Ci indigniamo solo di fronte all’orrore, ma senza vera empatia siamo complici del dramma dei migranti
Migranti – Ma davvero ci serve una foto di un padre e una figlia annegati per sollevare un po’ di indignazione e interrogarsi sul delitto che sono le migrazioni quando incontrano muri, quando affondano nei mari e quando incontrano una politica miope che davvero si illude di poter fermare le persone che scappano dalla fame e dal piombo?
La sensibilità di quest’epoca è governata dalla tragicità delle immagini che i media scelgono di mostrare, come se all’interno della Sea Watch o nelle prigioni libiche accada qualcosa di cui ci possiamo disinteressare in nome del non vedo, non so e quindi non me ne interesso.
È un tempo triste quello che ha bisogno di essere corteggiato dall’orrore per uscire dall’insensibilità quotidiana, come se l’empatia del mondo fosse finita improvvisamente, fuori allenamento, esaurita solo per le nostre piccole cose, quelle più vicine, rinchiusi nei nostri salotti e nei nostri gretti cortili in cui brighiamo solo ciò che è nostro e lasciando perdere tutti quelli che possono essere considerati loro.
Eppure l’empatia è un muscolo che andrebbe allenato anche senza bisogno di cadaveri che ci passano sotto il naso, senza il bisogno di essere sollecitata dalle tragedie che ci offre la cronaca ma con uno sguardo largo e una chiave di lettura collettiva.
Sono mesi, ad esempio, che le sevizie in Libia vengono documentate e denunciate eppure si riesce ancora con leggerezza a indicarla come porto sicuro. Qualcuno vorrebbe spingerci a un diritto all’egoismo (se non addirittura un dovere) che è stato sdoganato con una leggerezza terribile e feroce.
Ciò che non vediamo non esiste ci dicono i governanti, e così ci illudiamo di essere liberi quando semplicemente aneliamo a essere comodi. Bisognerebbe, tutti insieme, mettersi d’accordo su un’empatia sociale che abbia un minimo sindacale da rispettare, decidere una volta per tutte di occuparsi anche di ciò che accade oltre il cancello del proprio condominio, smetterla di questionare di principi e di lezioni sulla pelle dei migranti.
E forse ci verrebbe voglia di conoscere le storie di questa gente, che non sono solo numeri da rinfacciarsi urlando durante le trasmissioni televisive e invece hanno braccia, gambe, cuore, storie, affetti, talenti, esattamente come noi.
Bisognerebbe dare un nome e una storia anche a quelli che sono sotto a Mediterraneo, quel cimitero liquido che è diventato il sacchetto dell’umido dei nostri errori e dei nostri orrori che riusciamo a sopportare così amabilmente, come se non esistesse, come se non fosse niente.