Dal golpe Borghese a Piazza Fontana: TPI rivela tutti i segreti del terrorista nero Stefano Delle Chiaie
Luca Telese ricostruisce le rivelazioni di Stefano Delle Chiaie: un racconto sui misteri della storia d'Italia
Adesso che Stefano Delle Chiaie è morto, l’unica cosa certa è che si è portato nella tomba tanti segreti di cui era a conoscenza.
Lo chiavano la “Primula nera”: era l’ex capo indiscusso di Avanguardia Nazionale, era un ex imputato per la strage di piazza Fontana, ex consulente delle più efferate dittature sudamericane.
Era stato il promotore del golpe dell’immacolata di Iunio Valerio Borghese, era uno dei pochi che conosceva la verità sulle Stragi e un giorno venne da me dicendomi: “Vorrei pubblicare un libro nella tua collana”.
Parlammo a lungo e mi disse che avrebbe voluto scrivere finalmente tante verità che non aveva mai rivelato, mi spiegò quali. Accettai. Andò a finire con un litigio che sto per raccontarvi.
Le cose andarono così: all’epoca firmavo con il mio nome una collana di saggistica che si intitolava “Le radici del presente”. La collana era editata dalla Sperling & Kupfer, e si occupava della memoria degli anni di piombo.
Condividevo con il mio diretto superiore Enrico Racca, capo della saggistica della Sperling, tutte le responsabilità. E quella fu la prima volta in cui decidemmo di pubblicare, consapevolmente, un libro reticente.
Di più, e meglio: scegliemmo consapevolmente di pubblicare un libro che mi aveva deluso, rispetto alle aspettative, alle promesse dell’autore e dei coautori, agli incontri che lo avevano preparato, ai giri di correzione delle bozze, alle richieste che avevo, e avevamo, formulato durante l’editing.
Se è vero che la memoria del golpe in Italia è un esercizio difficile, ma necessario, questo racconto sui misteri di Delle Chiaie e sui suoi omissis, sarà utile a capire come, quanto e perché quello che sto dicendo è vero. E quanto la Primula Nera sapeva su quella stagione.
Il fatto è che io ed Enrico Racca, quando Delle Chiaie finì il suo lavoro ci trovammo tra le mani il manoscritto di una autobiografia di cui scorrendo pagine e capitoli potevo intuire e capire – oserei dire quasi con precisione chirurgica – i punti di sutura tra rivelazioni, realtà, grandi rivelazioni, piccole e grandi omissioni.
A mia parziale attenuante posso aggiungere solo questo: credo di essere l’unico curatore di un saggio che questa delusione l’aveva messa nera su bianco.
Di più: questo giudizio l’avevo dichiarato esplicitamente al lettore nell’introduzione fin dalla prima riga – definendolo senza perifrasi “un libro reticente” – spiegandone il perché, e l’avevo pubblicato proprio in apertura del volume sfidando la comprensibile ira di Delle Chiaie che, quando lo scoprì, chiamò il direttore della saggiastica della Sperling e gli disse: “Telese è impazzito? Sono incazzato con lui”.
A proposito, un altro dettaglio non da poco: Delle Chiaie, che in quelle ore non voleva parlarmi direttamente (poi una capacità di metabolizzazione tutta romana, non so come, gli ha permesso di passare sopra questo “sgarbo”). Era stato il protagonista di tutti i processi italiani e internazionali sull’eversione nera, uno dei pochi che a destra sa tutto, o quasi tutto quello che è accaduto negli anni di piombo.
A lui – che ovviamente si proclamava sempre innocente – un magistrato fece una battuta geniale: “O lei è un innocente molto sfortunato, o lei è un colpevole molto fortunato”. Il bello è che era lo stesso Delle Chiaie a riferire l’aneddoto, quasi divertito.
L’ex primula nera sosteneva che era una follia che il suo libro fosse aperto dalla prefazione di uno che dice: “È un libro reticente”. E diceva al capo della saggistica della Sperling: “Mi cita un precedente? Uno sgarbo di questo tipo non l’ho mai visto fare da nessuno”.
Era vero. Andammo in stampa così, e il tempo avrebbe sistemato le cose. Adesso sono contento di aver preso quella decisione un po’ paradossale, ma anche di aver pubblicato il libro, e credo che sia molto interessante spiegare perché.
“L’aquila e il Condor” (il volume che mandammo in libreria solo nel maggio del 2012) era una autobiografia reticente. Su questo non c’era dubbio alcuno. Tuttavia questo che non vuol dire che non fosse (e che ancora oggi non sia) un memoir interessante, anzi.
Era un libro che io ed Enrico avevamo inseguito per quasi due anni, che mancava alle bibliografie sugli anni Settanta, sulla storia dei movimenti extraparlamentari e della lotta armata.
