L’ombra di Gladio sul caso Impastato
Il giornalista ucciso dalla mafia 44 anni fa stava indagando anche sulla strage di Alcamo Marina. Una pista che porta all’organizzazione Stay Behind. TPI ha sentito Leonardo Badalamenti, figlio del boss di Cinisi. L'articolo sul nuovo numero di The Post Internazionale
«Basta dire che sono vivo, e non mi sembra scontato…», dice quasi a bassa voce Leonardo Badalamenti, figlio del boss “dei due continenti” Gaetano, passato alla storia come “Tano Seduto”, nomignolo affibbiatogli dal giornalista e attivista Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978, «la notte buia dello Stato italiano» in cui a Roma fu trovato il cadavere di Aldo Moro.
A Cinisi il passato bussa ancora alle porte. Così, la vicenda di un caseggiato “conteso” tra il Comune di Cinisi e l’erede di don Tano Badalamenti, ha finito per esporre i nervi scoperti in uno dei fazzoletti di Sicilia più complessi. «Io volevo soltanto che mi restituissero l’immobile, ma evidentemente la sentenza di un Tribunale non è abbastanza per essere rispettata, se si tratta di Leonardo Badalamenti». Il secondogenito di don Tano non si racconta con piacere e fatica a rispolverare i ricordi dalla memoria, in cui i confini tra fatti di mafia e depistaggi di Stato restano labili. Lo fa rievocando una parabola, in cui il padre, da capomafia di Cinisi, imparentato con i potenti Rimi di Alcamo, riuscì a sedere nella commissione regionale di Cosa Nostra, in un “triumvirato” con Stefano Bontate e Luciano Liggio, fino alla destituzione per volontà di Totò Riina. In mezzo, l’assassinio di Impastato.
Nelle sue trasmissioni radiofoniche, Peppino raccontava di “Mafiopoli” e dei traffici di droga di “Tano Seduto”, ma la sua morte ha rischiato di essere liquidata come “il suicidio di un terrorista”, nonostante le denunce dei compagni e della madre Felicia. La condanna all’ergastolo per don Tano è nel 2002; dopo due anni, nel 2004, il boss è morto da detenuto nella prigione federale di Devens, nel Massachusetts. «Quando si parla di Badalamenti si fa sempre riferimento al caso Impastato. Questo delitto segna il destino della mia famiglia ed il mio. Io non so se mio padre è stato realmente responsabile del delitto Impastato, voglio pensare che non sia così, ma io non sono capace di giudicare una vicenda così complessa».
La storia di Peppino è ricostruita nel film I cento passi, che andò al cinema in prossimità del rinvio a giudizio del boss, il quale fece sapere di avere una «verità ben diversa». «In effetti, colui che è stato condannato assieme a mio padre, in quegli anni, non aveva più alcun rapporto con lui», dice Badalamenti jr., masticando la frase con difficoltà. Il pentito per eccellenza, Tommaso Buscetta, racconterà che in quegli anni – mese più, mese meno – don Tano era stato “posato”, messo da parte, e di certo, la sentenza ha mandato in soffitta alcuni dei sospetti insoluti sulla morte di Peppino Impastato, come una strana perquisizione nella sua stanza, in cui fu sequestrato un dossier che aveva raccolto sulla strage di Alcamo Marina, avvenuta nel 1976 con lo strano eccidio dei due carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.
«Peppino aveva iniziato a raccogliere informazioni sulla questione, notizie che accumulava in una specie di dossier: una cartelletta che fu sequestrata e mai più restituita», ricorda Giovanni Impastato, fratello dell’attivista-giornalista. «La strage di Alcamo Marina? Io non la ricordo», dice invece Badalamenti jr, quando TPI gli chiede della vicenda.
Una conferma dell’interesse di Peppino, seppur labile, è emersa da alcuni documenti, sequestrati dai carabinieri il giorno della sua morte, e racchiusi in una cartelletta con su scritto “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”, ritrovata nel corso delle indagini ed esplorata nel 2012, quando i pm di Palermo iniziarono ad indagare per depistaggio nei confronti del generale Antonio Subranni: indagine poi archiviata. Lo spunto recentemente è balzato nuovamente fuori da un’indagine della commissione parlamentare Antimafia, tuttora in corso, e dalle dichiarazioni di un ex poliziotto di Alcamo, Antonio Federico, che ha riferito le confidenze di una fonte qualificata, fatte nel ’93-’94, tra cui che «dietro la strage ci sono gli uomini di Gladio». Ad ulteriori chiarimenti, la gola profonda avrebbe raccontato che «probabilmente i due carabinieri avevano visto qualcosa che non dovevano vedere, forse mentre erano incolonnati in una stradina avevano visto l’interno di un camioncino, con del materiale pronto per il trasporto, per cui andavano uccisi».
