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Home » Cronaca

Mobbing, la vera storia della Palazzina Laf: il primo lager d’Italia per i lavoratori ingovernabili

Immagine di copertina
Un fotogramma del film "Palazzina LAF" di Michele Riondino

La scoperta nel 1998 di un reparto confino nell’Ilva di Taranto portò alla prima, storica condanna per mobbing nel nostro Paese. Oggi quella storia è diventata un film. TPI ne ha ripercorso le tappe con la psichiatra Marisa Lieti, che per prima portò alla luce la vicenda

«Chiudete quel lager. C’è chi vuole uccidersi». È il 6 novembre del 1998, esattamente venticinque anni fa. La psichiatra Marisa Lieti, allora direttrice del Centro salute mentale di Taranto, scrive una lunga lettera al Quotidiano di Puglia che ha questo titolo. Una lettera che diventa un articolo in cui la dottoressa denuncia per la prima volta pubblicamente quello che la classe politica locale e nazionale, le organizzazioni sindacali e le burocrazie ministeriali, già sapevano da tempo: che all’ex Italsider di Stato, tre anni prima diventata privata e che ora si chiamava Ilva, esisteva un reparto confino.

Un capannone spoglio e diroccato dentro cui finirono a non far nulla tutto il giorno 79 dipendenti, la maggior parte dei quali impiegati specializzati – anche ingegneri e chimici – che avevano rifiutato la novazione del rapporto di lavoro, cioè il declassamento ad operai.

Isolati
«Se sono finiti lì dentro qualcosa devono pure aver fatto». Era questo il sentimento prevalente nella maggior parte della popolazione che componeva la fabbrica. E questa frase la psichiatra l’aveva sentita ripetere più volte. «All’inizio, per come la vicenda era stata raccontata dai giornali e dalle tv locali, mi sembrava una semplice rivendicazione sindacale, non avevo ben capito la portata reale della questione. La prospettiva mi cambia un pomeriggio del settembre del ’98, quando ricevo al centro un uomo che aveva chiesto di essere visitato da me dopo la segnalazione della medicina del lavoro».

Così ripercorre con TPI i pezzi della storia di quel reparto confino, Marisa Lieti, l’allora direttrice del Centro salute mentale di Taranto che per prima aveva denunciata pubblicamente la sua esistenza: «Quell’uomo mi venne incontro urlando, diceva che non ce la faceva più a stare lì dentro, ma allo stesso tempo che non voleva essere messo in malattia perché temeva ripercussioni più gravi, di essere licenziato».

Racconta Lieti a TPI: «Cominciai con lui e poi vennero tutti da me. Erano 79. Erano emarginati, isolati ed invidiati dal resto dei colleghi perché del lavoro di fabbrica non facevano nulla. E invece si trovavano in quello che era un vero e proprio lager. La palazzina Laf.  Avevano anche un kapò, un dirigente, un certo Greco, che per questo suo ruolo sarà poi condannato».

Continua la psichiatra: «Capii subito che questa faccenda non si sarebbe risolta solo con un sostegno psichiatrico, ma che invece ci sarebbe stato bisogno di un incisivo intervento politico e sindacale». Così, conclude Lieti: «Scrissi una accorata lettera al giornale, che poi finì pubblicata in prima pagina, e in cui lamentavo che molti dipendenti confinati nella palazzina soffrivano di malattie mentali gravi e medie. E che tutti quelli che erano venuti da me avevano manifestato l’intenzione di suicidarsi».

Sorvegliati e puniti
Tra di loro c’era chi, impiegato di settimo oppure ottavo livello, era finito a “lavorare” in un capannone dove esistevano solo scrivanie senza computer, macchine da scrivere, un telefono o un fax. Tutti coloro che avevano rifiutato di firmare per passare volontariamente dalla loro qualifica a quella di operaio, oppure di cambiare rapporto di lavoro, passavano dalla Laf, acronimo di reparto laminatoio a freddo, per qualche mese o anche solo per qualche giorno, a seconda della loro resistenza. C’era un impiegato che aveva tentato più volte il suicidio sul posto di lavoro buttandosi da una gru e che solo per l’intervento dei suoi compagni non aveva riportato conseguenze mortali. C’era un tecnico specializzato che si era rifiutato di manomettere il programma computerizzato che serve per segnalare all’ASL quando il livello delle polveri emesse supera il limite consentito. E tra di loro c’era anche chi aveva mollato, accettando la novazione da ingegnere ad operaio. 