Ed era (anzi è) la testimonianza di un protagonista indubbio, uno che aveva visto il suo nome affacciarsi un processo su due degli anni di piombo, comparire come un immancabile corredo in calce a tutti i misteri della Repubblica.
Se esistono pochi dubbi sul fatto che uno dei misteri più importanti della strategia della tensione, in Italia, sia stato il tentativo di golpe del comandante Junio Valerio Borghese, il cosiddetto golpe dell’immacolata del 7 dicembre 1970, non c’erano dubbi che uno solo tra i testimoni viventi sa davvero che cosa è successo quella notte: lui.
Nelle ore interminabili di quel giorno, quelle in cui un colpo di stato stava per stravolgere la storia d’Italia, i forestali marciavano su Roma per prendere il controllo dei Palazzi del potere, e in cui un misterioso contrordine all’ultimo momento aveva fermato tutto (solo un passo prima che nelle strade di Roma si iniziasse a sparare) il fondatore di Avanguardia Nazionale era stato il plenipotenziario del principe nero, l’unico autentico depositario di tutti i segreti di quell’impresa.
In quella notte, solo poche ore prima del passo irreversibile, solo un attimo prima del punto di non ritorno, qualcosa si era inceppato. Delle Chiaie, al tavolino del bar di Prati ci aveva raccontato: “Dovevamo occupare il ministero dell’Interno, la televisione, il ministero degli Esteri, prefetture, questure, e i principali servizi pubblici”.
Però, dopo che i ragazzi di Avanguardia Nazionale avevano, come da programma, preso possesso del Viminale, e dopo che gli uomini della guardia forestale – partiti da Rieti – erano entrati nella Capitale, qualcosa era andato storto: il Principe nero aveva dovuto arrendersi, ordinare ai suoi miliziani, raccolti nei vari siti che erano obiettivo dell’azione, e in una palestra romana, di mollare tutto.
Aveva fatto dire loro dai suoi attendenti che sarebbero dovuti tornare a casa, fino a diventare lui stesso, dopo quella rinuncia, persino oggetto della satira dei suoi camerati. Agli uomini di Delle Chiaie, che nell’Arsenale del ministero dell’interno avevano raccolto una mitraglietta, come se fosse un souvenir, quella comunicazione non era affatto piaciuta.
Secondo il fondatore di Avanguardia Nazionale, non ci sono misteriosi retroscena dietro quella scelta: “Giulio Andreotti, Licio Gelli, il comando generale dei carabinieri e quant’altro è stato poi inventato, nulla ebbero a che fare con quel contrordine”.
E aggiungeva: “La verità è quasi sempre più semplice e banale di quella intricata e articolata inventata per ignoranza dei fatti o per programmata diffamazione”. Qui occorre spiegare a cosa si riferiva Delle Chiaie, mentre replicava indirettamente alle clamorose rivelazioni di Paolo Aleandri, ex animatore del gruppo extraparlamentare, poi terroristico, Costruiamo l’Azione.
Nell’ottobre del 1981, dopo essere stato arrestato per la strage di Bologna, Aleandri aveva iniziato a collaborare con la magistratura, e aveva raccontato che un altro militante, Alfredo De Felice, gli aveva rivelato di aver incontrato Licio Gelli ai margini della presentazione di una rivista chiamata “Politica e strategia”.
Secondo Aleandri, De Felice era entrato in confidenza con il Principe, fino a diventare “il tramite di Borghese con ufficiali dei carabinieri”. Aveva dato lui l’ordine di sospendere il golpe nella notte tra il 7 e l’8 dicembre.
Questa versione Aleandri sarebbe arrivato a confermarla al processo per la strage di Bologna. Ovviamente questa ricostruzione, che io avevo riportato anche in “Cuori neri”, il fondatore di Avanguardia la rifiutava in modo drastico e sprezzante: “Solo una cieca e ostinata partigianeria – disse più o meno con le stesse parole che avrebbe usato nel libro – può avallare questa sciocchezza”.
Alla fine, incalzato dalle comprensibili domande sui motivi del contrordine di Borghese, Delle Chiaie mi forniva questa spiegazione, per certi versi non meno inverosimile. Mettetevi comodi: secondo lui la macchina del golpe si era fermata solo per un dettaglio surreale.
Tutto era dipeso dal generale Duilio Fanali, che in quel piano era l’uomo incaricato di occupare il ministero della Difesa, e che all’improvviso si era sentito male. La notte del golpe, raccontava, Fanali non era andato ad occupare il ministero, come prevedeva il cronoprogramma del Colpo di Stato, “vari e vani erano stati i tentativi di rintracciarlo, e la sua defezione inceppò il meccanismo rendendo impossibile il proseguimento del piano”.
