“Non voglio un figlio malformato, è mio diritto abortire e non seppellirlo”: la seconda parte dell’inchiesta sull’aborto
Valeria è abruzzese. Ha deciso di abortire dopo la diagnosi di una malformazione. Quando ha letto la nostra storia sul cimitero dei feti ha contattato TPI: “È capitato anche a me?”. La seconda parte dell'inchiesta "Feti d'Italia" sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 23 settembre
«Non voglio un figlio malformato. È mio diritto abortire e anche sentirmi sollevata per la scelta presa. Non è un sentimento di cui devo vergognarmi. Non voglio nemmeno la sepoltura del feto. Perché farla anche senza il mio consenso e soprattutto se l’aborto è avvenuto sotto le 20 settimane? La legge non lo prevede: le leggi d’avanguardia, di civiltà, in questo Paese non contano più?». La chiamerò Valeria, un nome necessariamente di fantasia. Questa donna teme di subire lo stigma per le parole di libertà che esprimerà nel corso di questa intervista. Quando una donna sceglie di abortire è sempre descritta come dilaniata dalla decisione presa e per alcune è anche vero: «Ma il dolore di mettere al mondo un figlio gravemente menomato con aspettativa di vita ignobile per sé stesso e per la famiglia che lo deve accogliere?». Valeria vive a Teramo, in Abruzzo. Regione governata dal centro destra. Che nesso c’è tra l’aborto di Valeria e il dato politico? Chiariamolo subito: l’Abruzzo è la regione dove nel 2021, poco dopo essere andati al governo, tre consiglieri, tutti uomini, del partito di Giorgia Meloni, Mario Quaglieri, Guerino Testa e Umberto D’Annuntiis, hanno presentato una proposta di legge per prevedere la sepoltura dei feti di età gestionale inferiore alle 28 settimane in una specifica area cimiteriale, a prescindere dalla volontà dei genitori. La proposta giace attualmente in commissione. Non è un caso isolato. Anche il senatore Luca De Carlo, Fratelli d’Italia, ricandidato, è primo firmatario in Parlamento di una proposta simile a quella dei consiglieri abruzzesi. L’Abruzzo è anche la regione dove sempre nel 2021 è stata approvata una mozione dal Consiglio comunale di Pescara, presentata da Fabrizio Rapposelli (FdI), con cui si propongono incentivi alle donne che scelgono di non abortire. Perché, in premessa, si fa intendere che si abortisce sempre per motivi economici. E anche questo è un pezzo di verità, non tutta.
Giorgia Meloni lo ripete ovunque: non voglio modificare la 194. Peccato non averle potuto fare le nostre domande, riportarle quelle di Valeria. Sono giorni caotici di campagna elettorale, sarà certamente per questo che i telefoni squillano a vuoto. È senz’altro vero che nei programmi non c’è alcun indirizzo politico per modificare la 194. Ma se la battaglia politica pro life fosse un’altra? Se il terreno di scontro si fosse spostato negli ultimi anni dal diritto di abortire al diritto del feto di essere seppellito? In fondo nelle battaglie politiche più complesse spesso si scelgono obiettivi intermedi da raggiungere, più fattibili. Sdoganare il concetto che il feto è una vita sin dal concepimento e che come tale merita degna sepoltura di qualsiasi settimana sia, anche senza il consenso di madre e padre, potrebbe essere la nuova frontiera. E se fosse così, non sarebbe comunque un modo per smantellare la legge 194?
Dunque, riparto da Valeria. Tre settimane fa sempre su questo giornale ho pubblicato un lungo reportage dalle Marche, anch’essa regione-simbolo della nuova destra a trazione meloniana. Una storia di cimiteri che non sono cimiteri, di feti che vengono trasformati in bambini, di donne per cui è sempre più difficile abortire, di autorizzazioni, di piccola burocrazia mortuaria usata come cavallo di Troia per imporre battaglie politiche, di simboli e di ideologie. Ho scritto e lo ripeto che il tema della “sepoltura” è diventato un doppio grimaldello: un modo per sacralizzare i feti, è il cuore della questione politica secondo me. E Meloni si guarda bene da esprimersi in tal senso. Sia chiaro: Marche e Abruzzo sono regioni oggi governate dalla destra, in passato sono state guidate dal centro sinistra che quanto ad ambiguità ed errori su questi temi – all’atto pratico – non sono senza peccato.
