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Perché gli italiani non leggono più i giornali

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Credit: Unsplash

Un sondaggio rivela la perdita di credibilità dei media tradizionali agli occhi dei lettori. E la polarizzazione del dibattito li allontana ancora di più

Gli italiani sono sempre meno interessati a leggere le notizie, di qualsiasi genere. Tutte le ricerche di mercato lo confermano. Due fra le più importanti pubblicate negli ultimi mesi sono il Reuters Institute Digital News Report 2023, uscito a giugno, e il Sistema Audipress, la cui ultima edizione è stata diffusa lo scorso settembre.

Le rilevazioni di Audipress si basano su interviste personali realizzate – per mano degli istituti di ricerca Doxa e Ipsos – su un campione statisticamente rappresentativo di tutta la popolazione italiana adulta (14 anni e oltre). Le risultanze sono particolarmente affidabili poiché sono sottoposte alla verifica di una società di controllo esterna (Reply Consulting) e vengono poi trasmessi all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

Ebbene, dall’ultimo rapporto Audipress emerge che, se nel 2018 il 76% degli italiani sopra i 14 anni leggeva o almeno sfogliava una versione cartacea o digitale di quotidiani, settimanali o mensili (in media almeno una volta in un giorno nel corso di una settimana, almeno un settimanale negli ultimi 7 giorni e almeno un mensile negli ultimi 30 giorni), nel 2023 questa percentuale è scesa al 61%. In particolare, in questi cinque anni i quotidiani sono scesi dal 31% di lettori al 23%, i settimanali dal 26 al 17% e i mensili dal 23 al 16%.

Se osserviamo il fenomeno di allontanamento dall’informazione in base al ceto sociale di appartenenza, scopriamo che sono gli imprenditori e i liberi professionisti ad avere ridotto più drasticamente le loro abitudini di lettura dei quotidiani: dal 2018 al 2023 questa categoria mostra un crollo di 14 punti percentuali, seguita da negozianti, artigiani, lavoratori in proprio e impiegati, con un calo di 11 punti, dagli, operai (-10 punti) e da studenti, casalinghe e pensionati (-5 punti).

Emorragia
L’appiattimento crescente dei comportamenti tra i vari ceti sociali è lo specchio di una società che sta cambiando, che si ritrova ad essere sempre più frammentata (a prescindere dai problemi con i media) e caratterizzata da un’elevata polarizzazione, in cui il ceto medio sta scomparendo e crescono solo le differenze tra la parte altissima e bassissima della società.

A spiegarlo è Luca De Biase, giornalista, fondatore e direttore di Nòva, settimanale di scienza, tecnologia e innovazione del Sole 24 Ore e presidente del Comitato scientifico dell’associazione MediaCivici. 

Ospite del convegno “Non ci vogliamo più informare” di Glocal, che si è tenuto lo scorso novembre a Varese, De Biase ha sottolineato come, in una comunità che non sta insieme, che non possiede più un luogo in cui comunicare qualcosa su cui siano d’accordo tutti, è difficile trovare una modalità univoca e credibile per informare tutti.

Ciò che vede e percepisce il vertice della piramide è diverso da ciò che vede e percepisce chi sta alla base. Le persone si ritrovano chiuse nelle “echo chambers”, bolle in cui vengono riconfermati i propri bias. Il fenomeno, alimentato anche dalle politiche decennali di cookies e oggi ancor di più dall’intelligenza artificiale, porta i lettori a consolidare sempre più le proprie convinzioni, ritrovandosi continuamente esposti allo stesso tipo di informazione.

Eccoci allora al nocciolo della questione: la perdita di credibilità dei media tradizionali. Secondo il Rapporto 2023 del Reuters Institute, in Italia la fiducia nelle notizie nel 2021 aveva ripreso forza (40%) dopo il drastico crollo nel 2020 in periodo di pandemia (in cui era scesa al 29%), ma oggi è tornata a calare: nel 2023 solo il 34% della popolazione italiana si fida dei media.