Possibile? Se fosse vero, dovremmo trarne la conseguenza che il golpe Borghese era fallito per un raffreddore. Possibile, certo. Ma molto improbabile, eppure era stato a quel punto, e solo per questo motivo, secondo Delle Chiaie, che Borghese aveva gettato la spugna: “Il comandante ritenne che l’operazione fosse fallita e decise di sospenderla. Diede l’ordine di rientrare. Ordine che – annotava con soddisfazione militaresca – pur tra non poche proteste, con disciplina e segretezza fu eseguito”.
Ovviamente devo aggiungere che all’indisposizione di Fanali, secondo me, nemmeno Delle Chiaie non credeva. Quella malattia improvvisa era la spiegazione ufficiale che un cambio nei rapporti di forza tra i sostenitori del golpe aveva assunto.
Poche ore prima di quel tentativo andato a vuoto, intervistato da Giampaolo Pansa per un suo libro, Borghese aveva detto: “Guardi, forse occorrerà un colpetto di stato. Se però devo dire come stanno le cose, forse non occorrerà nemmeno un colpetto. Noi – spiegava – ci verremmo a inserire, praticamente senza colpo ferire, in quel vuoto che esiste già fin d’ora”.
Quello era il tempo, e questo era il progetto. Il principe nero sarebbe morto nel 1974, portandosi tutti i suoi segreti nella tomba: quell’aspettativa che due giorni prima rispondendo a Pansa declinava ancora al futuro, corrispondeva probabilmente alla speranza che aveva coltivato, e che a partire da quel contrordine era stata irrevocabilmente consegnata al tempo passato, prima di spegnersi a Cadice, in una malinconica latitanza spagnola di cui Delle Chiaie era stato, come raccontava, l’ultimo testimone.
Quattro anni di processi – dopo la morte del “Comandante” – avrebbero prodotto nel 1978 una sentenza di compromesso, all’italiana. Una Corte di Assise avrebbe condannato 46 dei 78 imputati, ma aggiungendo anche che il colpo di stato “era una gesto velleitario e inutile”.
Nel 1986 la Corte di Cassazione confermò quella sentenza. In “Cuori neri” avevo riassunto così quell’imponente dispositivo: “Borghese e i suoi il golpe volevano farlo, ma secondi i giudici non erano in grado di farlo”.
Mi sembra ancora oggi una buona sintesi dell’incredibile modo in cui si sono scritte le sentenze più delicate della nostra storia repubblicana. Malori attivi, golpisti incapaci, vittime che vengono condannate al posto degli stragisti.
È per tutto questo, forse, che il miglior documento sulla strage resta l’immortale film di Mario Monicelli “Vogliamo i colonnelli”, quella farsesca ed esilarante commedia in bianco e nero dove un memorabile Ugo Tognazzi si ritrova a capo di un manipolo di arditi, occupa la sede della Rai, e poi finisce buggerato.
Una storicizzazione in forma di commedia all’Italiana, certo. Ma tutti i golpe, fino a che non riescono, sembrano solo delle burle. Era accaduto così anche ai nostri forestali, partiti da Rieti dopo qualche festosa e pantagruelica scorpacciata di porchetta?
Quali immortali pagine avrebbe potute scrivere lo scrittore spagnolo, se si fosse messo a scandagliare la storia del raffreddore del generale Fanali? Ebbene, io dentro l’archivio dei processi per terrorismo conservato a Palazzo San Macuto, quasi per caso, mi ero imbattuto in un documento che confermava con incredibile e fotografica esattezza questa corrispondenza inquietante tra potenzialità e atto.
Mi ero ritrovato tra le mani in un allegato agli atti, il messaggio alla nazione che Borghese si era scritto da sé, per il discorso che aveva in animo di pronunciare la notte del 7 dicembre, ai microfoni della Rai occupata. Bastano le prime tre righe per capirne il senso: “Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo morale ed economico – per Borghese si trattava della democrazia, ovviamente – ha cessato di esistere”.
Chi volesse ripercorrere il testo integrale, ovviamente, lo può trovare a pagina 151 di “Cuori neri”. Ma la cosa che mi colpiva, in quelle deliranti parole, era il passaggio in cui Borghese annunciava, con prosa ottocentesca, ma ricorrendo anche agli stilemi più classici della lingua dittatoriale, una lingua universale che è stata parlata in tutti i continenti del pianeta: “Le forze armate hanno reso inoffensivi gli avversari più pericolosi, quelli, per intenderci, che volevano asservire la patria allo straniero”.
Quella notte Enrico Berlinguer e tutti i dirigenti del partito comunista italiano, come ha recentemente raccontato nel suo libro di memorie anche il caposcorta del segretario del Pci, Alberto Menichelli, avevano dormito fuori casa.
