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“Alzati, neg*a di me**a”: cronaca di un caso di razzismo su un treno Frecciabianca

Immagine di copertina

L'addetto alle pulizie avvicina una 23enne del Mali e la insulta nell'indifferenza generale

Frecciabianca, all’altezza di Campiglia, una tranquilla serata di luglio. Delle urla forti e indistinte irrompono nel tuo vagone. È difficile capire a chi appartengono e a chi sono rivolte. Poi alzi lo sguardo, metti a fuoco e vedi un uomo sulla quarantina portata male, occhiali dalla montatura spessa e indosso la pettorina del servizio di pulizia. Man mano che si avvicina, anche la voce si fa più nitida. Ora capisci bene cosa dice: “Negra di m… Tornatene al tuo paese”. “Devi levarti da qui, schifosa, lascia il posto a chi paga il biglietto”.

Di fronte a lui – ora la vedi bene – c’è una ragazza di 23 anni del Mali. Una splendida ragazza, in evidente stato di shock. Prova a difendersi, gli urla con una strana mescolanza di accenti, tra italiano, francese e toscano stretto: “Razzista!” “Fascista!”. E l’uomo – se così volete chiamarlo – l’uomo esplode: “Ma quale fascista. Zitta, negra, che c’avete tre strade e le abbiamo costruite noi nel ‘39”. Già. Lui che “fascista” non è.

A quel punto è impossibile far finta di niente, anche perché nessuno si è mosso di un millimetro: ognuno seduto sulle proprie poltroncine con un Ipad in mano, un paio di cuffie nelle orecchie e uno sguardo di compiaciuta indifferenza, come se quella cosa, in fondo, non li riguardasse. E che, tutto sommato, finalmente c’è qualcuno che dice le cose come stanno e difende “gli italiani onesti e perbene”.

Ti alzi in piedi e corri verso l’uomo, che nel frattempo ha alzato persino la voce ed è a un centimetro dalla ragazza. Pensi che possa addirittura metterle le mani addosso, allora ti metti in mezzo, lo allontani, lo guardi negli occhi. E dentro vedi qualcosa che non avresti mai immaginato. Vedi il vuoto. Non c’è nulla in quello sguardo, solo rabbia cieca, senza un senso né una direzione, caricata da chissà quante migliaia di voci sentite, commenti letti, discorsi fatti, dichiarazioni ascoltate sui social o in tv ed esplose di colpo in un pomeriggio di mezza estate.

C’è il vuoto in quegli occhi. E fa paura. “E lei che cosa vuole?” chiede. “Voglio, anzi pretendo, che non si permetta mai più di rivolgersi così a questa ragazza – rispondi -. Lei ha una divisa, rappresenta il treno, le ferrovie italiane, questo paese. Si vergogni e chieda scusa”. “Lei mi ha dato del fascista”, dice indicando la ragazza. “E ha fatto bene – rispondi -. È esattamente quello che sta dimostrando di essere”.

E, in quel momento succede un’altra cosa che non avevi previsto. Accade che abbassa lo sguardo, di colpo sembra aver cambiato atteggiamento. “Ok, tutto a posto – dice -. Non è successo nulla”. “Nulla è a posto. Mi hai dato della negra di m…”, interviene lei alle tue spalle. “E tu stai zitta, non vedi che sto parlando con lui!”. Il tono ora è di nuovo alto. “Lui”, nel suo delirio, significa italiano. Connazionale. Uno dei nostri. Ecco quello che tu sei per lui. E, mentre li fissi entrambi, per qualche secondo, non riesci a non sentirti umanamente, moralmente, mentalmente, con ogni muscolo o nervo del tuo corpo, infinitamente più vicino a lei che a lui.

In quel momento, su quel vagone in corsa da qualche parte per la campagna toscana, per la prima volta forse nella tua vita ti senti straniero in Italia. Se lui è l’italiano e lei la straniera, allora sei straniero anche tu. E mai, prima d’ora, è stato così disperatamente chiaro. L’uomo a quel punto si placa, ma è tardi. Il controllore è stato richiamato dalle urla e ha allertato il capotreno. Pretendi che non finisca lì. E sei fortunato, perché il capotreno è un uomo perbene. Ha lo sguardo di chi ne ha viste tante, troppe, ma non è tipo disposto a tollerare. Lo obbliga a scusarsi. A suo nome e a nome del treno. In un mondo normale non finirebbe qui, ma basta uno sguardo tra te e il capotreno per capire che è meglio per lei se tutto quanto resta lì. Con tante scuse e nessun rapporto o segnalazione. Perché è probabile che, tra i due, una volta che si va a scavare, sia lei quella che ha più da perdere. Non è giusto, ma è meglio così.

Lei ti ringrazia, ti abbraccia, ti dice che non sa come sdebitarsi, e che, anche volendo, non saprebbe come fare. Ed è strano, perché sei tu che in quel momento vorresti scusarti con lei per quello che ha subìto, per quella violenza inaudita, per il silenzio complice di decine di persone, di italiani, che hanno assistito alla scena senza muovere un muscolo. Vorresti chiederle scusa per essere ospite di un paese che la tratta come una criminale perché è donna e perché è nera. Vorresti chiederle scusa, come italiano, e dirle che questa non è l’Italia, anche se non ne sei più così convinto.

Ti accorgi che è da un’ora che la conosci, ma non sai nulla di lei. C’è appena il tempo per scambiarsi i nomi, un frammento della sua storia, tra la Toscana e Parigi, tra il sogno di diventare una parrucchiera di successo e la realtà di sfruttamento, lavori neri, precari e malpagati, ogni settimana uno diverso. Si chiama Mailuna, il nome è di fantasia, ma la violenza di quelle parole, la sensazione di essere stata violata nel proprio intimo, nell’indifferenza generale, quella è reale, viva, e non se ne andrà con un bicchier d’acqua al vagone ristorante.

L’ultima cosa che vedi di lei, prima che scenda dal treno, è un sorriso. E ti sembra impossibile che sia della stessa ragazza che fino a mezz’ora prima stava per scoppiare in lacrime. E allora capisci che ne vale ancora la pena. Di restare umani. Di alzarsi in piedi e andare a occupare fisicamente quel posto dalla parte giusta della storia che decine di passeggeri e milioni di italiani hanno rinunciato a prendere.

Fai in tempo a chiederti dove sarà ora Mailuna, cosa farà stasera, quello che deve aver passato fino ad oggi, chi diventerà, dove la porterà la vita tra cinque, dieci, vent’anni. E, per un attimo, le auguri che sia ovunque ma non in Italia. È un attimo, già, solo un attimo. Perché, tra i due, tra Mailuna e quell’uomo sulla quarantina dalla montatura spessa, lo straniero non è e non sarà mai lei. Vorresti urlarglielo, ma è troppo tardi. È tardi per un sacco di cose. È accaduto ieri, poche ore fa, su un Frecciabianca, da qualche parte in Toscana, Italia, pianeta Terra, 2019.

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