle due cliniche mobili che ogni giorno si recano in 6 insediamenti informali della zona.
La medesima richiesta è stata avanzata anche da Asgi (Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione). Erminia Rizzi parla di “cifre ridicole”, in riferimento al numero di chi ha cercato di fare domanda di emersione, per via delle procedure stringenti e dove tutto è affidato alla volontà del datore di lavoro. “Nel momento in cui un migrante ha un permesso di soggiorno scaduto a partire dal 31 ottobre 2019, ma ha lavorato come bracciante nel periodo precedente, come può dimostrare di aver lavorato e di essere stato sfruttato se non ha buste paga? Non hanno nulla in mano per poterlo rivendicare”.
L’illegalità si propaga in un territorio che presenta già enormi sacche di criminalità, come racconta il Capo Procuratore della Procura di Foggia Ludovico Vaccaro: “La regolarizzazione non basta, serve ma non basta. In questi territori occorre intervenire sui diritti delle persone, sul riconoscimento delle loro identità, sugli alloggi. Come può risolversi lo sfruttamento dei braccianti se ancora esistono realtà come quella dei ghetti?”.
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