Per De Biase i giornalisti, impotenti di fronte a problemi come la polarizzazione economica e la frammentazione della società, possono e devono invece contrastare la radicalizzazione delle idee. Vanno ricercati e alimentati quei luoghi in cui tutti sono d’accordo almeno sui fatti e in cui le uniche divergenze devono riguardare le opinioni su questi.

Per raggiungere l’obiettivo, è necessario che si combatta per l’utilizzo del giusto metodo giornalistico, che si combatta la tentazione di amalgamarsi alla massa, di seguire la corrente, di farsi sedurre dal successo e dall’approvazione collettiva.

«Non si tratta soltanto di deontologia professionale, fondamentale ma non sufficiente, ma di epistemologia, cioè di conoscenza di come conosciamo», osserva De Biase. «Cito l’ultimo grande filosofo in materia, cioè Woody Allen, che in un suo corso di epistemologia proponeva la domanda: “è conoscibile la conoscenza, e se non lo è come facciamo a saperlo?”».

Una seconda ragione alla base di questa emorragia di lettori è poi la difficile congiuntura economica in atto, peraltro non solo in Italia ma su scala globale. Il Reuters Institute evidenzia come il 77% delle persone del mondo sia colpito da inflazione dilagante, insicurezza lavorativa e crescenti livelli di povertà.

E dall’indagine dell’istituto britannico emerge che un abbonato su cinque (in media il 23%) ha cancellato almeno uno degli abbonamenti alle notizie in corso, mentre un numero simile afferma di aver negoziato un prezzo più basso.

In un contesto di ristrettezze economiche, in cui molti utenti devono scegliere quali spese tagliare, il 51% degli intervistati dal Reuters Institute afferma che ci si abbona a un quotidiano o a un periodico solo se esso consente l’accesso ad un giornalismo di migliore qualità o più distintivo.

Che fare?
Riccardo Sorrentino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano, anche lui relatore al convegno “Non ci vogliamo più informare”, la vede così: «C’è una domanda molto forte da parte dei nostri lettori affinché noi trasformiamo il nostro ruolo in quello di traduttore culturale, cioè di persone in grado di mettere in collegamento le competenze degli esperti (avvocati, magistrati, giudici, eccetera) e il grande pubblico, che non è per forza fatto solo dalla casalinga ma anche e soprattutto da medici e liberi professionisti che non sanno nulla di diritto o altre materie specialistiche non di loro competenza».

È aumentata infatti negli ultimi anni l’insofferenza verso le notizie, anche per la mancanza di chiarezza e per un’esposizione troppo tecnica e poco comprensibile su argomenti che solo gli esperti del settore conoscono. 

«Carlo Goldoni – osserva Sorrentino – veniva accusato di non dire la verità nelle sue commedie, perché la realtà di Venezia era molto più grave di quella che lui raccontava criticandola. Poi in una lettera confessò che, se avesse scritto la verità, non gli avrebbero creduto». Si pone dunque  un interrogativo: verosimiglianza o verità? Esiste sempre una narrativa, un frame che corrisponde al racconto verosimile accettato dalla collettività. Se il giornalista esce fuori da quel frame, raccontando la pura verità dei fatti senza filtri, rischia di non essere preso sul serio. Il professionista che segue la corrente riscontra sicuramente un maggior successo – fa notare il presidente dell’Ordine milanese – ma non fa bene il suo mestiere: diventa più commediografo che giornalista e questo, alla lunga, si paga con la perdita di credibilità. 

Sorrentino invita poi a riflettere invece sull’efficacia di un’altra modalità di raccontare le notizie che potrebbe riavvicinare il lettore al mondo dell’informazione: il giornalismo d’inchiesta.

Si lavora su ipotesi giornalistiche e non su tesi, su ogni tema si impiegano settimane di ricerca grazie al sostegno di professionalità esterne quali statistici, programmatori e commercialisti specializzati in lettura di bilanci e documenti contabili per indagare su situazioni di tipo patologico e poter quindi corroborare le ipotesi iniziali. Questo modo di lavorare piace al lettore e, secondo Sorrentino, potrà aiutare a ridare credibilità ai media, non soltanto perché dà più sicurezza e fiducia sulla veridicità dei fatti, ma anche perché rende l’accaduto più facile da comprendere.

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