Roma, occupazione di via Volonté a rischio sgombero, le mamme a TPI: “Riusciremo a mandare i nostri figli a scuola?”
L'immobile finanziato al 90 per cento dalla Regione Lazio, è stato venduto all'asta. I residenti in presidio dinanzi al III municipio per chiedere un incontro con l'amministrazione regionale
Via Volontè Roma Occupazione | Un presidio delle famiglie che vivono nel palazzo occupato di via Gian Maria Volonté 9, a Roma, è stato organizzato a partire da mercoledì 8 maggio a piazza Sempione, dinanzi la sede del III municipio.
Lo stabile è stato realizzato da una cooperativa con un finanziamento al 90 per cento della Regione Lazio nell’ambito del piano di zona Casale Nei. Dopo il fallimento della cooperativa costruttrice, l’immobile è stato di recente venduto all’asta.
“Alcune settimane fa siamo andati in Regione”, racconta a TPI Luciano Iallongo, attivista dei Blocchi precari metropolitani (Bpm). “La palazzina è stata finanziata dalla Regione con un milione e 400mila euro. Ci avevano garantito che non sarebbe stata venduta, invece il 3 aprile è stata venduta all’asta, anzi svenduta, a 450 mila euro”.
All’interno dello stabile vivono 32 famiglie che lo avevano occupato a scopo abitativo nel 2007, dopo che l’immobile – destinato a persone anziane con un reddito basso – era rimasto vuoto per due anni.
Adesso le famiglie, per lo più italiane, temono di essere allontanate senza un’adeguata soluzione abitativa. L’immobile è infatti nella lista degli immobili occupati da sgomberare nella Capitale, stilata dal Viminale.
Così i residenti hanno deciso di rimanere a presidiare la sede del municipio finché non avranno ottenuto un incontro con la Regione Lazio, accusata di essere “rimasta a guardare” mentre lo stabile veniva venduto a terzi, apparentemente senza alcun vincolo a realizzare lo scopo sociale abitativo per cui erano stati costruiti gli appartamenti.
“Abbiamo provato a riinterloquire con la Regione Lazio, ad oggi senza risposta”, prosegue Iallongo. “Siamo molto preoccupati, perché conosciamo le soluzioni che offre il comune, con le separazioni delle famiglie e i centri di accoglienza”.
Accanto alle famiglie si sono schierati gli attivisti dei movimenti per il diritto alla casa, tra cui i Blocchi precari metropolitani (Bpm) e Asia Usb del Tufello. Interventi a sostegno dei residenti sono arrivati anche dalla Cgil di Roma e del Lazio e dalla Rete dei numeri pari.
Il vicepresidente del III municipio Stefano Sampaolo durante la conferenza stampa si è impegnato a interloquire con la Regione, anche per capire chi sia il nuovo acquirente.
“Ogni singolo nucleo che sta dentro via Volonté ha una sua storia, una storia che ha a che fare con la decisione di entrare in quello stabile”, sottolinea Paolo Divetta, attivista di Bpm. “Quello che sta accadendo oggi è esattamente la negazione di quelle storie”.
“Si è fatto un gran parlare in questi giorni delle case popolari ai rom”, prosegue Divetta, riferendosi alle vicende di Torre Maura e di Casal Bruciato, “Ebbene, nel caso di via Volonté il 90 per cento delle famiglie sono italiane, ma in questo caso lo slogan ‘prima gli italiani’ non conta, perché vengono considerati italiani di serie B e di serie C. Questo è stato l’atteggiamento dell’amministrazione regionale”.
Occupazione di Gian Maria Volonté, parlano le mamme
“Oggi chiediamo di avere una sicurezza per la casa”. Tre donne, tre mamme delle famiglie che vivono a Gian Maria Volonté spiegano con queste parole a TPI le loro difficoltà e la loro richiesta verso le istituzioni.
“Viviamo sempre con un punto interrogativo: ci verranno a sgomberare?”, si chiedono, “Se il letto si rompe non lo compriamo perché forse ci sgomberano. Se ci sgomberano dove appoggiamo i mobili? Abbiamo iscritto i bambini a scuola, chissà se riusciranno ad andarci o no”.
Le tre donne, tra i 43 e i 33 anni, accettano di parlare in condizione di anonimato. Ciascuna di loro ha due figli, alcuni nati prima dell’occupazione e altri dopo.
Alla domanda su come sia cambiata la loro vita dopo essere andate a via Volonté, rispondono che a cambiare è stato “solo il fatto di avere un tetto sopra la testa”, perché “del resto senza un lavoro non puoi avere niente”.
“Siamo precarie e il lavoro non ci ha mai permesso di pagare un affitto, di pagare la luce”, dicono. “Se no non stavamo qui”.
Il fatto di avere un tetto sopra la testa, chiediamo, ha influito sulla decisione di avere dei figli? “I figli sono arrivati, la decisione è stata di tenerli, dicono”.
“I bambini sì, sono nati dentro un’occupazione, ma nel loro piccolo non lo sanno”, spiegano. “Per loro è casa. Man mano che crescono giustamente loro iniziano a voler portare a casa gli amichetti e sono un po’ limitati in questo, perché alcune mamme neanche mandano i loro figli. La gente lo sa che quella è una palazzina occupata e hanno dei pregiudizi”.
Si dicono tutte pronte a lasciare l’occupazione e a pagare un affitto, purché sia proporzionato al reddito. “Possiamo pagare un affitto agevolato, più di quello non possiamo metterci”.
Non accetterebbero mai, invece, una soluzione offerta dal comune che comporti la divisione delle famiglie.
“Io se mi sono sposata è perché voglio unire la famiglia”, dice una di loro.
“Non lo accetterei mai, anche se sono separata”, dice un’altra, “Non andrei mai in una casa famiglia con le bambine, per me sarebbe una situazione inaccettabile”.