Se le aspettative di Borghese e Delle Chiaie il 7 dicembre del 1970 si fossero realizzate, “i sovversivi” (deputati, politici, giornalisti, di area comunista, laico radicale e socialista) sarebbero stati tutti deportati in una base americana nella disponibilità degli uomini di Gladio a Capo Marrargiu, a pochi chilometri da Alghero e Bosa, in una costa incantevole che quasi ogni estate percorro, incantato dal paesaggio (ma sempre attraversato da un pensiero oscuro che mi rimanda a quella ipotesi).
Sandro Curzi, all’epoca già vicedirettore di Paese sera (anche lui nella famosa e dettagliata lista) quando seduto su di un divanetto di Montecitorio ricordava quel dettaglio della sua biografia, abbandonava il suo sorriso e aggrottando le sopracciglia mi diceva: “Se non sono finito a capo Marrargiu lo devo al fatto che Borghese e Delle Chiaie quella sera hanno combinato qualche casino. Sono molto contento, non li ringrazierò mai, ma mi piacerebbe tanto chiedergli cosa è successo”.
Curzi purtroppo è morto nel 2008, senza poter vedere appagato questo suo desiderio. Io avevo davanti a me la faccia di Delle Chiaie illuminata da un sorriso di sfinge, dentro un caffè di via Sabotino, ad un passo da piazza Mazzini, a Roma, nel giorno in cui speravo di poter ottenere quella risposta.
Nel libro che quel giorno Delle Chiaie ci aveva promesso che per la prima volta il fondatore di Avanguardia Nazionale avrebbe raccontato la sua verità: ed anche per questo, “l’Aquila e il condor” componeva un racconto a tratti persino avvincente.
Il fatto che a mio avviso fosse un libro che non diceva tutta la verità non faceva venire meno questo aspetto. Quando l’ex “primula nera” ci aveva proposto di pubblicare una sua autobiografia, siccome il criterio discriminante della collana non era una discriminante ideologica ma l’interesse storico (e il nostro gusto personale) sia la casa editrice che il sottoscritto gli avevamo risposto che eravamo interessati al progetto.
Quel pomeriggio avevamo parlato a lungo. E in quell’occasione avevamo provato a porre al fondatore di Avanguardia un’unica condizione: “Devi filmare tutte le interviste che farai con i tuoi coautori. E devi sforzarti di raccontare tutto quello che puoi”.
Delle Chiaie – infatti – aveva già trovato due validi giornalisti con cui scrivere le sue memorie: Massimiliano Griner e Umberto Berlenghini.
Quel giorno era accompagnato dai due, e da un “attendente” che lo trattava con deferenza. Alternava sorrisi e facce seriose, aneddoti e squarci di verità, ad esempio nella ricostruzione minuziosa, e piena di aneddoti, non solo a riguardo del golpe, ma con particolare dovizia di dettagli proprio nella ricostruzione della notte dell’Immacolata.
Ad un tratto gli avevo chiesto: “Scusi, ma lei non ha detto sempre che in quei giorni non era in Italia perché si trovava già latitante in Spagna?”. L’attendente si era girato verso di lui, quasi interdetto, così come i due colleghi che erano presenti, che lo guardavano in attesa della risposta.
Delle Chiaie aveva risposto soltanto: “Già”. E aveva sorriso. Tutto qui. Anche nel libro, alla fine, avrebbe raccontato che quella sera si trovava in Spagna. Ma quel sorriso, l’ambiguità soave e minimale di quella risposta, su quelle pagine non avrebbe potuto essere rappresentata, e infatti non c’è.
Un sorriso non è nulla. Un tono, un discorso, un atteggiamento lo sono: non una prova di alcunché, ovviamente, nessuna certezza, ma solo lo spazio di una ambiguità. Questo sorriso lo registro in queste righe, come un ambiguo viatico, solo per metterlo agli atti.
Mentre discutevamo – infatti – mi veniva in mente che senza il corredo delle sue espressioni quella testimonianza sarebbe stata mutilata e incompleta. Quel giorno per esempio “Er Caccola” (a lui quel soprannome non dava fastidio, gli sembrava una burla, un gioco, un accessorio anedottico irrilevante) mi aveva detto che i tempi gli sembravano maturi per ammettere che nella strage di piazza Fontana lui riconosceva la mano dei gruppi ordinovisti veneti.
Lo diceva anche per sostenere l’estraneità dei camerati romani, ovvero di quelli che guidava lui. Ma me lo aveva detto proprio così, aggiungendo che spiegarlo in modo informale era ovviamente meno complesso che scriverlo, perché dopo tanti anni bisognava ricostruire la storia senza cercare chiamate di correo, o senza correre il rischio di giocare alla delazione.
Il solito problema, il solito alibi, la solita verità. Aveva aggiunto. “Ho avuto modo di conoscere Franco Freda nel 1964, e tra noi non c’è mai stato buono sangue”. Mentre me lo diceva mi chiedevo: “Sarà vero?”.
