I popoli non vogliono la guerra ma la politica se ne infischia
Le ribellioni degli ultimi mesi in Europa dimostrano che esiste una lettura del conflitto più complessa della narrazione “aggressore-aggredito”
Dall’inizio della guerra ascoltiamo politologi, esperti e consiglieri militari che propongono strategie per arrivare ad un cessate il fuoco, solo per metterci di fronte all’evidenza: la fine del conflitto non è all’ordine del giorno per nessuna delle parti in campo. Di fronte al vicolo cieco incontrato da tecnici e politici, le proposte più concrete contro la guerra giungono da ambienti lontani dalle stanze dei bottoni. A fine marzo, i portuali di Genova hanno scioperato per bloccare il transito d’armi, rifiutandosi di «partecipare ai massacri» legati all’industria della guerra. Denunciavano l’aumento delle spese militari «animate esclusivamente da una logica di business».
Oggi si sente spesso, soprattutto nelle piazze contro il caro bollette, lo slogan «Le vostre guerre noi non le paghiamo», una diffida a tutto l’arco politico. Questo “voi”, contrapposto al “noi”, rivela il fatto che non esiste un interesse nazionale. Si squarcia il velo dei «valori comuni da difendere con i dovuti sacrifici». Con la guerra, infatti, le contraddizioni che esistono anche in tempi di pace salgono a galla. È sempre più evidente che c’è chi si arricchisce e chi subisce tutto il peso dell’economia di guerra, così come in Russia ci sono interessi economici che considerano l’invasione un investimento che sarà ripagato dalla conquista di tutte le risorse e degli snodi strategici dell’Ucraina. Un prezzo pagato da chi ha perso il lavoro per via delle sanzioni e da chi viene mandato al fronte. In molti Paesi europei si è visto come la rabbia crescente contro coloro che impongono la guerra stia unendo la classe più sfruttata, l’unica ad avere le forze per mandare in tilt le politiche guerrafondaie.
Nel Regno Unito, uno degli Stati con la linea più dura nei confronti della Russia, è in corso la più grande ondata di scioperi degli ultimi trent’anni. In Germania, il Parlamento, correndo ai ripari, ha frenato sull’invio di nuove armi pesanti per paura delle rivolte che minacciano di esplodere. Anche in Russia le proteste contro le coscrizioni non sono atti di “vigliaccheria”, ma la base per ogni rivoluzione contro la guerra. Così fu anche durante la Rivoluzione di ottobre, quando i soldati capirono che i nemici da combattere non erano i tedeschi, ma i loro generali e lo Zar. Fu lo stesso poco dopo in Germania, quando le masse, stanche della Grande Guerra, fecero cadere l’Imperatore.
Anche in Italia durante il biennio rosso la rivolta dei Bersaglieri, incoraggiata dagli scioperi delle lavoratrici e dei lavoratori, pose fine all’occupazione dell’Albania. Le ribellioni degli ultimi mesi dimostrano che esiste una lettura del conflitto più complessa della narrazione “aggressore-aggredito”. Per sfuggire alla minaccia atomica bisogna evidenziare come gli interessi dei lavoratori europei, ucraini e russi siano sostanzialmente gli stessi. Non è retorica pacifista, ma una vera tattica per ottenere la pace. Di fronte al nazionalismo e alle guerre di influenza, sta ai popoli di entrambi i lati del fronte insorgere contro chi, nel proprio campo, gli sta imponendo questa guerra.