All’indomani della pubblicazione di quella lettera sul Quotidiano di Puglia, il magistrato della procura di Taranto, Franco Sebastio, manda i carabinieri in fabbrica e fa chiudere la palazzina lager. Qualche anno dopo quei fatti, una sentenza di secondo grado infligge un anno e due mesi di reclusione al patron dell’Ilva, Emilio Riva, insieme ad altri dieci dirigenti condannati a pene minori. Tra di loro c’era Luigi Capogrosso, che poi farà carriera come direttore dello stabilimento, e che appena due anni fa è stato condannato in primo grado a venti anni di reclusione, accusato di essere tra i responsabili del disastro ambientale causato dall’Ilva. Ma questa è un’altra storia, forse. Anche se – come scriveva il giornalista Alessandro Leogrande che di questa vicenda se ne è molto occupato: «L’inquinamento che vediamo all’esterno è nient’altro la manifestazione visibile della debolezza dei rapporti di forza tra operai e proprietà che si vivono all’interno della fabbrica». E poi ancora, riferendosi alla Laf, Leogrande raccontava: «Ai lavoratori “confinati” non è chiesto di produrre, ma di trascorrere le giornate senza fare niente, guardando il soffitto o girandosi i pollici, fino a quando quel lento, prolungato stato di inazione non diventa una forma estrema di violenza contro la propria mente e il proprio corpo».

Ricattati
Ed è un omaggio ad Alessandro Leogrande (che ne avrebbe dovuto firmare la sceneggiatura) Palazzina Laf, il film che è stato presentato in anteprima lo scorso 21 ottobre alla Festa del Cinema di Roma e che segna il debutto alla regia di Michele Riondino. L’attore di “Fortapasc” e de “Il Passato è una terra straniera”, dopo essere passato dalla tv con il “Giovane Montalbano” e dal teatro con “Il Maestro e la Margherita”, firma quello che lui stesso definisce «un affresco sociale che vuole raccontare non quello che succede oggi a Taranto, ma quel ricatto da cui quel disastro ambientale ha preso origine». 

«La vertenza Taranto nasce da un ricatto con cui tutti noi siamo cresciuti e costretti a convivere. Quel ricatto occupazionale che avrebbe dovuto vedere me sostituire mio padre in fabbrica in cambio del suo pre-pensionamento. È così che funzionava. Non si può comprendere ciò che accade oggi se non si parte da quella genesi. E, in tutti questi anni in cui mi sono impegnato a sensibilizzare su quel disastro attraverso la musica con il concerto del Primo Maggio, i dibattiti, le prese di posizione, le denunce, ho raccolto il materiale che mi ha permesso di raccontare questa storia», ha spiegato Michele Riondino presentando il film in anteprima a Roma. 

Riannodare i fili della memoria attraverso le carte processuali e le testimonianze dei confinati, è il metodo usato da Riondino per raccontare una vicenda di soprusi e ricatti, un caso che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro italiana. Sullo stesso solco di Elio Petri ne “la classe operaia va in paradiso”, e di Luchino Visconti con “Rocco e i suoi fratelli”, Riondino porta in sala il romanzo nero del lavoro italiano in fabbrica. Quella storia tragica di sorveglianza e punizione che oggi all’ex Ilva di Taranto ritorna in altre forme. Come raccontano le centinaia di migliaia di pagine che sono agli atti del processo Ambiente Svenduto, conclusosi in primo grado appena due anni fa con decine di condanne. Tra gli imputati c’erano i così detti fiduciari di Riva: dirigenti provenienti dalle valli lombarde mandati a lavorare a Taranto come se dovessero governare una colonia. C’era quello che una volta diede in escandescenza e si mise a gridare verso gli operai del rivestimento tubi gridandogli addosso così: “Africani”.

È la genesi dell’Ilva come “istituzione totale”, come relazione tra gli internati e un piccolo staff che li controlla, quella che Riondino racconta in Palazzina Laf. Con uno sguardo a quella realtà assai simile che è la fabbrica italiana degli anni ’50 raccontata da Bianca Guidetti Serra, in “Le schedature Fiat”. È la realtà dei reparti confino dove sistemare gli ingovernabili.

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