Ebbene, quando poi ero andato a leggere – avidamente – il capitolo del manoscritto, non solo non avevo trovato chiamate di correo, ma avevo scoperto che quella verità sostanziale che Delle Chiaie mi aveva spontaneamente comunicato nel caffè di via Sabotino, era stata poi diluita, annegata e fatta scomparire in un diluvio di documenti, citazioni, fatti, che erano stati agitati come fumogeni per non arrivare al punto.
Gli unici accenni rimasti erano l’incontro con Freda e il primo riferimento del capitolo al 12 dicembre 1969: “Quel giorno l’Italia si scontrò con il mistero di una violenza nichilista”. Quello per Delle Chiaie non era un aggettivo casuale, o poetico.
“Nichilisti”, infatti, erano i nazisti veneti, così diversi, secondo lui, da quelli capitolini, più ridanciani e goliardici, privi di ossessioni razzistico-biologiche. I “veneti” erano un altro mondo, secondo lui: freddi determinati, disposti a tutto, “pazzi”.
Possibile che in uno dei più ideologici universi politici, quello del neonazismo degli anni settanta, le differenze geografiche contassero così tanto?
Mentre scrivo mi ritorna in mente una battuta di Fabietto Gaudenzi, uno dei leader dei nazi-maoisti, un’altra corrente corposa della destra radicale di quel tempo: “Ai congressi circolava una battuta. Un giorno era arrivato dalla provincia un camerata un po’ sprovveduto, da fuori aveva chiesto: ‘Scusate, esiste davvero l’ala neonazista del nostro movimento?’.
E gli altri dopo essersi fatti una sonora risata gli avevano risposto: ‘Più che un’ala c’è tutto il pollo”. Invece “Nichilista”, nella testa del Delle Chiaie di oggi, era una misura, ma anche una identità: la distanza tra lui e loro.
Subito dopo però, riga dopo riga, il capitolo si infittiva di ricostruzioni, e veniva saturato di precisazioni legate alle necessità auto-difensive. Le parole pronunciate nella nostra chiacchierata erano state brutali e semplificatorie ma inequivocabili.
Nel libro invece quella verità storica scompariva: come se fosse stata da un lato annacquata in un diluvio di fatti accessori, e dall’altro liofilizzata in un solo aggettivo. Quali erano gli altri fatti importanti? Questi.
Sia nel suo libro, sia nella lunga intervista resa a Nicola Rao per la Trilogia della Celtica, Delle Chiaie doveva spiegare, per esempio, la complicatissima vicenda dell’alibi di Mario Merlino il giorno della strage di piazza Fontana.
Un alibi che, poi, era rappresentato nientemeno che da lui stesso. E doveva tenere insieme un apparato di affermazioni che a prima vista scricchiolava, da almeno quarant’anni.
Per dire: il giorno della strage il suo ex camerata Merlino, che lui non vedeva da anni (e che quindi, secondo lui, non era un suo infiltrato nel gruppo anarchico di Pietro Valpreda, come suggeriscono tutta la pubblicistica di sinistra e le indagini), lo incontra per puro caso, gli chiede un appuntamento per parlargli di una sua crisi di coscienza.
Merlino glielo concede, convocandolo a casa sua. E poi – come se non bastasse – si dimentica di andarci, a quell’appuntamento. E infine viene a sapere della Strage da una telefonata dell’amico Guido Paglia (oggi noto e apprezzato dirigente Rai), che gli arriva in maniera rocambolesca, grazie all’attività di provvida centralinista fornita dalla moglie di un benzinaio.
Poi, però, Delle Chiaie non sa se davanti alla polizia deve confermare l’alibi di Merlino oppure no: mentre spiega questo dilemma ci dice che per decidere si consulta con i suoi genitori. Dopodiché, però, deve anche difendere il ruolo della sua organizzazione, ma deve anche ammettere (come farà molte altre volte nel libro, anche a proposito dei primi tentativi golpisti degli anni settanta) di essere stato ingannato da un infiltrato (in questo caso l’agente Serpieri) ma anche dall’”agente Z” Guido Giannettini (secondo lui al soldo dei servizi segreti).
E contemporaneamente ci tiene anche di essere stato buon amico di Ives Guerin De Sac, il capo dell’Aginter Press, una agenzia giornalistica dietro cui si celava una attività di controspionaggio. Deve strutturalmente tenere insieme due esigenze opposte: da un lato quella che lo spinge a raccontare l’incredibile numero di imprese a cui ha preso parte, ma dall’altro anche minimizzarle per evitare di entrare in contraddizioni processuali.
Perché se in un interrogatorio o in un dibattimento hai dichiarato delle cose, poi non puoi far finta di dimenticartelo.
