“Noi, lavoratori dei musei del Trentino, sottopagati e senza tutele: impossibile andare avanti così”
In Trentino c’è una questione che per troppo tempo è rimasta sottotraccia. Riguarda i lavoratori dei musei Muse e Mart di Trento e Rovereto, che ormai da molti anni versano in una condizione di precarietà e mancanza di diritti fondamentali. Per quanto tristemente comune, la condizione dei lavoratori museali trentini va avanti da prima della crisi da Covid-19.
Il Muse e Mart vedono occupati un gran numero di dipendenti specializzati, la cui esperienza è un fattore fondamentale per la qualità dell’offerta culturale dei musei stessi. La maggior parte di questi operatori non è assunta però dall’ente provinciale, ma da cooperative che si sono aggiudicate l’appalto. L’immediato effetto di queste esternalizzazioni riguarda le condizioni dei lavoratori, i quali spesso sono inquadrati in contratti a chiamata come operatori sociali o multiservizi, nonostante sia loro richiesta una laurea e una notevole specializzazione.
Questo fattore causa condizioni di lavoro spesso insostenibili, come l’assegnazione dei turni da un giorno all’altro, la forte variabilità dei salari di mese in mese (spesso totalmente assenti), la mancata retribuzione delle ore dedicate alla preparazione di lezioni o conferenze.
TPI ne ha parlato con Valeria Marchi, mediatrice museale del Mart di Trento e Rovereto: “Il lavoro del mediatore museale è fondamentale per la vita di un museo perché si occupa di svolgere, programmare e portare avanti programmi educativi come le classiche visite guidate e i laboratori. È quindi una figura professionale che si occupa di comunicare, valorizzare e organizzare attività che hanno a che fare con l’educazione, le collezioni e le opere d’arte del museo stesso. Lavoro al Mart dal 2009, dunque sono molti anni di attività professionale”.
“Inizialmente molti di noi hanno lavorato con contratti di collaborazione coordinata continuativa, fino a che nel 2017 non si è deciso di esternalizzare i servizi educativi del museo, trasformandoci in dipendenti di una cooperativa esterna con un contratto a intermittenza, quindi in sostanza a chiamata. Il nostro lavoro è un lavoro che non ha una regolarità perché dipende dalle prenotazioni del pubblico, ciò implica che non abbiamo un orario fisso e non abbiamo un monte orario minimo o massimo a settimana, in pratica si tratta di un lavoro periodico”.
“Solitamente – continua Valeria – lavoriamo in relazione alle mostre da settembre a gennaio e poi con la ripresa di marzo, aprile e maggio. Questa intermittenza e periodicità porta ovviamente con sé dei forti svantaggi perché non abbiamo uno stipendio mensile fisso: possiamo lavorare 4 ore in una settimana, 10 ore in un’altra, fino a passare a settimane intere in cui non lavoriamo. Con questa occupazione intermittente siamo pagati 15,28 euro lordi all’ora per erogare servizi educativi, quindi è purtroppo evidente che non avendo una programmazione o un monte fisso di lavoro, quello che guadagniamo è davvero molto poco”.
“Quando avevamo un contratto direttamente con il museo non eravamo tutelati per altri motivi, in quanto non avevamo nessun tipo di relazione dipendente: le malattie, le ferie, non erano assolutamente contemplate e pagate ma potevamo almeno godere di una tariffa oraria più alta”, conclude.
In una regione con un costo della vita oneroso come quello del Trentino, Valeria come molti altri operatori di questi musei, faticano ad arrivare a fine mese, nonostante i molteplici sforzi profusi anche attraverso gli studi. Il gruppo di delegati del Muse iscritto alla Cgil è dello stesso avviso. A TPI spiegano: “Gli operatori hanno potuto godere solo della maternità, della paternità neanche l’ombra, questo perché a nostro avviso è stato impossibile conciliare vita lavorativa e privata. In un periodo storico in cui si cerca di attuare la parità di genere, un ennesimo fallimento. Non è inoltre un caso che da quando il Muse ha aperto nel 2013, ben 102 lavoratori hanno lasciato il posto di lavoro, incompatibile con gli impegni personali ed una vita dignitosa”.
Si tratta di musei, quelli trentini, di grande fama, che vantano la messa in opera da parte di “Archistar” del calibro di Renzo Piano e Mario Botta. E tuttavia, come vi abbiamo documentato, le condizioni dei lavoratori al momento non sono certo all’altezza di questa fama.