Valeria mi contatta dopo aver letto la storia del cimitero dei feti di Pesaro, gestito da “Difendere la vita con Maria”, una Onlus di Novara, tra le prime in Italia ad avviare la pratica di stringere accordi con le aziende ospedaliere e i Comuni per seppellire i prodotti abortivi. La Onlus nelle Marche ha una Convenzione con l’Azienda Ospedaliera Ospedale Riuniti Marche Nord. I feti provenienti dall’ospedale di Pesaro vengono da loro sotterrati nel minuscolo cimitero di Santa Marina Alta, nel Campo di Sant’Agnese. Nella convenzione non è specificato di quante settimane devono essere i feti che l’Ospedale è autorizzato ad inviare alla Onlus e nemmeno se sono di aborti spontanei o di interruzioni volontarie di gravidanza. Fino a 20 settimane il prodotto abortivo dovrebbe essere smaltito come rifiuto sanitario speciale. Tra le 20 e le 28 settimane si procede alla sepoltura previo permesso di trasporto e seppellimento rilasciato dall’unità sanitaria locale su domanda dei parenti o chi per essi entro 24 ore dall’aborto. Con età gestazione presunta superiore a 28 settimane la sepoltura invece è obbligatoria. Questo dice in estrema sintesi l’articolo 7 DPR 285/1990. E invece da tempo ogni regione, comune e addirittura ospedale fa un po’ come vuole. Le procedure si sono moltiplicate, non esistono regole trasparenti e valide per tutti. In molte parti d’Italia le associazioni pro life hanno occupato i vuoti legislativi di leggi importanti certamente, che vanno difese, come la 194, ma forse, senza paura di dirlo ad alta voce, leggi comunque datate, figlie di compromessi storici di un’epoca ormai superata. Si spera.
Valeria legge il mio articolo sul caso Pesaro e sente il bisogno di cercarmi. Di raccontarsi. Inizia così. «A giugno scorso, alla soglia dei 38 anni scopro di essere in attesa del secondo bimbo, gioia immensa, lo volevo. Il 12 agosto vado in ospedale per fare la traslucenza nucale, arrivo spavalda, con la sicurezza di chi sa già tutta la procedura e vuole solo conoscere il sesso del nascituro». Ma la visita diventa molto lunga, silenziosa, a tratti minuziosa… c’è qualcosa che non va! «Ad un certo punto le ginecologhe si siedono davanti a me, fanno uscire dalla stanza mia madre e con molta delicatezza mi spiegano che nelle misurazioni hanno riscontrato dati che ravvisano delle problematiche, e che è opportuno io faccia una villocentesi».
La prima decisione Valeria la prende in quel momento. Avrebbe potuto non farla, scegliere di andare avanti lo stesso senza conoscere l’esito di questo esame, magari perché convinta di portare a termine la gravidanza in ogni caso. Valeria invece vuole indagare. Il desiderio di essere madre per la seconda volta è forte, ma forse non a qualsiasi costo. Tutto accade in piena estate, quando il mondo si ferma e sembra più lento. «Quando arriva il risultato la diagnosi è certa: trisomia 21 e 18». Cioè sindrome di Down e di Edwards. «Mi spiegano che l’aspettativa di vita di mio figlio non sarebbe stata più di 3 anni, nella più idilliaca delle situazioni non avrebbe mai camminato, spezzato da varie malformazioni fisiche. E poi c’eravamo noi: io, il mio compagno, il nostro primogenito. Mettendo al mondo un bimbo così gravemente malato tutti ne avremmo pagato le conseguenze. Ho pensato: non sorriderà mai lui, tantomeno noi». Valeria sa che dire queste cose attira su di sé tanti giudizi. È comunque suo figlio, questi sembrano invece calcoli matematici. «Io ho pensato anche a noi, alla nostra futura sofferenza. Non me ne vergogno». Dopo la villocentesi Valeria si prende una settimana, anche se in cuor suo ha già deciso. «Il 25 agosto, ho iniziato la procedura per l’aborto terapeutico. Ero alla quindicesima settimana». E qui la prima stortura che scopre e che non le va giù. «Alle 8.30 del mattino quel giorno la prima cosa che ho dovuto fare è stato l’incontro con lo psichiatra. Scopro lì che è una tappa obbligata per poter procedere con l’aborto. È lui che mi deve rilasciare un certificato in cui si stabilisce che questo aborto lo devo fare per forza, per preservare la mia salute fisica e mentale». Ma Valeria non è però sul punto di suicidarsi, di fare gesti inconsulti. È una mamma, ha ponderato tutto. È scossa, triste. Seppur dolorosa però la sua decisione è liberatoria. «Nessuno dovrebbe mettere il naso in questo percorso. Nessuno dovrebbe autorizzare una donna quando ha già scelto. Quando ti siedi davanti allo psichiatra, devi rispondere alle sue domande, gli devi raccontare la tua vita, dar conto delle tue decisioni». E tu magari eri arrivata li serena, forte, decisa «e invece una volta là il tuo sistema mentale piomba nuovamente nel caos». Nel suo referto psicologico c’era scritto, infatti, che era visibilmente disturbata, scossa, tremava, gesticolava. «A me è rimasta la sensazione che queste procedure siano figlie di un compromesso storico tra laici e cattolici, escamotage del passato per autorizzare l’aborto e però salvarsi la coscienza: poverina dobbiamo farglielo fare altrimenti si ammazza».
