Migranti, Mediterranean Hope a TPI: “Lampedusa è diventata la nuova frontiera tra la vita e la morte”
Alberto Mallardo, referente del programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia a Lampedusa, racconta gli ultimi giorni sull'isola
Lampedusa, il racconto dell’ultimo naufragio di migranti sull’isola
“Quando vedi i corpi arrivare al molo Favarolo di Lampedusa capisci che la frontiera sta cambiando”.
La frontiera di cui parla Alberto Mallardo, referente del progetto Mediterranean Hope – il programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) – a Lampedusa, non è solo quella tra la Libia e l’Europa, ma tra la vita e la morte.
Sempre più migranti naufragano a ridosso delle coste di Lampedusa dopo la traversata nel Mediterraneo, e così i morti tornano a farsi vedere, proprio come è avvenuto il 3 ottobre 2013, quando per la prima volta i corpi di 368 migranti annegati mostrarono al mondo la gravità di un fenomeno che esisteva da sempre, ma che restava nel fondo del mare.
Adesso anche i corpi che restano sul fondale si mostrano in tutta la loro atrocità, come quelli del naufragio del 7 ottobre scorso, che i sommozzatori della Guardia Costiera hanno identificato a 6 miglia da Lampedusa e che in questi giorni inizieranno a recuperare, insieme al relitto di legno in cui sono annegati.
“Oltre alle 12 persone avvistate martedì ce ne potrebbero essere altre che i sub non sono riusciti a localizzare . Alla profondità di 60 metri la distanza era troppa per localizzare i cadaveri all’interno del relitto”, spiega Alberto, che vive a Lampedusa da quattro anni e si occupa dell’assistenza ai migranti dopo lo sbarco e che ha visto l’isola cambiare nel tempo.
“Ma domani inizieranno le nuove ricerche per recuperarlo”, dice.
Tra i cadaveri identificati, quello di una mamma che giaceva abbracciata a un bimbo di pochi mesi a 60 metri di profondità. Dovrebbe essere suo figlio.
Alberto non ha visto i loro corpi, ma gli è bastato guardare i cadaveri delle venti donne recuperate subito dopo il naufragio e i volti dei superstiti per sentire tutto il dolore di questa ennesima tragedia.
“Ero presente al momento d’identificazione delle salme”, racconta Alberto. “I superstiti hanno avuto difficoltà ad avvicinarsi alle bare e procedere all’identificazione dei corpi. Si rifiutavano di guardarli. Una ragazza ha avuto un malore. Nemmeno io riuscivo a guardarli”, spiega. E racconta che assistere a scene così desolanti è la norma sull’isola negli ultimi giorni.
“Sono stati giorni difficili e non escludiamo che ce ne possano essere altri, con nuovi sbarchi o nuovi naufragi”.
“Domenica sono sbarcate in autonomia centinaia di persone, tra cui 10 donne e un bambino che aveva appena una settimana. Faceva effetto vederli arrivare soli, sapendo che avevano affrontato tutto il viaggio in autonomia. Con tutti i segni della stanchezza. Si erano arrangiati da soli, ed era un’immagine impressionante”, racconta ancora.
Intanto, poche ore dopo il ritrovamento dei corpi del naufragio del 7 ottobre, due motovedette hanno operato un salvataggio nelle acque Sar maltesi perché La Valletta non ha risposto alla chiamata del centro di coordinamento, e 180 persone sono sbarcate al molo commerciale.
“All’una e mezza di notte le motovedette sono arrivate a Lampedusa. A bordo 180 persone, di cui 11 donne, una bambina e diversi minori non accompagnati. Hanno nazionalità diverse ma vengono tutte da Tripoli, e dei mesi trascorsi in Libia portano addosso i segni”, racconta.
E ancora, mentre i 180 superstiti sbarcavano a terra, diversi pescatori hanno segnalato un naufragio di cui non si hanno riscontri: un’imbarcazione si sarebbe trovata a 35 miglia a sud ovest di Lampedusa con 7 corpi intorno.
È questa la frontiera di cui parla Alberto, a 35 miglia a sud ovest di Lampedusa, dove i morti e i naufragi stanno aumentando a causa dell’assenza di un sistema di soccorso e del fatto che la Guardia Costiera opera al massimo a 15 miglia da Lampedusa.
Intanto, la presenza delle navi Ong di ricerca e soccorso in mare è sporadica. Non esiste insomma un meccanismo tale da contenere i morti, come avveniva fino al 2017.
Secondo i dati raccolti dal ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, nell’ultimo anno il rischio di morire lungo la traversata è passato dal 2,4 per cento del periodo 2014-maggio 2018 al 6,2 per cento del periodo giugno 2018-giugno 2019.
Fino al maggio del 2018 moriva una persona ogni 45 di quelle che partivano, mentre nell’ultimo anno muore una persona ogni 14 di quelle che partono dalla Libia, riporta Villa.
Ma sull’isola arrivano sempre più imbarcazioni di legno. Alberto ipotizza che il motivo per cui le morti si verificano a ridosso delle coste italiane è che, in assenza di soccorsi, i migranti cercano di arrivare a destinazione in modo autonomo, e per questo i naufragi avvengono alla fine della traversata.
“I gommoni ci sono ancora, ma i migranti sono tornati a viaggiare anche a bordo d’imbarcazioni di legno più grandi, che permettono quindi di affrontare il viaggio in autonomia, se non ci sono incidenti”.
Significa cioè che, nonostante l’assenza di un meccanismo di salvataggio, le persone che s’imbarcano e i trafficanti che provvedono a farli partire, fanno di tutto perché il viaggio vada a buon fine.
Così i relitti di legno si sono moltiplicati negli ultimi mesi, ammassati sulle spiagge di Lampedusa a testimoniare la fine dell’ennesima traversata.
“Come progetto denunciamo l’assenza di un sistema di soccorso europeo e chiediamo l’apertura di vie legali d’ingresso”, denuncia Alberto.
“Quello nel Mediterraneo è un sistema di viaggio mortale che si basa sul traffico di esseri umani che finanzia mafie locali. Chiediamo l’apertura di vie legali e sicure d’acceso, in particolare per tutte quelle persone vulnerabili già riconosciute dall’Unhcr come aventi diritto d’asilo in Europa, che però non possono iniziare l’iter per fare domanda”, continua.
“I viaggi dovrebbero essere regolarizzati, prevedendo anche un decreto flussi per i lavoratori e l’ampliamento delle ipotesi attualmente in vigore per i ricongiungimenti familiari”.
Altrimenti l’unica alternativa rimane attraversare il mare rischiando di morire per ottenere un permesso di soggiorno.