Tutte le piste che in Sicilia portano a Gladio, tuttavia, sono rimaste pressoché inesplorate dal punto di vista giudiziario. Invece, nell’immediato della Strage della casermetta, Giuseppe Vesco, un anarchico fermato dai carabinieri, indicò quattro ragazzi, arrestati e torturati dai carabinieri comandati dall’allora capitano Giuseppe Russo, ucciso appena un anno dopo. Nel 2012, i quattro ragazzi sono stati scagionati. È possibile che Peppino Impastato avesse capito qualcosa in più sulla Strage della casermetta, appuntandolo nel dossier che secondo il fratello sarebbe stato sequestrato? Le risposte probabilmente si trovano ancora in quel quadrilatero tra Terrasini, Cinisi, Castellammare del Golfo ed Alcamo. Uno dei pentiti più autorevoli, come Francesco Di Carlo, nel corso del processo sulla Trattativa Stato-Mafia, svolto a Palermo, ha detto di aver «saputo che i cugini Salvo si sono rivolti al maggiore dei carabinieri, Antonio Subranni, per far chiudere l’indagine sulla morte di Peppino Impastato». Ad interessare i due esattori di Salemi, secondo il pentito di Altofonte, sarebbe stato don Tano (dopo una condanna in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia, in appello Subranni è stato assolto). Lo stesso capomafia che, per conto dei cugini Salvo, avrebbe attivato il colonnello Russo, per avere informazioni sulla scomparsa di Luigi Corleo, cognato degli esattori di Salemi, rapito proprio per fare uno sgarro ai potenti della Dc.
«Io non posso giudicare mio padre e di certo non voglio farlo in pubblico, ma per il mondo intero sono sempre stato “il figlio di” e non basta dire che, nonostante arresti e processi nei miei confronti, sono un uomo incensurato», racconta dalla veranda di una villetta inerpicata nell’entroterra di Castellammare del Golfo, in cui è tornato dal 2017, dopo una lunga permanenza in America Latina. Un rientro “chiacchierato” – anche perché buona parte del tesoro di don Tano è rimasto fuori dai radar – salito agli onori delle cronache proprio quando nell’estate 2020 – all’indomani della sentenza della corte d’Assise di Palermo – aveva tranciato il catenaccio del caseggiato, per sostituire la serratura. Per lunghi decenni, dalla fine degli anni Settanta, il cognome Badalamenti ha fatto il paio con quelli di altre dinastie di mafia, etichettati come “gli scappati”, per sottrarsi alla mattanza dei corleonesi di Riina. «Negli anni Ottanta, per protezione della mia sopravvivenza, sono andato in Brasile e ho cambiato identità, per rifarmi una vita, non per la giustizia italiana, ma per non essere riconosciuto. È noto che nella mia famiglia ci sono stati diversi lutti, di persone assolutamente innocenti, che sono state uccise soltanto per essere parenti di mio padre». In effetti, in circa due anni, furono uccise, in numerosissimi agguati, almeno 20 persone, tra cui familiari estranei a fatti di mafia, come il nipote del boss, Silvio, trucidato a Marsala. Don Tano e i suoi fedelissimi, invece, dai primissimi anni Ottanta, avevano fatto perdere le loro tracce: il boss sarà arrestato dall’Fbi nell’aprile 1984 a Madrid assieme al figlio Vito, e poi estradato negli Stati Uniti, per l’operazione “Pizza connection”, sulle rotte del narcotraffico, che avevano base nelle pizzerie italo-americane. Leonardo, invece, era stato arrestato alcuni mesi prima, nell’ottobre 1983 a San Paolo, assieme a “Masino” Buscetta, che da quel momento iniziò a collaborare con la giustizia italiana.