Troppe cose da tenere insieme, troppi conti che non tornano, insieme a degli indubbi frammenti di verità, e delle indubbie zone di ambiguità. Certo. Eppure Delle Chiaie non è, e non sarà mai la figura di comodo rappresentata da una certa pubblicistica controinchiestistica.
L’ultima filiazione di questo filone nato nella sinistra extraparlamentare è il personaggio che lo incarna nel “Piazza Fontana” di Marco Tullio Giordana. Quel Delle Chiaie è una specie di gorilla ebete, del tutto semidemente, che fa da zelante attendente al Principe Borghese, parla un romanesco da osteria dei castelli e non capisce un tubo.
Il principe del film, stranamente raffinato, disprezza la “macelleria” degli stragisti, lui, il Delle Chiaie ricostruito dal Marco Tullio Giordana e dai suoi sceneggiatori ne è invece il prototipo: si eccita per la notizia del fatto di sangue, come se la strage fosse una partita di calcio e i morti goal su cui esultare.
Ebbene, per quanto possa essere deludente, e di certo poco rassicurante, il Delle Chiaie che ho conosciuto io non è affatto così. Forse ne “l’Aquila e il condor”, il grosso punto di incongruenza è che provando a mostrarsi persino troppo “Candide” per tenere insieme tutte queste verità, Delle Chiaie è costretto a dipingersi come un uomo inverosimilmente ingenuo.
Ma nessuno che sia dotato di buonsenso può pensare che un uomo così credulo potrebbe aver ricoperto i ruoli che conosciamo. Delle Chiaie è stato il braccio armato del golpe, poi il capo di una centrale internazionale di latitanti neri in Spagna e poi – come racconta lui stesso – sarà assoldato come “consulente speciale” (non chiedetevi in cosa) da un signore che si chiama Augusto Pinochet.
L’ex “primula nera” non è convincente, e io credo che lo sappia bene, quando parlando del celebre viaggio di istruzione dei militanti neofascisti nella Grecia dei colonnelli, uno dei passaggi importanti nella cronistoria della strategia della tensione, lo definisce addirittura “una gita”.
In realtà credo di avere una opinione molto netta su cosa avrebbe dovuto fare Delle Chiaie. Adesso che i processi non incombono più, adesso che una verità giudiziaria su Piazza Fontana nel bene o nel male è stata raggiunta (e che purtroppo è rassicurante e assolutoria per gli ex ordinovisti “Nichilisti”), avrebbe potuto provare a raccontare una verità storica, mettere nero su bianco quello che informalmente dice.
E non a ritagliare in mezzo alle carte un origami della propria biografia politica, che lo vede a volte terribilmente ingenuo, a volte troppo leale, a volte persino sprovveduto, ma sempre e comunque estraneo ai fatti.
Con questo non voglio dire che avrebbe dovuto battere il petto, o autoaccusarsi, calarsi nei panni improbabili di un pentito. Ma uscire, perlomeno, dal difetto fatale della memorialistica della grande maggior parte dei protagonisti della destra extraparlamentare, che non riescono mai a raccontare veramente l’altra zona grigia, quella in cui hanno vissuto.
Questa ambiguità è uno spazio in cui non solo il confine retorico fra “il bene” e “il male” si fa labile, ma anche quello fra verosimile e irreale, fra documento e velina, fra militanza ed eversione, fra manipolazione consapevole e inconsapevole, fra racconto e autocelebrazione.
È divertente scoprire da Delle Chiaie stesso che, quando Avanguardia sosteva la candidatura di Paolo Signorelli alla Camera, lo slogan fosse: “32 Signorelli. Porta una bomba in Parlamento”. Ma qui la goliardia è una via di fuga.
Detto tutto questo, la rabbia per essere stato beffato si attenuava. Lo confesso, il racconto di Delle Chiaie alla fine finiva per intrigarmi perché, al di là delle elusioni sugli episodi cruciali, su un altro livello, ci restituiva un frammento di verità.
Non su quello dei fatti, ma su quello della sostanza, del mood, del clima. Delle Chiaie descrive benissimo sia l’ambiente missino e paramissino degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta a Roma, sia quello della latitanza in Spagna e del Sudamerica negli anni Ottanta.
Nel primo caso ci sono quadretti irresistibili, come quello dei futuri leader politici o sindaci di Roma che assaltano con la tanica di benzina in mano, ma rigorosamente in divisa, la libreria Rinascita: “Nel marzo del 1955 ci fu un assalto a Botteghe Oscure. Ci radunammo nella sezione Colle Oppio, indossammo la divisa di Guardia al labaro – camicia verde, cravatta nera e fascia al braccio – e salimmo in un pullman noleggiato che ci portò nei pressi. La spedizione era guidata da Vittorio Sbardella, Massimo Anderson e altri dirigenti giovanili”.