Superato lo scoglio della visita psichiatrica ecco subito il secondo. «La ginecologa mentre compila la mia scheda, mi chiede tre cose: vuole che le venga restituito il feto (o materiale abortivo)? Vuole procedere all’autopsia? Vuole procedere alla sepoltura? Giuro che questo è stato il momento più penoso». Valeria è lì dopo aver messo d’accordo anima e cervello. È una donna consapevole, legge, studia, si informa. Conosce i suoi diritti. È alla quindicesima settimana sa che quello che espellerà è un prodotto abortivo, che va smaltito come rifiuto speciale sanitario. Risponde composta lo stesso: «Non voglio che mi venga restituito il feto, non voglio seppellirlo».
Due giorni dopo una nuova doccia fredda: le viene chiesto ancora una volta cosa vuole farne del feto. «Alla ginecologa ho risposto tu me lo devi ri-chiedere e io ti rispondo ancora, lei ha trascritto la mia volontà. No, non voglio procedere al ritiro del feto, no non voglio procedere alla sepoltura. Ho firmato».
Le somministrano la pillola RU486 e dopo due giorni torna in ospedale. È il 27 agosto. «A questo punto mi inducono il parto, iniziano le contrazioni, si rompono le acque, mi assistono amorevolmente, mi dicono però di fare il possibile perché il feto in fase di espulsione si preservi, deve andare in anatomia patologica per l’autopsia». Valeria espelle in un catino il prodotto abortivo, dice alle infermiere che non vuole vederlo. «Vi prego, non voglio girarmi, non fatemi prendere il catino, voglio uscire guardando avanti. E loro mi hanno assistito, messo il pannolone, accompagnato sul letto, fatto uscire la placenta, tagliato il cordone.
E poi la ginecologa mi ha detto: purtroppo devo portare il catino qui in stanza per raccogliere il resto e mandare tutto in anatomia patologica». Valeria continua a non guardare. Se quelle dottoresse e infermiere non l’avessero rispettata forse lei non avrebbe retto. «Come si può pensare di metter bocca su queste cose, come si fa a trasformarlo in tema di consenso».
Valeria torna a casa, cura le ferite dell’anima, riparte. Legge la storia dei cimiteri dei feti, mi chiama: «Potrebbe essere accaduto anche a me?». Cosa ti hanno spiegato in ospedale? «Che dopo la 12esima settimana sono tenuti a chiedere alla donna cosa vuole farne del feto. Non mi risultava ma in quel momento non ho obiettato». E su sepoltura o smaltimento? «Non ho fatto domande in tal senso, ricordavo la norma e do per scontato sia stata rispettata. Non voglio che il feto sia seppellito né da me né da altri». Come spesso mi accade da quando indago sulle procedure di esecuzione di aborti volontari e terapeutici, scopro tutte le volte che la legge non è chiara su tutto. Mi sono rivolta a tre esperte.
«Fino a 20 settimane il prodotto abortivo dovrebbe essere smaltito come rifiuto sanitario speciale». Ilaria Boiano, avvocato di Differenza Donna, che nel 2020 avviò una class action per difendere le donne che avevano abortito e che a Roma si erano viste violare la privacy, con i loro nomi sulle tombe dei feti abortiti. Ma le domande su sepoltura e restituzione prodotto abortivo fatte a Valeria in ospedale sono previste dalla legge? «Gli embrioni e i feti umani prima delle 20 settimane di gestazione vengono definiti “prodotti del concepimento” e i parenti (non solo i genitori ma non è specificato il grado) hanno 24 ore di tempo per scegliere di occuparsi della sepoltura o no. Trascorse le 24 ore, si entra in un campo non chiaramente normato», dice la dott.ssa Alessia Salvemme Presidente Aied L’Aquila.