«Ad un anno dal mio arresto un importante quotidiano italiano ha scritto che io ero in carcere in Brasile e stavo per pentirmi, cosa decisamente falsa perché io non ero più detenuto e non mi trovavo neppure in Brasile. Sta di fatto che il giorno stesso fu ucciso un mio parente (Vincenzo Rimi)». La notizia dell’inizio della presunta collaborazione fu pubblicata dal Corriere della Sera, il 4 ottobre 1984 e il giorno successivo fu ripresa dal New York Times. «Questo è soltanto uno degli sgambetti, in cui ritrovare la matrice non è difficile: io non faccio nomi e non li farò, però si capisce da dove viene il discorso», aggiunge, lasciando trasparire l’impronta dei corleonesi. «Anche di mio padre, poi, iniziarono a dire le stesse cose». Le voci su un’ipotetica collaborazione di don Tano, in realtà sono rimaste avvolte da numerose incognite. Lo spessore criminale di Badalamenti ha reso inimmaginabile una collaborazione tradizionale, ricercata all’infinito dalle autorità italiane, nonostante nel 1987 sia stato condannato a 45 anni di carcere negli States per la Pizza Connection. «Ma insomma, quest’uomo si è fatto gli ultimi anni della vita in galera, ha avuto tutte le possibilità, viste le visite di tutte le personalità della magistratura siciliana, tra cui il giudice Falcone (l’unico magistrato “leale” con cui abbiamo avuto a che fare, continua Leonardo) che andavano lì a fargli delle proposte sempre rifiutate. Perché inventarsi che era un confidente quando aveva tutte le possibilità di fare un accordo, con un sacco di garanzie favorevoli, il dissequestro di tutti i beni?». In realtà, la “pazza idea” di far collaborare Badalamenti, in un primo tempo, tramontò tra i “veleni” della Procura di Palermo, anche se per molti anni la sua imputazione per il Maxiprocesso è stata congelata: il processo ha avuto inizio nel 2001 e al momento della morte di don Tano non era ancora concluso, dunque nessuna sentenza è mai diventata definitiva. Dopo le stragi del ’92, Buscetta lo chiamò in causa – riferendo il contenuto di alcune conversazioni fatte in Brasile con don Tano – anche rispetto all’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e i suoi rapporti con gli esattori Nino e Ignazio Salvo, papaveri della Dc siciliana. Il boss finì a processo con altri personaggi come Pippo Calò e Massimo Carminati, uno dei quattro re di Roma arrestato e condannato in Mafia capitale. Ma soprattutto Giulio Andreotti, con cui don Tano ha sempre negato ogni rapporto. «Mio padre ha detto che non lo ha mai conosciuto, chi sono io per aggiungere o togliere qualcosa?», continua Leonardo Badalamenti, citando la sentenza di assoluzione per la morte di Pecorelli, nei confronti di suo padre e degli altri coimputati.
Per ben due volte, nel ’94 il maresciallo Antonino Lombardo (comandante della stazione di Terrasini per vent’anni) raggiunse don Tano negli States, compilando anche delle relazioni di servizio con dei “virgolettati” del boss. Alla vigilia di un terzo viaggio, l’operazione finì in tv, attraverso un intervento dei sindaci di Palermo, Leoluca Orlando, e di Terrasini, Manlio Mele. Il 4 marzo 1995 il maresciallo Lombardo fu trovato morto con un colpo di pistola, inquadrato dai magistrati come un suicidio, nonostante i figli da tempo cerchino di far riaprire le indagini. «Io non so quali sono i motivi della morte di Lombardo, ma posso garantire che il rapporto con mio padre non c’entra nulla», racconta fuori dai denti Leonardo Badalamenti. L’ipotesi di una vera collaborazione di don Tano, tuttavia, è alimentata anche da una confidenza raccolta dal colonnello dei carabinieri, Domenico Di Petrillo (direttore del centro operativo Dia di Roma dal febbraio 1992 al maggio 1995, ndr), che ai pm di Palermo che indagavano sulla Trattativa raccontò un dettaglio di uno degli incontri con il boss negli States, per l’omicidio Pecorelli: «In una pausa di un interrogatorio svoltosi a Philadelphia, in particolare, per ben due volte egli mi disse: “Colonnello stavamo dalla stessa parte”».
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