Ancora più incredibile lo scenario dell’azione raccontato da Delle Chiaie, rivelando che l’obiettivo non era mai stato – come gli stessi militanti del Pci pensavano la libreria – addirittura la stessa direzione del partito comunista: “L’idea era quello di irrompere nella sede del Pci. Poi, per quello che ne sapevamo, sarebbe giunto a copertura un gruppo armato a bordo di un’auto”.
Non indulgo sui dettagli, e corro all’epilogo, davvero imperdibile, soprattutto nella sintesi del protagonista: “Cominciamo a lanciare bottiglie molotov e sassi, che frantumarono le vetrine della libreria Rinascita, a pochi metri dall’ingresso. Mario Gionfrida, detto ‘er gatto’, aveva due bombe carta e commise l’errore di lanciare per prima quella la cui miccia era stata accesa per seconda”.
Grave errore. “L’altro ordigno – spiega Delle Chiaie – gli scoppiò in mano troncandogli di netto l’avambraccio destro”. Epilogo surreale: “L’auto con il gruppo armato non arrivò e fummo costretti a ripiegare mentre ‘er gatto’, al quale non mancavano coraggio e sangue freddo, imprecava contro i comunisti incolpandoli della mutilazione”.
È vero, un racconto così, il nichilista Freda non l’avrebbe mai potuto fare. Qui davvero solo il genio di Monicelli sarebbe potuto venirci in soccorso, solo lui avrebbe potuto raccontare meglio questa scena, dando un volto e una espressione allo sdegno di Gionfrida che, dopo aver confuso gli ordigni, riusciva ad inveire contro i destinatari dei suoi assalti come se fossero colpevoli della sua disfatta.
Ma gli epiteti zoologici e immaginifici nella lingua informale della destra romana erano tanti e non solo circoscritti alla temeraria furia de “Er Gatto”. Faccio un altro esempio. Quanta ironia, consapevole o inconsapevole c’è in questo bilancio dopo un assalto al British Council del 1953?
Lascio giudicare voi il repertorio onomastico dei Camerati riassunto dallo stesso fondatore di Avanguardia: “La polizia seppe dei fumogeni ad altezza d’uomo: vi furono molti feriti tra cui Bruno Onori detto ‘Ciancicone’, che insieme ad altri, come ‘Er Capone’, ‘Er Caccetta’, ‘Gnappa’, ‘Balena’, eccetera, rappresentavano lo zoccolo duro della sezione Appio Metronio”. Balena eccetera. Qui il tono di Delle Chiaie non è solo colore, ma anche sostanza, è ritratto. Solo a Roma la politica, e persino l’eversione, diventano sempre e soltanto romanzo.
E poi, ovviamente, in questo racconto, c’è un elemento molto meno faceto che raramente è stato dipinto con tanta chiarezza: ovvero la rappresentazione vivida del limbo in cui la famiglia allargata della destra vive in modo vagamente promiscuo la sua storia, dentro e fuori il Movimento sociale, con alterne vicende che a tratti sembrano dirette dall’unica regola delle passioni personali e del caso.
A sinistra nulla di tutto questo sarebbe stato possibile: a sinistra, i gruppi, anche i più pulviscolari di quel tempo, nascevano su presupposti ideologici o teologici, si contaminavano poco o nulla, le scissioni erano cose serie.
Invece quel Movimento sociale dipinto da Delle Chiaie come un genitore con cui si fa a botte senza interrompere i rapporti, è una specie di casa madre in cui si entra e si esce come un albergo a ore: in un congresso a favore di Almirante e in odio a Michelini, in quello dopo a favore di Michelini e in odio ad Almirante, a cui non si rivolge parola, nemmeno incontrandolo in ascensore.
Poi di nuovo in conflitto con il nuovo segretario ma con meno acrimonia, giungendo addirittura a consultarsi con lui nei momenti di difficoltà, quindi pensando di fare una lista contro il Msi ma mutando improvvisamente proposito – pare – dopo aver scoperto che la massoneria avrebbe sostenuto volentieri i dissidente di Almirante.
Era nella fotografia di questo limbo politico, la spiegazione di queste dinamiche, il valore della testimonianza di Delle Chiaie, e sono contento che tutto questo nel libro poi ci sia finito.
Altro episodio esemplare: c’è un giorno in cui uomini legati ai servizi, secondo la stessa testimonianza di Delle Chiaeie, si spingono fino a proporgli un sequestro. Ma era stato quando la primula nera aveva fatto cadere il nome del bersaglio che avevamo fatto un salto sulla sedia.
Sentite: “In una serata del luglio 1964, mentre ero in riunione nella sede di Avanguardia, Cataldo Strippoli mi avvertì che Peppe Coltellacci aveva urgenza di parlarmi. Lo raggiunsi immediatamente nel suo appartamento dell’Eur e con grande stupore mi sentii proporre il sequestro di Aldo Moro”.