«C’è una falla sul punto della raccolta del consenso esplicito della donna sulla sepoltura del feto. Diversi ospedali non lo chiedono, è invasivo, indelicato, brutale. Se per 24 ore nessuno rivendica il prodotto abortivo procedono per smaltimento o sepoltura a seconda della settimana gestazionale. Però certamente il punto andrebbe chiarito perché la legge è datata e va corretta», Giulia Crivellini, avvocata, attivista di Radicali italiani, promotrice della campagna “libera di abortire”. E il consulto psichiatrico per procedere è obbligatorio? «La legge 194 non prevede obbligatorietà in nessun caso», spiega sempre l’avvocata Crivellini, «tuttavia nella prassi per aborto terapeutico sempre più spesso si passa attraverso un consulto di tipo psicologico perché la legge richiede che quella condizione di malformazione del nascituro o di anomalia rilevante determini “un grave pericolo per la salute psichica o fisica (art.6). Non è scritto da nessuna parte che la donna può interrompere la gravidanza punto, nemmeno nelle interruzioni volontarie entro la dodicesima settimana, semplicemente perché non vuole quel figlio, devono sempre sussistere una serie di circostanze normate».
Valeria mi ha cercato perché voleva capire. E io alla fine di questo percorso sono più confusa di prima. Perché all’ospedale di Teramo le hanno chiesto due volte di pronunciarsi sulla sepoltura di un feto abortito alla quindicesima settimana? Che fine ha fatto quel feto? Alla fine dopo innumerevoli telefonate a vuoto a consiglieri regionali di diversi schieramenti (quasi tutti ignari della materia), siti internet istituzionali sprovvisti di informazioni, numeri che squillano a vuoto, una ginecologa non obiettrice abruzzese accetta di parlarmi, anche lei però solo in anonimato. «Mi infastidiscono enormemente queste domande alle pazienti. C’è da dire però che noi non obiettori siamo in trincea. La pillola RU486 si usa a Teramo e ad Avezzano, basta. Proprio in questi posti c’è un’affluenza mostruosa. Siamo pochissimi non obiettori. Arrivano donne che si lamentano di aver dovuto affrontare veri e propri calvari, nessuno dà loro informazioni chiare, e quando arrivano spesso è anche tardi per fare l’aborto medico con la RU486, perché sono già alla ottava, nona settimana, pertanto non resta che procedere con l’aborto chirurgico. È un grande problema. È veramente tosta, io ci credo veramente in quel che faccio ma spesso mi viene voglia di mollare, dobbiamo gestire situazioni drammatiche, la ragazzina che piange, le donne che sono quasi alla 12esima settimana e quindi devi intervenire d’urgenza». Quindi dottoressa, Valeria ha raccontato la verità? Il consulto psichiatrico, le domande esplicite sulla sepoltura del feto, sono parte della procedura ospedaliera a Teramo? «Da circa un anno sì, è una novità.
A Teramo si chiede il consenso esplicito sulla sepoltura però, da quello che mi risulta, solo alle donne che eseguono aborti terapeutici dopo la 12esima settimana». Perché? «È stato il reparto di anatomia patologica a sollevare la richiesta. Hanno detto che è necessario per mettersi al riparto da eventuali contenziosi legali di famiglie che potrebbero rivendicare il feto anche molto tempo dopo. È stato così stilato un protocollo, da far firmare alle donne. Un benedetto foglio che però io non ho mai visto. Nel frattempo l’indicazione data è stata comunque di riportare a voce il contenuto e trascrivere le risposte nella cartella clinica con la loro apposita firma». E come mai dopo un anno il foglio non è ancora stato distribuito? «Eh, una volta dicono che servono altre modifiche, altre che occorre un passaggio formale dal comitato etico dell’ospedale, dalla Asl e dalla Regione». Ah perché non c’è stato? «No che io sappia. Non so altro però. Inutile che le dica che si tratta di una cosa veramente antipatica. C’è una grande confusione e il momento politico non aiuta». Al cimitero di Teramo confermano che esiste un’area dedicata ai feti inviati dall’ospedale ma non dispongono di un registro e non sanno di quante settimane sono i prodotti abortivi che ricevono. Non ho risposte certe da dare a Valeria. La ginecologa promette di trovare altre informazioni anche su sepoltura e smaltimento, ma poco prima di chiudere questo articolo, mi richiama e si tira indietro. «Devi fare una richiesta ufficiale di intervista. Io non so niente». La farò anche se ai numeri ufficiali però nel frattempo continua a non rispondere nessuno. Solo per rassicurare Valeria, del fatto che il suo feto non è in una sepoltura multipla senza che lei lo sappia. Che è stato smaltito, perché di 15 settimane. Perché questo era ed è la sua volontà.