Avete letto bene: Aldo Moro! Attenzione alle date: siamo nel 1964, tredici anni prima del massacro di via Fani, il leader della Dc non è ancora l’uomo del dialogo con i comunisti, ma con i socialisti, mentre nascono i primi governi di centrosinistra.
Ed ecco le circostanze: “Coltellacci era particolarmente agitato. Ci fece passare in salotto, dove era in attesa uno sconosciuto”.
Dopodiché, senza presentare l’estraneo, Coltellacci, camerata che fino al giorno prima gravitava nel giro senza destare sospetti dice: “Questo signore rappresenta un settore indispensabile per cambiare immediatamente le cose, ma prima è necessario un vostro decisivo contributo. Bisogna sequestrare Aldo Moro – spiega nel racconto di Delle Chiaie Coltellacci – per impedirgli di andare in Parlamento a presentare il suo nuovo governo. È in una villa vicino Roma, Siete in grado di effettuare questa azione?”.
Ovviamente si fa un salto sulla sedia. Moro sequestrato su mandato dei servizi nel 1964? Era davvero così sottile, e facile da attraversare la linea di confine tra gli apparati occulti e la destra, nel tempo del muro?
E se Delle Chiaie, che racconta di aver detto no, avesse accettato, che cosa sarebbe accaduto? Di nuovo mi torna in mente l’immagine esemplificativa che mi è più cara, quella della strategia della tensione intesa non come un semplice gioco di marionette, come piace immaginare ai dietrologi, ma come un grande labirinto in cui qualcuno ha manovrato per anni per fare in modo che tutto andasse secondo i suoi disegni.
Forse solo questa testimonianza, e la sua datazione, valeva tutto il libro, e compensava miei dubbi: l’uomo che ha pagato con la vita l’alleanza con Berlinguer, era già nel mirino di qualche apparato occulto per quella con Nenni.
C’è poi un altro racconto “esemplare”, quello su quando, quattro anni dopo, gli stessi servizi propongono a Delle Chiaie di affiggere manifesti maoisti, o nazimaoisti. E il bello è che quella volta gli Avanguardisti lo fanno, e l’ex primula nera si spinge anche fino ad ammette (salvo scoprire poi di essere stati manovrati) di aver creduto ad un camerata (fra l’altro, un futuro giornalista di La Repubblica) che all’epoca gli Avanguardisti consideravano fidatissimo e che invece secondo lui oggi non lo è poi tanto.
Di nuovo in questa destra che ribolle ricompare una zona grigia in cui tutto si fa indistinto e in cui nulla è chiaro. I Pacciardiani secondo Delle Chiaie, al contrario dei suoi Avanguardisti, sono infidi, manovrati, organicamente collusi con i servizi atlantici.
Ma due anni dopo, gli stessi camerati vanno difesi sulle scalinate della Sapienza. I missini della spedizione all’università sono nemici, ma poi bisogna pure difenderli dalla controffensiva dei militanti di sinistra.
Tutto cambia di continuo, tutti sono amici, ma anche nemici, traditori, ma anche degni di fede, tutto diventa possibile, anche l’inverosimile. Certo, i dettagli di questa storia possono essere davvero i cardini cigolanti e arrugginiti di una autodifesa necessaria.
Possono cioè essere costruiti per allontanare sempre il sospetto infamante di avere avuto a che fare con i poteri deviati. Ma non è tutto qui, e non è solo questo il punto.
E invece non c’è bisogno di Le Carrè per capire che in un ambiente così ad alto tasso di infiltrazione: è lo stesso Delle Chiaie a fornire – apparentemente parlando di altri – la spiegazione di una possibile convergenza, quando spiega che molti camerati consideravano i poteri atlantici il male minore rispetto al rischio di una dittatura comunista.
Questo molto probabilmente è un racconto reticente, difensivo e a tratti irreale. Ma allo stesso tempo può essere malgrado tutto una memoria in qualche modo fedele alla realtà. Fedele perché ricostruisce il contesto, il sapore lo Zeitgeist di un tempo vissuto, nel bene e nel male, nella galassia dei papà dei “Cuori neri”.
Me ne ero andato da quel bar di Prati e mi ero deciso a pubblicare quel libro, perché mi ero convinto che ci fosse un modo utile in cui le nuove generazioni di lettori, di destra e di sinistra, avrebbero potuto soppesare quella testimonianza.
Non per scoprire la verità, ma di certo per poter comprendere almeno una verità: arbitraria, forse, ma necessaria per chi è interessato a ricostruire un quadro tridimensionale, complesso, e se non altro comprensibile della stagione terribile che questo paese ha attraversato.
Il racconto di Delle Chiaie, per ora, è l’unica “voce di dentro”, l‘unica memoria che il golpe ci abbia consegnato. Adesso che Delle Chiaie è morto siamo autorizzati a pensare che sarà anche l’ultima.